Le forzature farsesche hanno fatto giudicare Il Bruschino epigono dell’intermezzo comico, napoletano e non, impedendoci di cogliere gli umori nuovissimi che ne pervadono musica e testo. Vi si trova infatti una problematica che schiude il filone dell’opera comica moderna dove i personaggi escono da una dimensione macchiettistica per diventare astrazioni capaci di caricarsi di significati imprevedibili, ben maggiori di quanto le situazioni drammaturgiche parrebbero consentire.
I caratteri morfologici di questa musica sono così perentoriamente definiti, così diversi da quelli correnti che stupisce non abbiano immediatamente innescato reazioni tempestose, nel consenso come nel dissenso, (non mi riferisco ai comportamenti del pubblico delle “prime”, condizionato da irrazionali fattori contingenti) e siano stati invece recepiti come naturale sviluppo di quanto ascoltato sino allora. Anche la nostra generazione non ne ha afferrato appieno novità e valore. A sua giustificazione gioca la scarsa conoscenza del Teatro musicale che circonda l’esplosione Rossini e una pervicace tradizione che relega il Pesarese fra i compositori speficatamente versati al comico: e anche qui con limiti fuorvianti. Gli stilemi della comicità di Rossini venivano ricavati da quelli del Barbiere di Siviglia, l’unica opera veramente conosciuta. Da qui i connotati di una comicità ambigua, in equilibrio non sempre felice fra “comiche absolu” e “comiche rélatif” fra realismo intelligente e astrattismo profetico, fra una credibile dimensione psicologica di personaggi e situazioni e la forzatura geniale del gioco.
In quest’ottica la comicità di Bruschino, interamente sbrigliata nel fantastico, poteva apparire riduttiva e povera di contenuti. Così il sorprendente risuonare dei reggimoccoli di latta percossi a tempo dagli archetti dei violinisti durante la sinfonia sembrò soltanto una trovata curiosa, quando apriva la strada all’intonarumori dei futuristi; così l’irresistibile tic di Bruschino “uh! che caldo” una trovata buffa, non il turbamento psicosomatico di un uomo che va smarrendo l’identità; come l’omerico raglio lanciato dal figlio (padre mio – io io io, son pentito – tito tito tito) nel contesto di un’incredibile marcia lugubre, che volge in burla l’antichissimo rito dell’agnizione.
Quanto alla sostanza musicale, basti dire che in questa breve partitura di un giovane poco men che esordiente sono presenti, perfetti e compiuti, tutti i tratti di un genio assoluto che alla scienza agguerrita aggiunge inedite intuizioni strumentali, aureo senso della costruzione formale, un discorso vocale che condensa il meglio della tradizione e la proietta verso il domani, l’ispirazione che fissa indelebilmente i caratteri di un codice musicale che sino all’ultima nota della smisurata produzione a venire conoscerà solo arricchimenti e sviluppi, non svolte brusche, evoluzioni inattese.
Alberto Zedda