I bambini fanno domande difficili: “Nonno, cos’è l’amore?”. “È il moto dell’animo che stimola la comunicazione fra gli uomini, fra gli uomini e le creature dell’universo, gli uomini e la natura che li circonda, gli uomini e l’inconoscibile che li trascende: senza amore tu, io, tutti, saremmo aridi fossili, condannati a una solitudine esistenziale che toglierebbe ogni senso alla vita”. “Dunque l’amore è una cosa bella?”. “Certamente, bella e preziosa: chi è prodigo d’amore è destinato ad arricchire la propria esistenza con avventure imprevedibili. I libri che qui vedi contengono poesie, saggi, romanzi, poemi sinfonici, opere liriche che raccontano quelle storie, perché anche chi non le ha vissute possa indirettamente condividere le emozioni che da quelle scaturiscono”. “Allora sono storie divertenti come quelle che racconta la mamma e che terminano sempre con la frase …e vissero felici e contenti!”. “Beh… non è necessario che una storia sia divertente per essere affascinante e carica di significati coinvolgenti. Ti ho portato ad assistere agli spettacoli del Rossini Opera Festival e hai visto che la gente viene con lo stesso entusiasmo ad ascoltare opere di genere giocoso, dunque allegre, e opere di genere serio, spesso costellate di avvenimenti luttuosi e terribili. Perché l’amore, in qualunque contesto professato, scioglie l’indifferenza e costringe l’uomo a immergersi nella realtà, a prendere partito, a esercitare una funzione sociale tanto più generosa e aperta quanto più sostanziata da questo sentimento, capace di inesauribile energia”. “E quali storie meglio aiutano a comprendere questo sentimento totipotente: quelle dilettevoli dell’opera buffa o quelle che si inoltrano nell’oscurità della tragedia?”. Non mi è venuta una risposta convincente… Nella sterminata mappa di vicende e personaggi disegnata da Dante nel suo divino poema è l’olocausto di Paolo e Francesca l’evento che per i più ha simboleggiato l’amore; al contrario Mozart, altro immensurabile aedo dell’animo umano, ha scelto le opere giocose per dare dell’amore immagini inquietanti e sostanzialmente amare: turbanti nelle Nozze di Figaro, dove lo slancio dell’evasione ripiega nella rassegnazione dell’ordine borghese; sgomentanti nel Don Giovanni, dove l’eccesso spinge l’amore a traguardi blasfemi; ostili nel Così fan tutte, dove ogni valore viene calpestato, ogni fede negata e irrisa. Un altro grande scrutatore dell’umano sentire, Gioachino Rossini, avrebbe seguito le orme di Mozart, affidando a opere del sorriso il compito di discettare d’amore col disincanto del filosofo affrancato dallo spiritualismo giudeo-cristiano, da Paolo di Tarso congelato in crudeli teoremi assiomatici. È nella produzione comica che Rossini esibisce la sua visione dell’amore, pervasa da una pagana naturalità che libera dai laccioli della morale corrente per approdare a una serena e atarassica felicità. Accade così che opere costruite su testi all’apparenza banali e di grana grossa arrivino a configurarsi come veri e propri trattati sull’amore, postulando all’ascoltatore temi e soluzioni non scontate. È il caso dell’Italiana in Algeri, la più stravagante fra le tante opere coniate dalla follia rossiniana, dove la comicità assume costantemente le sembianze del comique absolu, lontana da ogni sentore di realismo. A meritare per siffatte opere l’onore della riflessione etica hanno contribuito scelte culturali anomale, come quella compiuta da nordici saggi nell’assegnare il Premio Nobel per la letteratura a un geniale teatrante italiano, Dario Fo, che ha fondato la sua notorietà sul recupero della tradizione poetica e popolare dei trovatori e dei giullari. Attori che, come lui, recitavano testi da loro stessi composti, e che annoverano presenze insigni, da Plauto a Adam de la Halle, da Shakespeare a Fernando De Rojas, da Molière a Ruzante, da De Filippo ai cantautori dell’attualità. Presentatosi a ritirare il premio, Fo sostituì la rituale lectio magistralis con una serie di disegni nei quali riassunse, senza pronunciar parola, il senso della sua arte e del suo utopico messaggio sociale. Confermò così, agli attoniti membri della giuria e a qualche benpensante che contestava la congruità del conferimento di un premio letterario di tale rilevanza a chi aveva indossato la maschera della satira e la casacca del pagliaccio per fustigare la corruzione di una società iniqua e senz’anima, che le prerogative del buffone di corte non erano solo quelle di divertire il suo signore. L’alzata d’ingegno norvegese aveva avuto un precedente a Pesaro, quando Dario Fo aveva accompagnato la sua immaginifica regia dell’Italiana in Algeri (al Rossini Opera Festival nel 1994, ripresa poi nel 2006) con la pubblicazione di una cospicua raccolta di disegni che raccontavano in sapidi e coloratissimi schizzi, lo svolgersi dello spettacolo, aggiungendo una nuova gemma alla traboccante cornucopia d’artista.
