Ancora una volta imprevedibile, Rossini rovescia diametralmente, nel secondo centenario della nascita, l’immagine che i celebratori del primo hanno tramandato. Si esaltò allora il sommo autore d’opere comiche, che aveva concluso splendidamente la parabola aperta dagli Intermezzi di Pergolesi suggellando la supremazia italiana nel genere.
Un compositore capace di elaborare cellule tematiche argute e affilate, incastonate in simmetrie geometriche insistite come i tic dei suoi personaggi buffi, animate da irresistibili pulsioni ritmiche, esaltate da un discorso armonico di solare semplicità non poteva che essere uno spirito felice, versato ai piaceri della vita: dalle raffinatezze della tavola alle delizie dell’alcova; dalla ricerca della buona compagnia alla pratica della battuta corrosiva; dalla pigrizia, responsabile dei frequenti autoimprestiti, al cinismo che consentiva la trasposizione di pagine nate per divertire in un contesto drammatico di segno opposto (o viceversa). Tutto ciò bonariamente esagerato per far di Rossini una simpatica reincarnazione del dio pagano della gioia.
Il bicentenario ci consegna un Rossini melanconico e problematico, minato da forte esaurimento nervoso, insidiato nel rapporto amoroso da turbe edipiche, costretto a un’alimentazione frugale da complicati disturbi gastrointestinali, lacerato da dubbi sull’essenza stessa del suo comporre. L’aneddotica scanzonata a cui aveva direttamente contribuito serviva soltanto per mascherare una realtà ben più amara.
Soprattutto il Bicentenario delinea il ritratto di un grande compositore d’opera seria (e perciò capace di dar spessore e significati al comico), autore di emozionanti pagine drammatiche sospese in un panorama estetico di assoluta originalità, lontano dalle suggestioni del passato e del presente, in grado di cogliere profeticamente, saltando a piè pari il momento dell’inveramento romantico, le inquiete ambiguità, le tormentate astrazioni degli uomini del Duemila.
Alberto Zedda