Anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia. Non per te infatti questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato per la vita cosmica (Leggi 903 c).
L’implosione del comunismo, qualunque giudizio se ne voglia dare, ha azzerato un grande progetto elaborato dall’uomo per ordinare secondo giustizia ed equità il governo di una società sottratta alle leggi della giungla, un progetto che ha consentito in Europa la creazione di uno stato sociale che l’egoismo di un capitalismo accecato dal successo tenta costantemente di erodere. Molti se ne sono rallegrati, ritenendo che “una prodigiosa miscela di libero mercato e democrazia, avrebbe trasformato il mondo in un pacifico consorzio di nazioni moderne e civili, in cui gli individui, da cittadini consapevoli e consumatori felici, avrebbero dimenticato per sempre l’odio etnico e il fanatismo religioso” (Amy Chua, World on fire).
Dissoltasi la pia illusione, aumentata la forbice che separa ricchi sempre più ricchi da poveri sempre più poveri, trasformata la lotta di classe in lotta di popoli e nazioni contro la rapace arroganza dei nuovi imperatori, ci si sta rendendo conto che la crisi d’identità che travaglia la società della globalizzazione si è fatta più profonda. Né vale la consolatoria ipocrisia che il turbamento provenga da poche scheggie impazzite, bollate di teppismo anarcoide o di terrorismo criminale, fingendo di ignorare che fra i deprecati ribelli e gli aborriti terroristi si contano reietti disperati e indomiti resistenti al sopruso e all’ingiustizia praticati per interessi inconfessabili; soggetti sciagurati che non di bombe e torture avrebbero bisogno ma di un gesto di umana solidarietà, di una parola di speranza.
Ne è chiara testimonianza la dura diatriba che ha opposto il mondo laico a quello cattolico nella stesura del preambolo alla Carta Magna della Costituzione europea a proposito delle radici della nostra civiltà, che il primo vorrebbe situare nello splendore della tradizione greco-latina, il secondo in quella giudaico-cristiana. Due terreni inconciliabili, drammaticamente opposti: il monoteismo giudaico-cristiano, basato sulla fede creazionista, postula l’uomo concepito a immagine e somiglianza di Dio, signore incontrastato della Natura; la cultura greco-romana giudica riprovevole tracotanza (hybris) tale affermazione, giacché la Natura “che nessun uomo e nessun Dio fece” (Eraclito), rappresenta per i greci antichi il referente da cui trarre indicazioni per il governo dello stato e per un codice morale dell’individuo sottratto al vincolo esclusivo della necessità (ananke).
Platone è lapidario a questo riguardo: “anche quel piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo rapporto col cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione dell’universa armonia”. I comportamenti dovranno dunque tener conto di questa “universa armonia” rispettando il mondo animale e ambientale e non limitandosi a regolare esclusivamente i rapporti fra uomini. Dopo tanti secoli questi concetti tornano a diventare centrali, imponendo all’egoismo del consumista di salvaguardare l’ambiente: aria, acqua, vegetazione, clima, specie animali e quanto sia degradabile per sua opera inconsulta.
Nella confusione di valori e ideali che disorienta l’uomo contemporaneo, serve dunque un nuovo progetto di società, per l’elaborazione del quale non sarà inutile ripassare la lezione della storia e soffermarsi sull’esperienza della Polis greca, modello di governo e prezioso soggetto d’esercizio speculativo, indagato segnatamente dal genio visionario di Platone.
Sarà poi utile confrontare i rilievi maturati da questa ricognizione con l’esperienza del Comune rinascimentale, che della Polis fu discendente diretto, un modello di organizzazione civica che un felice ossimoro di Giovanni Bogliolo, rettore dell’Università di Urbino, definisce “inarrivabile eppure perseguibile”.
