Giunto alla fine del cammino il viandante, che si era illuso di trovare nelle inquiete riflessioni del pensiero e nelle meno evanescenti indagini scientifiche una bussola per orientare i suoi passi, deve constatare di aver accumulato più domande che risposte. Nel tempo della sua gioventù, molte certezze maturate in secoli di ostinate indagini sulla natura e sulle responsabilità dell’homo sapiens vennero messe in discussione. Le intuizioni degli psicanalisti parvero offuscare le illuminazioni della metafisica e destarono la speranza che l’esplorazione dell’inconscio consentisse di decifrare e ordinare i turbamenti della ragione. Vennero poi le esaltazioni della semiotica e della linguistica a orientare la ricerca dell’identità, riportando nel campo astratto del pensiero la stella polare che guida alla ricerca della verità. Gli strutturalisti suggerivano di cercare nei significati riposti di un linguaggio simbolico la chiave per cogliere il senso dell’esistenza, precisando un valore alle emozioni, ai sentimenti, ai comportamenti dell’uomo. La possibilità di leggere nel genoma la radiografia completa della macchina umana e di conoscere il suo divenire attraverso la decodificazione dell’impronta ereditaria spostò l’attenzione a un altro settore della ricerca. La bioscienza suscitò speranze di guarigione da ogni male e postulò l’aspettativa di un lusinghiero allungamento della vita. Oggi i neurochirurgi sospettano che nel cerebro si nasconda il bene supremo: l’anima, intendendo riferirsi con tale termine a tutto quanto attiene all’ambito dello spirito, a ciò che é svincolato dai condizionamenti che regolano la materia.
Se davvero la decodificazione di cellule e circuiti neuronali che albergano nel lobo anteriore del cerebro arrivasse a spiegare come e perché nascono i pensieri, i giudizi, le fantasticherie della poesia e dell’arte, parole come libero arbitrio, volontà, responsabilità perderebbero ogni valore semantico consolidato. Se un medicamento o una scarica energetica, attivando circoli danneggiati o sostituendo cellule malate, arrivassero a regolare a piacimento il dolore e la gioia, la depressione e l’euforia; se l’intervento di un neurochirurgo potesse correggere l’inclinazione a delinquere, predisporre al bene o al male, orientare alla saggezza e alla giustizia, verrebbe a crollare la visione antropocentrica che per millenni ha regolato il rapporto dell’uomo con la natura, spogliandolo della trascendenza che ne faceva il signore indiscusso e riportandolo alla condizione di ogni essere vivente, solo distanziato da un più fortunato sviluppo evolutivo. Se le reazioni conseguenti all’emozione del sentimento fossero regolabili a comando, la unicità dell’individuo, la sua libertà di giudizio, la sua personalità ne uscirebbero drammaticamente vulnerate. Se l’accorgersi di sentire non appartiene più alla categoria dello spirito ma viene a far parte delle reazioni meccaniche di una entità materiale, per nobile che possa essere, scompare quell’entelechia suprema che chiamiamo anima e che gli uomini di fede ritengono insufflata nel corpo da uno spirito divino, da un pantocratore invisibile e onnipotente, da un superiore ordinatore dell’universo. Perduta l’anima, vien meno l’illusione di vincere con essa la morte e la finitezza dell’individuo e, cancellata la speranza dell’immortalità, sia pure collocata in un altrove incomprensibile alla ragione, viene meno il bisogno di un Dio creatore che ci apra le porte di un paradiso trascendente il tempo e lo spazio, dove ai giusti tocchi il premio dell’eternità.