Rossini non aveva avuto modo di interloquire nella scelta del soggetto dell’Italiana in Algeri: la tardiva defezione di un compositore scritturato aveva spinto l’impresario a rivolgersi al giovane Maestro per porre riparo all’improvviso buco venutosi a creare nella programmazione, proponendogli un libretto buffo già noto, in precedenza musicato da Luigi Mosca, appunto L’Italiana in Algeri di Angelo Anelli. L’opera di Mosca, recentemente recuperata alla scena teatrale, risulta gradevole e garbata ma non arriva a trascendere la modestia di situazioni che, pur ispirate da una vicenda realmente accaduta, si succedono con desolante mediocrità. Gli stessi versi, intonati da Rossini, assunsero significati insospettati e suscitarono emozioni ben diversamente pregnanti. Non furono le parole del testo a guidare l’attenzione dell’ascoltatore: il linguaggio semantico del verbo risultò meno significante di quello asemantico dei suoni. Amplificato dal pantografo musicale, il tracciato dell’Italiana in Algeri diventò un vero e proprio saggio sull’amore, nella fattispecie sull’amore eterologo fra uomini e donne. L’eros vi giuoca, come naturale, un ruolo protagonistico, ma mai come in quest’opera il ricorso alla seduzione era giunto a conferire a un soggetto femminile di levatura non eccezionale un potere tanto assoluto da dominare ogni situazione e vincere ogni resistenza.
Il percorso teatrale inizia dalla crisi che investe il rapporto amoroso di un ipotetico Bey di Algeri, Mustafà, con Elvira, sua legittima consorte: matrimonio, dunque, la prima e più frequente occorrenza di unione affettiva. Elvira lo colma d’affetto e di carezze, ma è proprio questa tenera insistenza che induce il personaggio, fiero della qualifica di terror delle donne conseguita con crude esternazioni misogine, a cercare evasione in soggetti meno condiscendenti. La lezione rispolvera un classico proverbio popolare: in amor vince chi fugge (o almeno finge di farlo), non chi opprime il partner con dosi eccessive di leziose morbidezze. I coniugi devono fare i conti con le leggi dell’assuefazione, che senza rimedio attenua la concupiscenza, e integrare il richiamo sessuale con interessi partecipativi di altra natura. Il problema è cruciale oggi che la media della convivenza coniugale si è allungata con l’aumento della longevità e richiede attenzione e fantasia per tessere una trama di interessi comuni in grado di resistere all’usura del tempo. Lo svolgimento e la conclusione dell’opera rimandano anche all’antico suggerimento che ogni mamma consegna alla figlia in procinto di convolare a nozze: quando il marito dovesse soccombere a qualche tentazione extra coniugale, è opportuno fingere di non dare importanza alla cosa, minimizzandola quanto possibile. In molti casi la crisi si risolve spontaneamente e il marito torna a casa più solerte di prima.
