Sono trascorsi dodici anni dalla morte di Alceo Galliera: chi ha avuto la fortuna di frequentarlo e di ascoltare i concerti da lui diretti non esita a definirlo “grande fra i grandi”.
Due fattori hanno impedito che il grado di popolarità che ha circondato la sua attività di direttore d’orchestra sia stato pari ai meriti: il momento critico in cui é esplosa la sua carriera, quando il Paese, uscito da una guerra resa atroce dalle lacerazioni delle passioni civili, stentava faticosamente a ritrovare una normalità che restituisse all’arte l’attenzione riservata quasi esclusivamente alla lotta per la sopravvivenza; un carattere schivo e severo, che trascurava la ricerca di consensi divistici e disprezzava ogni forma di mercificazione della musica.
Galliera era musicista completo: raffinato compositore, innamorato di Ravel e Debussy; concertista rigoroso; docente di Organo e Composizione al Conservatorio di Milano (una cattedra prestigiosa che giovanissimo si era aggiudicato per concorso succedendo al padre Arnaldo); docente di direzione d’orchestra all’Accademia Chigiana di Siena (dove aveva annoverato fra gli allievi talenti del calibro di Claudio Abbado e Zubin Metha). Nell’insegnamento come nelle prove dei suoi concerti perseguiva senza risparmio l’ideale della bellezza e della perfezione, mai accontentandosi di risultati che a chi ascoltava già parevano eccelsi. Era capace di stare ore al pianoforte per dimostrare a noi allievi come un passaggio di contrappunto potesse trasformarsi da corretto in piacevole. Ci avvertiva che il massimo della musicalità non era la capacità di valorizzare ogni dettaglio possibile, bensì il coraggio di rinunciare a effetti seducenti per non turbare il dipanarsi di una traiettoria in grado di condurre a una costruzione unitaria.
Era durissimo con i discepoli e i collaboratori, ma prima ancora con sé stesso: alla fine di un concerto acclamatissimo, chi andava a complimentarsi lo trovava amareggiato e sconvolto perché un clarinetto aveva inaspettatamente dimenticato un dettaglio di cui nessuno avrebbe potuto rendersi conto. Nella preparazione di un’opera, la concertazione si spingeva a osservazioni tanto minuziose e profonde da disorientare il professore d’orchestra che non fosse in grado di condividere la sua instancabile tensione.
Diceva che il mestiere del direttore d’orchestra poteva essere per un musicista il più facile – se il suo compito si esauriva nell’organizzare con ragionevole sensatezza il lavoro collettivo dei professori ai suoi ordini – o il più difficile – se avesse voluto, come riteneva suo dovere, controllare sino all’ultima nuance l’intervento di ogni singolo esecutore, prefigurandone il risultato e traendone il massimo potenziale tecnico-espressivo.
Il presupposto per ottenere questo risultato era uno studio profondo della partitura d’orchestra, dominata sino alla piega meno significante, e una preventiva messa a punto dei materiali d’orchestra usati per l’esecuzione, controllati sino all’ultimo colpo d’arco (materia che dominava con straordinarie originalità e sapienza) e le più minuziose indicazioni interpretative.
La sua incontentabilità, la sua instancabile tenacia nella ricerca di valori supremi lo portavano a dare scarso risalto e riconoscimento ai risultati positivi (risultati che a suo dire dovevano rappresentare la normalità per un musicista di razza, non l’eccezione da lodare), per soffermarsi invece sulle deficienze da eliminare o le insufficienze da migliorare. Chi non aveva animo sufficiente o sufficiente apertura per reggere alle sue dure analisi, solo apparentemente venate di pessimismo e negatività, poteva uscirne scoraggiato e deluso.
Ma un simile riduttivo giudizio farebbe davvero torto a una figura che non ha esitato a sacrificare un gratificante successo garantitogli dalla stima e il concreto interessamento di un Toscanini (che lo aveva contattato al suo primo rientro in Italia per averlo al fianco), per inseguire la chimera irraggiungibile e sempre meno ricercata di un perfezionismo che non tollera limiti e compromissioni.
Le poche registrazioni discografiche sopravvissute alle interessate leggi del mercato (fra queste un Barbiere di Siviglia con Maria Callas che precorre di decenni l’aristocratico gusto interpretativo rossinano perseguito oggigiorno) sono la prova irrefutabile dei risultati ai quali può condurre la sacrale devozione di un vero, grande artista alla ricerca dell’ideale.
Alberto Zedda