La prima lezione che se ne può trarre riguarda la diversa presenza dell’arte e dell’artista in quella società rispetto all’odierna. Oggi l’artista ha poca o nulla voce in capitolo nel dialogo sociale e si sente emarginato in una sterile autoreferenzialità che lo allontana dalla realtà. Nell’antica Grecia, la musica, le arti in genere (il termine mousiké techne– arte delle Muse – definiva, oltre l’arte dei suoni, anche la poesia e la danza) svolgevano una funzione primaria. Ogni espressione retorica veniva rinforzata dal canto, cosicché il verso dei poeti e dei drammaturghi, la preghiera del sacerdote, il peana del vincitore acquistavano una carica emozionale singolare, trasformandosi in strumenti di propaganda politica e culturale. Ogni manifestazione collettiva d’importanza, riti liturgici e carnascialeschi, spettacoli teatrali e sportivi, accademie poetiche e saggi coreuti, incontrava una tale universale popolarità che il canto che l’accompagnava non richiedeva, per essere riprodotto e tramandato, alcun codice di scrittura. La scarsità dei reperti ritrovati (a fronte della quantità e qualità di opere teoretiche sulla musica) si spiega soltanto postulando una tramitazione esclusivamente orale del secolare patrimonio musicale dei greci risalente a rapsodi e aedi pre-omerici. Tutti, ricchi e poveri, colti e analfabeti, sapevano cogliere la diversa emozione suscitata da una melodia lidia (dolce e conviviale) piuttosto che da una dorica (virile e risoluta) o una frigia (serena e persuasiva). Il compito di grandi comunicatori assunto da aedi, attori e musici ha fatto dell’artista, anche in quella società, un personaggio privilegiato, dotato di particolare visibilità, dunque caro al popolo.
Il tema dell’arte ha costantemente interessato Platone, che nei suoi Dialoghi ne fa oggetto di appassionate e contraddittorie riflessioni, incerto se considerarla mezzo di elevazione morale oppure ostacolo ad essa. Si pone per la prima volta la questione centrale, dibattuta all’infinito dall’estetica di ogni tempo, sulla natura oggettiva o soggettiva dell’arte. I giudizi diffidenti, a tratti negativi, dei primi scritti si trasformano, nel lungo tragitto speculativo del filosofo, sino a giungere ad attribuire all’arte e all’artista compiti primari ed essenziali. Platone concluderà che all’arte non compete solamente di recare diletto e contribuire all’armonia dell’universo coltivando la bellezza, ma anche assolvere funzioni pratiche e formative, partecipando sostanzialmente all’educazione dell’uomo colto e responsabile, non a caso definito dai greci mousikós anér.
Le perplessitá che all’inizio spingono Platone a escludere l’artista dalla città ideale nascono da considerazioni d’ordine filosofico, morale e politico. Ritenendo l’arte “imitazione del mondo sensibile”, regolata quindi dai sensi, organi dell’opinione e non della verità, e considerando il mondo sensibile solo una parvenza di realtà, l’arte appartiene alla natura corporea. Se è imitazione del mondo sensibile, che a sua volta è imitazione del mondo reale, l’arte risulta imitazione di terza mano, imitando per giunta, per quanto riguarda l’arte visiva, gli oggetti come appaiono e non come sono. Essendo mimesis del sensibile, l’arte trova nei sensi lo specifico referente, e dunque l’artista poggia le sue facoltà sull’inganno dei sensi: l’opera d’arte è gioco d’opinioni e l’arte per conseguenza è altro che la realtà. Se è così, l’arte si indirizza all’anima irrazionale e rompe l’armonia e l’unità della condotta morale, diventando una minaccia per l’armonia e l’unità delle classi e per il compito educativo che lo stato si prefigge. Con la tragedia e la commedia, i poeti eccitano passioni violente e scomposte e dunque disturbano l’ascesi a quei valori eterni dell’etica e della politica che superando il particolarismo individualistico rendono possibile la realizzazione dello stato ideale e la conquista della felicità per l’anima virtuosa e ordinata. Giudizi severi che si attenueranno nelle opere della maturità, giacché a Platone non può sfuggire che un’opera d’arte, per essere tale, deve essere necessariamente sottoposta al processo di idealizzazione da lui postulato: non limitarsi a riprodurre un oggetto o un particolare sentimento evocato, ma arrivare a cogliere l’idea che sta dentro di essi.