All’aprirsi del sipario, nell’Introduzione che segue la folgorante Sinfonia, la cantilena del Coro “Serenate il mesto ciglio” fa eco ai lamenti di Elvira e ritrae magistralmente il plumbeo clima d’attesa, rafforzando per contrasto la successiva entrata di Mustafà. Rossini delinea perentoriamente il soggetto della contesa amorosa che si dipanerà nel corso della vicenda, affinché risalti l’artifizio della variazione sul tema, che costituisce la golosa nota distintiva di quest’opera. Subito si avverte anche la prerogativa di descrivere con distacco e imparzialità gli interpreti delle sue storie, senza schierarsi a favore dell’uno o dell’altro. La sortita di Mustafà, “Delle donne l’arroganza”, esibisce tale discordanza fra la magniloquenza della perorazione musicale e la modestia della situazione che l’enfasi satirica che ne consegue riduce l’irritazione per il becero maschilismo del personaggio e lo trasforma in un simpatico e ingenuo rodomonte. Nel recitativo che segue, Mustafà, per dar corso ai pruriginosi proponimenti, decide di liberarsi di Elvira dandola in sposa a Lindoro, lo schiavo italiano catturato tempo addietro dai suoi filibustieri. Il tema nevralgico del risarcimento al coniuge ripudiato trova una risposta autoritaria e discutibile, ma prefigura la rispettosa preoccupazione che Rossini mostrerà nei confronti di un’altra Isabella, la moglie Isabella Colbran, quando deciderà di lasciarla per sposare Olympe Pélissier. Nel duetto in cui Lindoro garbatamente respinge la proposta di Mustafà, “Se inclinassi a prender moglie”, si medita sulla natura dei sentimenti che dovrebbero indurre un uomo a unirsi per la vita alla donna del cuore. Dallo spiritoso dialogo si evince che la moglie dovrebbe essere bella, ma soprattutto schiettae buona, e che è indispensabile esserne invaghito, giacché nessuna ricchezza, nessuna convenienza potrebbe compensare la mancanza d’amore. Le risposte di Lindoro sono in linea con quanto da lui professato nella precedente, impervia Aria “Languir per una bella”, dove il tormento per la lontananza dell’amata trascolora in una commossa dichiarazione di fedeltà. Nel condurre il gioco di coppia, Rossini, forse anche per accentuare il contrasto con la goffaggine di Mustafà, attribuisce a Lindoro concetti di alata spiritualità, ma quando subito dopo irrompe Isabella con la grintosa sortita di “Cruda sorte!”, l’abissale distanza emotiva fra l’iconoclasta protagonista femminile e il suo delicato spasimante lascia interdetto lo spettatore. Isabella rimuove presto il timore di cader preda del truce Mustafà esplicitando senza riserve gli attributi che le consentono di affrontare e vincere qualsiasi avversità: la forza d’animo che scaturisce dall’amore e il potere di seduzione insito nella natura femminile. Sono marchingegni che ogni donna possiede, ma che le convenienze consentono di usare con una cautela che ne riduce drasticamente l’efficacia. Rossini, provvedendo alla sua protagonista femminile le prerogative del trionfo, propiziato dal valore della sua musica e dalla virtù richiesta all’interprete per superarne l’arduo acrobatismo, non si perita di dimostrare che niente e nessuno possono impedire il raggiungimento dell’obiettivo a una donna a tutto disposta. L’eletto sentimento che la unisce a Lindoro viene ritenuto sufficiente per motivare l’uso audace del proprio incanto, applicando l’opinabile principio del fine giustifica il mezzo. Un fascino che Isabella sa dosare accortamente con ineccepibile professionalità, se riesce a trasformare il rapporto con Taddeo, il facoltoso signore che in cambio delle sue grazie la guida per i mari sulle tracce di Lindoro, da calcolato contratto commerciale a legame non esente da affettuosa tenerezza. Nel Duetto “Ai capricci della sorte” Taddeo esprime sincera gelosia, oltre che preoccupazione, all’apprendere che la compagna d’avventura non viene turbata dalla prospettiva di finire nel serraglio di Mustafà. Acceso dalla smania di ebbrezze sconosciute, evocate nell’allucinato monologo “Già d’insolito ardore”, Mustafà incontra finalmente Isabella, restandone folgorato. Nel paradigmatico Finale Primo, Rossini come d’uso riallinea gli attori del dramma; e la commistione dei sentimenti che si affrontano, dalla prosaica schermaglia fra Isabella e Mustafà alla poetica apparizione di Lindoro, dal dolente commiato di Elvira alla pavida titubanza di Taddeo, genera un tal groviglio di emozioni da trasformare il trambusto in quel caotico balbettio di fonemi in libertà «Din-din… crà-crà… bum-bum… tac-tà…» che ha suggerito a Stendhal la più felice definizione del comporre rossiniano: “une folie organisée”.
