Il Belcanto, sorto dall’euforia per la vocalità monodica seguita alla nascita del teatro musicale barocco, è una forma d’arte rigorosamente codificata, regolata da leggi, strutture e comportamenti ben definiti. Il termine belcanto non è sinonimo di “canto bello” e non ha alcun rapporto con la qualità specifica della voce umana: Luciano Pavarotti, Mirella Freni, Plácido Domingo sono artisti dotati di voci straordinariamente belle, ma la loro vocalità non rientra nella categoria del belcanto.
Considerato da un’angolazione estetica, la peculiarità di questo genere d’arte musicale è quella di muoversi in panorami lontani da quelli riscontrabili nella realtà quotidiana. Le storie poste in musica dai compositori belcantistici si situano in un altrove immaginario che lascia spazio alla fantasia e all’immaginazione. Racchiuse in confini geografici imprecisabili, queste storie evitano i percorsi psicologici e i ritmi dei mortali, e affidano il loro svolgersi alle sollecitazioni traslate e indirette evocate da gesti rituali e metaforici.
Ne deriva un teatro aperto a soluzioni inattese, a volte in contrasto con l’assunto di partenza sino a rasentare l’illogicità, a evocare nonsense e follia, a sfidare l’assurdo. Storie che richiedono all’interprete una forte partecipazione creativa per arrivare a trasmettere il messaggio conferitogli e al pubblico un coinvolgimento profondo e consapevole per ricondurre a situazioni e personaggi della vita reale le figure evanescenti della commedia ricorrendo a riferimenti culturali e a suggestioni immaginarie.
L’interprete belcantista deve possedere straordinaria forza di fantasia per arrivare a insufflare vita e luce a personaggi e accadimenti che non rientrano in tipologie riconducibili a esperienze di vita riconoscibili. Il pubblico dell’opera belcantistica, che non ritrova sulla scena squarci d’esistenza, emozioni conosciute da rivivere potenziate dal miracolo dell’arte come avviene nel melodramma tardo romantico e verista, deve essere in grado di leggere le immagini evocate sulla scena in modo diverso da quelle riferibili alle proprie esperienze sensoriali, al fine di proiettare l’emozione ultima nel mondo ideale degli assoluti.
Un atteggiamento radicalmente diverso da quello richiesto al pubblico del melodramma tardo ottocentesco, dove lo spettatore non è libero di dare una sua personale interpretazione agli accadimenti, poiché è lo stesso compositore a predisporre dispoticamente, con scelte inequivocabili, il momento di piangere o di gioire, di indignarsi o compiacersi, di ribellarsi o palpitare d’amore. Distaccandosi dalle situazioni rappresentate, lo spettatore di opere belcantistiche può abbandonarsi all’evocazioni di emozioni elevate a valori universali. Non è più l’amore di Alfredo e Violetta, di Rodolfo e Mimí a commuoverlo, nella sostanza storie private, grandi o piccine che possano essere, ma l’Amore come assoluto concettuale, come idea primigenia, capace di andare oltre la storia narrata sulla scena per generare una sua propria storia, tanto più grande e importante quanto sia alta la forza evocativa della musica e l’apertura mentale dello spettatore, la sua cultura, la sua ricchezza interiore.
Una drammaturgia che intende perseguire assunti tanto ambiziosi deve ricorrere a un linguaggio che non può essere lo stesso impiegato per descrivere gli atti della vita quotidiana. Il compositore belcantista si affida in genere a un canto astratto e asemantico, impostato su un virtuosismo astrale capace di sfruttare a fini espressivi ogni sfumatura della voce. Una tale vocalità pretende interpreti particolari, divi privilegiati, primedonne assolute, in grado di piegare la voce a infinite inflessioni di dolcezza, di furore, di allegrezza, di dolore, di nobiltà, di eroismo. Virtuosi che sappiano non soltanto restituire correttamente figurazioni impervie e rapide, ma, soprattutto, regolare il fiato per sostenere con fervore lunghe arcate di morbido legato; vivere le passioni con aristocratica nobiltà evitando l’eccesso e l’ovvietà; produrre coloriti sfumati e cangianti; vestire la nota con artifici d’effetto: trilli, messe di voce, accenti; realizzare smorzandi e crescendi mozzafiato. Interpreti che possano sottrarsi alla costrizione del senso comune: purché capace di stupire con sorprese meravigliose una voce femminile può interpretare senza turbare il ruolo di un eroico condottiero, di uno spietato vendicatore, di un amante appassionato. L’apparente assurdità aiuterà a sottrarsi a una logica realistica per accedere più facilmente al traguardo di una verità ideale ardua da raggiungere. Sono le ragioni che hanno determinato la delirante predilezione per la voce del castrato, voce che non esiste in natura, né virile né femminea, né adulta né infantile, evocante il mito antico dell’ermafrodito.