Nella Repubblica sostiene che un’arte irrispettosa delle regole genera disordine e sovversione nocivi al buon governo della città, riconoscendo così all’arte e alla musica un potere tale da arrivare a turbare la religione di stato da lui concepita. Sarà dunque necessario imporre severe limitazioni alla musica e alla poesia per il buon andamento della società. Egli riconosce ancora ai modi musicali e al ritmo forte potere d’incanto, pur sostenendo che debbano comunque restare subordinati al testo. Predilige i modi dorico (che imita i toni e gli accenti di un uomo coraggioso in tensione) e frigio (che asseconda il comportamento sereno dell’uomo prospero). La modalità frigia discendeva dall’attività dionisiaca espressa nel ditirambo, l’inno corale a Dioniso, da accompagnarsi con l’aulos. Nelle Leggi, scritte in tarda età, Platone allarga questo spettro ammettendo un uso più ampio e variato dei modi correnti, anche se ribadisce con decisione il rischio per il buon ordine dello stato di consentire atteggiamenti anarcoidi e individualistici. Disegnando la città ideale sostiene che non si deve lasciare al musicista la libertà di scegliere a piacere ritmi e melodie: il talento e la genialità individuali devono cedere il passo al rigore di un artista disciplinato in senso istituzionale, un poeta civico al servizio dello stato, capace di rispettare le regole con saggezza e maturità.
Nel Convito e nel Fedro Platone riconosce il valore teoretico dell’arte e ribadisce la sua intrinseca qualità educativa, giacché la bellezza è il solo valore ideale che si manifesta attraverso il sensibile. Nel Fedone, riflettendo sulla ricerca del bello e del buono che il filosofo deve trovare in sé stesso e non nelle cose belle e buone che si possono vedere nel mondo, Platone conviene che conoscendo con i sensi oggetti belli veniamo in pari tempo a conoscere l’idea di bellezza, acquisizione questa non di carattere sensibile ma intelligibile. Le riserve non gli impediscono poi di riconoscere alla mousiké, oltre alla virtù di concorrere a stabilire un’armonia del cosmo, presupposto per l’armonia della città ideale (e, per estensione, per l’armonia dell’animo umano), una nobile funzione morale nella formazione e conduzione dell’individuo. E lo inducono a circoscrivere critiche e obiezioni a determinate manifestazioni individualistiche ed eversive collegate con tendenze riformatrici che si allontanano dalla lezione della tradizione. Discettando nella Repubblica della funzione etica dell’arte, egli condivide la disapprovazione dei conservatori verso Timoteo di Mileto, rinnovatore di ditirambi e di nomoi citarodici, accusato di coltivare una “nuova musica” mimetica ed espressionistica capace di suscitare nell’uomo emozioni e passioni che ne turbano l’equilibrio razionale. Come esempio, pone a confronto la dizione di tipo narrativo postulata dalla tradizione, positiva sul piano etico, con quella di tipo imitativo, dove i discorsi vengono riprodotti in prima persona sicché l’autore tende ad immedesimarsi nel protagonista dell’azione narrata.
Non qualunque manifestazione d’arte, è dunque da accogliere. Nel Philebus Platone torna ribadire che “l’arte che non rispetta i numeri e le regole è lasciata alla mercé del capriccio e si abbandona all’empirico affidamento dei sensi”, senza tuttavia arrivare a difendere gli eccessi dei pitagorici fondamentalisti, confutati nella Repubblica, che pretendevano di ritrovare le consonanze musicali valide esclusivamente nelle proprietà taumaturgiche dei numeri. Nel Symposium afferma che le melodie prodotte dall’aulos di Marsia, di carattere orgiastico ed eccitante, avevano una forza di comunicazione incomparabile e suscitavano il bisogno di dei e di misteri e ammette che le proprietà del ritmo e dell’armonia, quando rispondenti alle regole, toccano profondamente il cuore e l’animo e vi rimangono. Nel Timaeus, trattando il tema della mozione dell’animo, Platone afferma che l’armonia aiuta a creare ordine e concordia e il ritmo arriva a disciplinare i moti dell’animo. Un perfetto equilibrio riduce i suoni ad unità che produce delizia intellettuale, rivelando l’armonia divina nascosta nelle mozioni umane.
