Alberto Mozzati avrebbe meritato la grande carriera. Il suo pianismo, impetuoso e controllato, romantico e razionale, riuniva l’eredità della grande tradizione e il rigore, la lucidità intellettuale dell’esecutore moderno. L’amore per la filologia, la profonda conoscenza dei problemi testuali, l’interesse per ogni nuova impresa editoriale ne fecero un didatta senza pari. Ho accarezzato per anni la speranza di aiutarlo a stendere e pubblicare un suo metodo di impostazione pianistica che ritengo insuperato e che mi auguro qualcuno dei suoi tanti discepoli possa tramandare. La sua apertura intellettuale, il suo vivere l’oggi con l’occhio al domani hanno procurato a Mozzati l’amicizia e la stima profonde dei musicisti più rappresentativi, anche di quelli di lui tanto più giovani.
Sono molti coloro che, come me, gli devono insegnamenti fondamentali. Mi regalava notti intere, sino a che il primo tram del mattino mi riportasse a casa, ad ascoltare dischi della sua strepitosa raccolta, commentandoli con la pacatezza e la partecipazione di un uomo sempre attento alla fatica degli uomini.
In ogni esecuzione, anche modesta, sapeva cogliere il bagliore del momento magico e sottolinearlo in modo impareggiabile con analisi insieme tecniche e poetiche. La bontà d’animo, la generosità senza pari lo portavano a vedere soltanto gli aspetti positivi, scovati anche dove sembrava impossibile ricercarli. Mai una parola dura contro il mediocre che toglie spazio, l’arrampicatore, l’invidioso, il supponente: per tutti un incoraggiamento e un gesto solidale.
Analizzava i testi pianistici con la visione pluridimensionale che viene riservata alle complesse partiture sinfoniche. Alla mentalità del pianista di eccelsa professionalità accoppiava quella del direttore d’orchestra uso a sentire inesauribili impasti timbrici, plurimi contrappunti, gerarchie di equilibri complessi. Gli dicevo sempre che se fosse stato un direttore d’orchestra sarebbe stato grande e lo identificavo nel modello supremo di Victor De Sabata, cui lo accomunava un orecchio sbalorditivo.
A lui, che mai volle assumere atteggiamenti da docente, risalgono gli strumenti fondamentali, le linee portanti, le idee-chiave della mia formazione professionale. Quando glielo dicevo, sempre più cosciente di ciò col trascorrere degli anni, se ne scherniva scuotendo più rapidamente nel posacenere l’ennesima sigaretta, sbattendo imbarazzato quelle palpebre che coprivano occhi spenti solo per l’anagrafe. Perché Mozzati aveva talmente allargato i confini terribili della cecità che chi gli stava vicino poteva arrivare a dimenticarla.
In anni ormai lontani, con Alceo Galliera e Giulio Confalonieri eravamo riusciti ad aprirgli un importante canale a Londra e Vienna. Gli fui accanto nei concerti alla Wigmore Hall e alla Musikverain: come tutti i cavalli di razza Mozzati dava il meglio nella grandi occasioni. Quei concerti furono un trionfo di pubblico e di critica; l’impresario, commosso e sorpreso, mi disse: “é fatta”. Passarono mesi impazienti di attese e di speranze, garbatamente smorzate dall’ironico scetticismo di Alberto. Poi la doccia fredda: molte società concertistiche si erano interessate, agli echi di quei successi, ma quando avevano saputo che si trattava di un pianista cieco….. Lui aveva perdonato al mondo di avergli tolto la luce; il mondo non gli perdonava di aver cancellato, con sforzo sovrumano, la sua diversità.
Alberto Zedda