Quando si appurasse che l’anima non nasce da un alito divino, ma è una secrezione di neuroni comune a tutti i componenti della specie, l’uomo cesserebbe di situare il suo destino ultimo fuori dalla terra che abita e non si ostinerebbe a cercare felicità e consolazione alla propria finitezza in un paradiso perduto, inventato per tacitare il terrore del nulla. Resterebbe certo la pena della morte, l’ansiosa domanda di senso di un’esistenza tanto dolorosamente circoscritta, ma il destino comune verrebbe accettato con la stessa dolce e malinconica fatalità con cui si accetta il sorgere della vita. La ricerca della felicità consolatoria avverrà qui e ora e non sembrerà impossibile coglierla nel lampo abbagliante di un grido d’amore; nella vertigine di un verso poetico o di una frase musicale che sospendono nel sogno; nella contemplazione della bellezza; nel respiro incantato della natura. Sarebbe più facile convincerci che le ragioni dell’esistenza stanno nell’energia che si risveglia a ogni sorgere del sole piuttosto che nel miraggio di un salvifico aldilà dai contorni mutevoli secondo il culto d’appartenenza. L’eternità sarebbe raggiungibile sulla terra col faustiano comando dell’attimo arrestati, e quell’attimo ci innalzerebbe alla onnipotenza di un Dio e ci darebbe la forza di confrontarci senza timore con l’incommensurabilità dell’infinito.
La coscienza dell’essere, l’accorgersi di sentire, non sarebbe dunque il dono di un Dio, ma la conquista involontaria di un essere che nella catena evolutiva della specie ha fatto un salto di qualità d’incommensurabile portata. Colui che decise di trasformare il logo sin scrittura (un Principe?, un Saggio?, un Poeta?), colui che raccolse e diede corpo ai racconti dell’Iliade e dell’Odissea, i testi che primi hanno descritto i sentimenti degli uomini, fu quegli che gettò le basi della memoria e della riflessione. Dopo quell’autentico big bang dello spirito, i testi dell’ermeneutica mistica, i classici della letteratura e del teatro, i mille libri che quotidianamente si stampano nel mondo sono una inesauribile variazione, un continuo approfondimento, una instancabile meditazione di quei temi. Dal logos fattosi memoria inizia il viaggio verso la conoscenza, il viaggio che Ulisse, Dante, Tamino, e tanti grandi spiriti hanno testimoniato per invitarci a intraprenderlo. Dal logos fatto si comunicazione parte, con la necessaria solidarietà della socializzazione, la costruzione di un ordine che un giorno dovrebbe consentire all’essere umano di realizzarsi nella sua duplice natura materiale e spirituale. Dall’esigenza di prendere coscienza di sé nasce la storia di una civiltà che dovrebbe condurre al traguardo di una morale compartita, ispiratrice di istituzioni gestite da regole condivise, elaborate nell’ideale contesto di una società giusta e libera.
Nel discorso di socializzazione, di costruzione dell’identità umana, va considerato il ruolo dell’arte, in primis quello della musica, che ha titolo di privilegio grazie alla natura del vocabolario che adopera per esprimersi: il suono, organicamente connesso alla matematica e alla fisica, regolato, nel suo unirsi ad altri suoni, da ferree leggi numeriche che i grandi filosofi dell’antichità non si stancarono di teorizzare. Nei loro trattati, sopravvissuti numerosi quando i documenti musicali diretti si contano sulle dita di una mano, essi non si limitano a precisare i rapporti matematici che ne sostanziano il timbro e la natura consonante o dissonante, ma ne traggono anche giudizi di merito estetico e edonistico, assegnando ai vari modi ottenibili dalla ordinata successione di intervalli naturali (lidio, misolidio, dorico, misodorico, etc) la capacità di esprimere e generare emozioni: di allegrezza o malinconia, di eccitazione o calma, di erotismo o spiritualità.