A Platone non poteva sfuggire che l’afflato dell’arte è indispensabile per raggiungere quell’armonia universale che egli indica come meta dell’umana attività. Se il rapporto dell’uomo con la natura dipendesse soltanto dallo scienziato che ne studia le leggi, se soltanto al saggio fosse dato di cogliere il nesso fra l’ordine naturale e il comportamento morale, come potrebbe l’uomo comune, quell’uomo meschino a cui ha rivolto la bellissima esortazione citata in esergo, arrivare a cogliere quel nesso, indispensabile per arrivare alla conoscenza di sé stesso? E dunque necessario integrare il difficile discorso metafisico con altro più immediato e facile da cogliere, ricorrendo alla suggestione fantastica dell’onirico, in grado di eccitare, oltre che la ragione, i sensi, patrimonio di ogni essere umano in grado di accorgersi di sentire. La religione e l’arte si assumono questo compito; ma mentre lo stregone, il vate, il sacerdote ricorrono alla superstizione della divinità, alla paura della morte, alla minaccia del castigo eterno, l’artista diffonde senza riserve consolazione e gioia di vivere, energia positiva e nobile divertimento. Al freddo rigore della logica si unisce l’emozione irrazionale dell’istinto, trasformando il messaggio da esclusivamente semantico, quindi legato al grado di conoscenza del destinatario, in immagine astratta indirizzabile anche all’istinto sensoriale, patrimonio comune dell’inclito e del povero di spirito. Aggiungendo il pathos del senso all’immagine razionale, l’artista concorre alla definizione del logos, riguadagnando l’alta funzione formativa e conoscitiva postulata da Platone per il sapiente, l’unico in grado di dare ordine allo stato e raggiungere lo scopo primario di realizzare la giustizia. E quale strumento migliore, per smuovere l’animo, dell’aulos di Orfeo che ha incantato gli animali, commosso gli uomini, costretto gli dei a cancellare la morte?
Naturalmente va fatta una distinzione fra l’ascolto di musica sobria e ordinata (che rende l’uomo migliore) e di musica volgare e triviale (che ne peggiora la natura).
Già nella Repubblica si afferma che l’educazione letteraria e artistica, insieme con la filosofia, è indispensabile per conseguire la grazia del corpo e della mente: ginnastica per il corpo e musica per l’anima. Ma in quella musica nulla deve esservi d’impuro, menzognero, meschino, sia nei canti che nelle favole e nei miti, così come dalla ginnastica vanno escluse raffinatezze eccessive e grossolanità violente. Musica e ginnastica, stimolando e alimentando la ragione, frenando e riducendo a docilità e obbedienza la parte irascibile, renderanno l’individuo capace di dominare la parte dell’animo che è sede di desideri, acquistando in cambio sapienza, fortezza, temperanza e l’armonia interiore, dote regale del saggio. Nell’esortazione platonica si coglie una chiara condanna della tendenza odierna a confondere e cancellare il confine che separa la musica colta da quella pseudo-popolare di consumo, esemplificabile in manifestazioni tipo i concerti dei Tre Tenori, le competizioni canore dell’Operazione Trionfo, le sedicenti “opere liriche” dei Cano e Battiato, le gettonate riletture pop dei classici, le ambigue contaminazioni di genere proposte da istituzioni anche auliche.