Ogni forma d’arte comporta un processo di idealizzazione: diversa è però la carica trasfigurante trasmessa dalla poesia rispetto alla prosa, come diversa è l’emozione suscitata dall’opera di belcanto rispetto a quella del realismo romantico. Il melodramma belcantistico sta a quello tardoottocentesco come la poesia sta alla prosa; l’interprete belcantista sta a quello dell’opera romantica e verista come il ballerino di danza classica sta al cultore di danza moderna latino-americana. Il canto del belcantistta, infatti, è un canto artificiosamente costruito, basato su un virtuosismo acrobatico estremo, come artificiosa è la danza classica, dove il muoversi innaturalmente sulla punta dei piedi comporta movimenti acrobatici, stilizzati e inconsueti.
Il melodramma belcantistico persegue meglio di qualsiasi altra forma di spettacolo teatrale l’idealizzazione di sentimenti e situazioni perché affida il compito di commuovere alla voce umana, lo strumento di comunicazione più completo e ricco di possibilità espressive. La voce umana si esprime attraverso i fonemi della parola, ma, come il poeta, il belcantista non usa la parola per descrivere e raccontare, bensì per evocare immagini e ed emozioni che travalichino quelle suscitate dall’intrinseco valore semantico e concettuale. Il poeta ordina le parole dei suoi versi in modo che arrivino a sprigionare immagini ed emozioni diverse da quelle che nel linguaggio comune quelle stesse parole possano evocare. Il belcantista indirizza melodie e figure musicali a un determinato affetto e non si cura di inseguire il cromatismo psicologico di sentimenti che nella realtà collegano i momenti nodali della vicenda.
Vincenzo Bellini è l’ultimo compositore d’opera lirica che professa l’ideologia del belcantismo, portato all’apogeo dal più anziano collega ed estimatore Rossini. Come Rossini, anche Bellini rifiuta di riprodurre sulla scena i fatti della realtà che lo circonda e pone in musica libretti che sono semplici tracce di storie, pretesti per evocare gli affetti che marcano i percorsi della vita e toccano i momenti alti dello spirito, racchiusi nei binomi insondabili di amore e morte, gioia e dolore, felicità e disperazione, inferno e paradiso.
Il belcantismo di Bellini è molto diverso da quello rossiniano e si configura come transizione ideale verso il lirismo romantico di Donizetti, Verdi, Gounod, Massenet, e tanti altri che seguiranno. Anche in Bellini le emozioni arrivano a commuovere mettendo da parte la razionalità e abbandonandosi all’incanto di suggestioni diverse da quelle proposte dal dialogo drammaturgico concreto. Ma il vocabolario impiegato è diametralmente differente.
Rossini utilizza una vocalità artificiosa, che poggia su figure anodine proprie della musica strumentale: scale, arpeggi, roulades, quartine ascendenti e discendenti che si inseguono con meccanica iterazione dentro schemi di calcolata simmetria. Bellini ricorre invece a melodie di intensa significazione, che toccano le corde del sentimento comune, ma lo travalicano proiettandolo nel sublime grazie a un’ispirazione che guarda verso il cielo e mai soltanto in terra. Quale verso poetico saprebbe meglio esprimere lo struggimento amoroso del canto di Giulietta e Amina, evocare con maggior forza il dolore cosmico di Elvira e di Norma, la dolente malinconia di Romeo e Orombello? Raffrontato alla pittura, il canto belliniano rientra nel genere figurativo, laddove quello rossiniano abita rigorosamente l’astratto: viene spontaneo accostare il canto di Bellini alla pittura di Raffaello, di Piero della Francesca, del suo omonimo Bellini, come è obbligatorio pensare a Miró, Klee, Mondrian ascoltando le nervose microcellule del canto rossiniano.
Alberto Zedda