Nell’Atto Secondo si sussegue una sequenza di azioni che manifestano la peculiarità di ciascun personaggio. Già dall’Introduzione “Uno stupido, uno stolto” Mustafà accusa gli effetti nefasti dell’infatuazione che lo condurrà allo smacco conclusivo: la parabola discendente registrerà il mancato appuntamento “a solo” con Isabella (nel Quintetto “Ti presento di mia man”) e la crudele beffa del Pappataci, dove il genio di Rossini trasforma in sublime divertimento il culmine della banalità. Al contrario Isabella, sempre sicura di sé, non soltanto esibisce un saggio di adescamento sensuale – nella voluttuosa Aria “Per lui che adoro” – ma nel Finale Secondo spinge il carismatico ardire sino a guidare in prima persona lo stratagemma architettato per far fuggire, con Lindoro e Taddeo, anche i compagni di viaggio imprigionati da Mustafà. Gli enfatici appelli con cui li induce a osare (Scena ed Aria “Pensa alla Patria”) aggiungono al suo stellare cursus honorum anche la rara dote dell’amazzone guerriera. Bisogna rifarsi alla tradizione letteraria dei romanzi epistolari e al neolibertinismo dei filosofi del secolo dei lumi per concepire un personaggio femminile tanto sovranamente libero di programmare il proprio destino, a dispetto di convenienze sociali frustranti. Il messaggio che Isabella consegna alle donne, più rivoluzionario di qualunque assioma femminista, asserisce la dirompente possibilità per ogni amante intelligente e volitiva di disporre di risorse smisurate, in grado di superare ogni ostacolo e attingere il traguardo desiato. Nel raffronto con la sfaccettata personalità di Isabella, risultano esili larve tanto il ripetitivo Lindoro, che si limita a recitare la commedia dell’amante fedele, quanto l’imbelle Taddeo, tardo a comprendere che Isabella non è donna per lui. Lo stesso Mustafà per affermarsi deuteragonista autorevole è costretto a forzare i tasti dozzinali dell’arroganza e della credulità, togliendo fulgore al suo scettro. Questi personaggi hanno però qualcosa da aggiungere alle riflessioni sull’amore. Lindoro attesta che un sentimento profondo (espresso dalla bellezza e nobiltà del suo canto) può arrivare a vincere qualunque sfida, giacché una donna coltivata è attratta da un sentimento sincero teneramente espresso assai più che da potere e ricchezza brutalmente ostentati; Taddeo insegna che un’amicizia poggiata su una convivenza compartita può arrivare ad accendere affetto e meritare una difesa appassionata; Mustafà rappresenta un’immagine macroscopica e sgradevole di macismo prepotente, qui temperato da goffe ingenuità e impazienza che gli restituiscono umana simpatia, grazie a una inventiva musicale caleidoscopica.
L’elegante levità della musica dell’Italiana in Algeri, briosa e seducente nel crepitante fluire ritmico, stende una patina di raffinatezza e nobiltà su pagine che il testo letterario prefigurerebbe pruriginose o stolide. Rossini, novello distillatore di alambicchi, raggiunge il sogno di trasformare la materia vile in oro, la banalità in arte, allontanando fatti e persone dagli angusti territori di una realtà immaginata per situarli in un Olimpo equidistante fra terra e cielo. L’opera scorre veloce senza una battuta d’arresto e i momenti patetici si alternano a quelli giocosi, in simmetrie che determinano fantasie inaspettate. Per quanto riguarda specificamente l’amore professato con tanta forza e indipendenza dall’ “italiana” Isabella, è difficile immaginare se quei sentimenti – appannaggio di uno spirito laico progressista, non certo di un conservatore codino – corrispondano davvero al sentire e al pensiero di un sorridente Rossini, sempre pronto a mimetizzarsi dietro la maschera dell’ironia e del paradosso. In un recente studio (in corso di pubblicazione sulla rivista “Scrittura”) della sua grafia posta in relazione con quella delle donne della sua vita – la madre e le due mogli, Isabella Colbran e Olympe Pélissier – Carla Di Carlo così conclude l’indagine sui vincoli che legano Rossini all’universo femminile: “In entrambi i rapporti si gioca la lontananza di Rossini dai sentimenti, nella vita come nel palcoscenico. A teatro le passioni vengono tenute distanti dalla musica: Rossini le lascia al testo, casomai all’interpretazione, per tener sempre alta la barriera del distacco, il traguardo di una visione superiore”. Come volevasi dimostrare.
Alberto Zedda