Concetti ripresi nelle Leggi, dove Platone auspica che l’educazione letteraria e musicale, unendo canto, parola e narrazione, possa arrivare a fondersi in una voce intesa dall’intera comunità e capace di contribuire a formare un codice etico di alto profilo. Alla musica si riconosce ancora una volta la capacità di concorrere alla messa a punto di un modello ideale per la politica, ragione per cui deve essere sottoposta alla giurisdizione dello stato e conformarsi agli ideali civici che costituiscono il kalós kai agathós, oggi detto politically correct. Ne discende la necessità di regolare attraverso una rigorosa educazione (paideia) il comportamento di musicisti e poeti incapaci di distinguere il bene dal male, dissuadendoli dal proposito di conseguire “piacere” prima che “rigore”.
Platone concede all’arte di essere positivamente giudicata anche per il piacere che provoca, purché il destinatario sia l’ascoltatore di alta formazione culturale e politica. La comune radice di paideia e paida (gioco), d’altronde, conferma che la componente ludica dell’arte è fondamentale per una efficace trasmissione del messaggio etico (giova ricordare che presso molti popoli ancora oggi suonare, far musica, viene espresso col verbo giocare (francese = jouer, inglese = to play, tedesco = spielen, etc.). Nel Gorgia Platone ritorna sull’aspetto ludico dell’arte ribadendo che il piacere da essa suscitato deve essere inteso non come fine a sé stesso, ma come mezzo di raggiungimento del bene. Pur affermando, come tutti i pensatori della Grecia classica, la preminenza della parola sulla musica, Platone si rende conto di quanta maggior forza essa può acquisire quando venga congiunta nei modi appropriati alla melodia, riunendo gli elementi etici della logica a quelli profani del gioco postulati dall’arte, esattamente come suggerito dalla consonanza di paida e paideia.
La funzione politica e formativa dell’arte e dell’artista teorizzata da Platone non viene purtroppo condivisa nell’attuale società governata dal mercato, anche perché l’arte (la musica in particolare) è stata emarginata dai programmi scolastici di qualsivoglia ordine e grado al di fuori delle specifiche accademie. Questa colpevole e miope situazione si traduce in una scarsa attenzione all’arte anche all’interno dei nuclei familiari, moltiplicando ignoranza e insensibilità. In una società che sembra aver sostituito il medievale horror vacui con l’horror silentii (non v’è luogo pubblico, dalla hall di un albergo a un negozio di calzature, da una vettura pubblica a uno stadio di calcio dove non si diffondano in continuità musiche roboanti) esistono persone importanti, ritenute colte, che non hanno ascoltato in vita loro una sola nota di Schönberg o di Kurtág.
La cultura musicale dei popoli germanici e anglosassoni trae origine nei luoghi del culto dove i fanciulli incontrano per la prima volta la musica di Bach, Händel, Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, essi stessi unendosi al canto dei corali polifonici che i genitori intonano con naturale facilità. Al divario culturale che ci separa da quelle nazioni la gerarchia cattolica ha colpevolmente contribuito: prima limitando la presenza della musica nelle chiese con gli editti tridentini; poi, col Concilio Vaticano II, bandendo dalla liturgia la lingua latina e obbligando a sostituire le grandi opere dei classici, appunto su testo latino, con insulse musichette diseducative.
Ma la colpa maggiore ricade sul legislatore che, avendo la responsabilità di regolare la formazione accademica attraverso la pubblica scuola dell’obbligo, non si perita di trasferire la propria ignoranza all’intera collettività. Un risultato di questa irresponsabile politica educativa è lo iato che si è creato fra il compositore contemporaneo e un pubblico incapace di intendere i nuovi linguaggi perché assuefatto ad ascoltare quasi esclusivamente opere del passato. Una situazione vergognosa, inglorioso retaggio della nostra epoca, che ha estrapolato la musica dal naturale processo evolutivo del linguaggio indispensabile al progredire del contesto sociale in assonanza con la contemporaneità.
Nella polis, come nel comune rinascimentale, intorno all’agorà dove si radunava il popolo per partecipare alla vita cittadina si ergevano fianco a fianco, con pari imponenza, la Basilica, il Tempio e il Teatro, luoghi deputati a coltivare la giustizia e il potere, la religione e l’arte. Il teatro, dedicato alla commedia e alla tragedia, era anche il centro dell’attività musicale, giacché nella Grecia antica una melodia esclusivamente monodica accompagnava la declamazione di attori, poeti, aedi, financo di pubblici banditori di leggi e decreti. L’osmosi fra canto e recitazione era favorito da una metrica fondata sulla quantità delle sillabe e non sulla disposizione degli accenti tonici come la metrica delle lingue romanze, regolata da schemi rigorosi basati sull’alternanza di valori brevi e lunghi, un procedimento comune tanto alla retorica quanto alla musica. Il ritmo che ne deriva, una delle componenti essenziali della musica insieme con la melodia e l’armonia, determina figurazioni ordinate da principi matematici astratti, stimati da Platone e dai Pitagorici come valori assoluti. Anche la scelta dei tetracordi che orientavano il pathos della melodia verso la melanconia o la gioia, l’eccitazione bellica o la sfrenatezza orgiastica della danza discendono da leggi matematiche, dunque da valori primari. Per questo la musica era considerata una componente indispensabile del processo educativo del cittadino anche da quello stesso Platone che pretendeva espulsare dal suo stato ideale ogni forma di arte mimetica.
Nella storia del comune rinascimentale, fondamentale si rivela l’attività degli umanisti della Camerata Fiorentina, tesa al recupero della cultura classica greco-romana. Per quanto riguarda la musica, pur prediligendo le teorie aristoteliche, in specie quelle contenute nella Poetica, gli accademici fiorentini si rifacevano ai concetti che Platone aveva esposto nel Timaeus, più ancora che nella Repubblica e nelle Leggi. La sostanza dei dibattiti fra i componenti della Camerata è riportata nel celebre Dialogo della musica antica et della moderna pubblicato nel 1581 da Vincenzo Galilei. Dalle idee ivi espresse si suole far discendere la nascita dell’opera lirica e, più in generale, il trattamento del canto in rapporto alla parola musicata e quindi del moderno stile vocale imposto perentoriamente dal genio di Monteverdi. Lo stesso Monteverdi cita espressamente la Repubblica e la modalità dorica descritta da Platone per giustificare il suo “stile concertato”, assicurando di cercare attraverso quegli insegnamenti la via naturale per “imitare” la parola (quindi l’idea, il concetto, la categoria, le radici dei sentimenti, non gli “affetti” da essa evocati). La ricerca del “bello ideale” e di strutture formali d’aurea perfezione raggiungeranno traguardi assoluti anche nell’opera solitaria di Gioachino Rossini. Platonicamente negando alla musica una natura imitativa, Rossini le assegna il compito tutto ideale di definire l’atmosfera morale che riempe il luogo, rinunciando a descrivere o evocare situazioni psicologiche e affettive di significato realistico e contingente.
Il Comune rinascimentale ripete la struttura urbanistica della polis greca, con al centro la piazza attorniata dal palazzo del principe, dalla cattedrale e dal teatro (un tempo situato all’interno stesso del palazzo, riservato ai cortigiani; poi, apertosi al cittadino comune, con suo proprio distinto edificio). Nell’ordinamento sociale del comune, l’artista, come nell’antica Grecia, era personaggio popolare rispettato, e le sue opere erano accolte e venerate come patrimonio di tutti. Anche quando il messaggio non era colto in tutta la sua complessità, da tutti era percepita e apprezzata l’emozione della bellezza, il fascino della spiritualità. L’analfabeta scalpellino fiorentino che passava ogni giorno accanto al Bargello o alla Loggia dei Mercanti, risplendenti delle sculture di Michelangelo e Donatello; il manovale che transitava dalla piazza dominata dalla cupola di Brunelleschi e dal campanile di Giotto; il popolo festante che accompagnava in processione Simone Martini a collocare nella Sala del Mappamondo la sua Maestà, assorbivano inconsciamente, senza studi particolari, l’armonia dell’aurea proportio, l’abilità di innalzare con tecniche fantasiose strutture che sfidano la legge di gravità, il gusto dell’eleganza naturale. Lo splendore capillare della civiltà greca attesta che non diversamente il frequentatore dell’agorà introitava l’armoniosa imponenza del Parthenone, la raggiante nobiltà delle statue di Fidia, l’erotismo inquietante della Nascita di Venere.
Il principe rinascimentale ha eletto l’artista a referente privilegiato, consentendogli di creare opere che hanno coinvolto il popolo in eventi di forte passione: Giotto trasforma Francesco, umile fraticello, in capo carismatico di un ordine potente; Baldassarre Castiglioni codifica il comportamento del musikós anér del suo tempo; Michelangelo traduce in immagini la cosmogonia cristiana; Leonardo inventa macchine e strumenti per anticipare il futuro; Francesco di Giorgio trasforma fortezze di guerra in dimore regali; Raffaello ricrea il paradiso perduto; Monteverdi e Cavalli recuperano suggestioni e insegnamenti della storia e della mitologia. Per ritrovare opere d’arte capaci di commuovere il mondo intero si deve risalire a Guernica, che ha sollevato le coscienze contro l’atrocità della guerra; alla Sagra della Primavera, che ha cambiato la sonorità dell’orchestra; ai miracoli architettonici del Beaubourg, del Guggenheim bilbaino, della Piramide del Louvre, delle Torri gemelle, che tornano a coniugare funzionalità e fantasia.
Oggi la voce degli artisti è confinata a qualche inascoltato manifesto di protesta: la polis non ha più bisogno di loro, scomodi testimoni di un imbarbarimento contrabbandato come profitto e progresso. Il principe li estrapola dal processo educativo per evitare il fastidioso rimprovero di antiche virtù; il mercato non ha bisogno di sogni e chimere, né di cultura e poesia. Dove l’artista era protagonista e l’arte riverberava a pioggia il dono della bellezza, sul palazzo del ricco, ma anche sul tugurio del diseredato, la qualità della vita assicurava un significato all’esistenza. Come non confrontarla con lo squallore alienante delle nostre città dove, ridiventati hominis lupi, nessuno si ferma a soccorrere il fratello che cade, a contrastare l’aggressione alla vittima?
Concludo citando uno scritto di Gianfranco Mariotti, sovrintendente del Rossini Opera Festival di Pesaro, che sintetizza magistralmente il tema trattato in questa relazione.
“Nella città rinascimentale abitano le radici della nostra cultura e della nostra lingua, lo specchio della nostra identità profonda di popolo, le ragioni del nostro senso di appartenenza. Eppure, ricordiamoci sempre che quelle non furono città astratte, votate solo all’edonismo e all’autocontemplazione, ma società civili toste e arroganti, capaci di governare l’economia, le scienze e i commerci, così come le insidie e gli inganni della politica, e insieme anche capaci di sviluppare le arti e la poesia a un livello mai più raggiunto nel pianeta. È qui che si realizzò la pari dignità fra i bisogni materiali e le esigenze spirituali dei cittadini, ed è ancora qui che il fenomeno artistico, vissuto al massimo grado di autocoscienza, entrò in rapporto stabile col potere politico: quello stesso rapporto che, nei secoli successivi, il potere avrebbe stretto con gli scienziati e poi con gli esperti della comunicazione … Assumere il modello rinascimentale vuol dire recuperare la centralità dell’uomo nella vita delle nostre città. Questo moderno umanesimo richiede che i grandi temi dell’esistenza, mediati dall’arte, tornino a essere una componente “normale” della vita quotidiana. Ciò significa ridare agli artisti il ruolo pubblico che a loro compete: di anticipatori, di critici, di profeti. Non è un’intenzione retrograda ma anzi un modo attuale e progressivo di opporsi al degrado e all’imbarbarimento della vita civile.”
In programma di sala Festival Mozart A Coruña 2006