Il suono rivendica anche una indiscutibile anteriorità rispetto al logos, giacché le sue radici ne sono state il prodromo necessario. Il suono divenne il primo strumento di socializzazione, consentendo alla comunità di unire gli sforzi per realizzare lavori impossibili al singolo, per moltiplicare strategie di difesa dall’ostilità dell’ambiente. La musica, il suono modulato, nell’accezione lata e primitiva, ha preparato la nascita della civiltà: senza un ritmo che regoli le cadenze di movimenti collettivi non sarebbe stato possibile alle moltitudini inermi dei paria trascinare le pietre immani delle piramidi e dei templi. Ancora il ritmo, associato all’allucinazione ipnotica di suoni ossessivamente ripetuti, provoca l’ebrezza del danzatore, l’eccitazione del guerriero, l’estasi mistica dello sciamano. Dunque una funzione pratica, propedeutica all’accensione di emozioni e sentimenti forti collettivamente vissuti: la musica infiamma l’animo del patriota, accende la miccia del rivoluzionario, suscita emozioni e slanci collettivi, rinforza la parola e aiuta a fissarla nella memoria. Per questo nella Grecia di Platone e Aristotele, culla della civiltà, i versi dei poeti, i proclami dei vincitori olimpici, i peana degli eroi, gli editti dei reggitori, i dialoghi dei teatranti, i riti dei sacerdoti erano accompagnati invariabilmente da un canto modale, animato da una scansione ritmica accentuata, che facilitava il processo mnemonico. Quegli accompagnamenti musicali erano tanto usuali e diffusi che la tradizione orale bastava a conservarli e tramandarli, talché, pur disponendo i greci di una notazione alfabetica semplice e chiara, non hanno determinato la necessità di fissarli in un corpus di opere da consegnare ai posteri. E nella paideia, l’educazione dell’individuo, la musica occupava un posto così importante che nella Grecia antica l’uomo colto si identificava con l’appellativo musik aner, musico.
Sembra dunque che alla musica, più che alle altre arti, tocchi la sorte di aggregare vasti strati sociali, anche di formazione culturale distinta, arrivando a smuovere anche l’animo dell’incolto e del povero di spirito: ne fa fede l’aulos di Orfeo, capace di incantare con egual forza il più potente degli Dei e l’ultimo degli animali selvatici. L’astrazione, la sostanziale asemanticità dei vocaboli impiegati dal musicista contribuisce a rendere più accessibile la comunicabilità del suono organizzato rispetto ad altre manifestazioni dello spirito. Ma cosa intendiamo col termine musica? Di quale musica stiamo discettando? Il termine musica nasconde una ambiguità che le altre arti non compartono in egual misura: in quest’unico concetto convivono realtà profondamente diverse, separate da un divario formatosi pochi secoli addietro, in coincidenza con la nascita della polifonia e del contrappunto, e andato aumentando fino ai nostri giorni. Quando ci poniamo il problema di una Storia della Musica constatiamo che fino alla nascita del secondo millennio dell’era moderna, l’evoluzione del linguaggio musicale in tutto il mondo conosciuto è avvenuta in maniera lineare e sostanzialmente simile. La musica praticata dai vari popoli è stata per millenni di natura prevalentemente monodica, e, accompagnata dalla parola, ha predisposto alla preghiera nei templi, ha addolcito il lavoro nei campi, ha rallegrato le cerimonie e le feste profane, ha predisposto alla danza e alla lotta. Una musica per tutti, semplice, elementare, sorta anonimamente dal popolo.
Venne poi la superbia dell’uomo a complicare il discorso musicale per spremere dai suoni emozioni e suggestioni meno quotidiane, capaci di sollevarsi all’astrazione dello spirito. Con le prime opere firmate da un autore identificabile nasce la Storia della Musica Europea, che è materia distinta dalla Storia della Musica propriamente detta, e che registra un tipo di musica condizionata da regole severe, di ascolto complicato a causa di un intrico polifonico che genera armonie disusate, dove la parola perde percettibilità nella sovrapposizione asimmetrica di vocaboli imposta dallo stile imitativo. Una musica di clerici per i clerici, elucubrata, elitaria, “riservata”, volutamente destinata a distanziarsi dalla fruizione popolare.
Il razionalismo illuminato dei rinascimentisti fiorentini volle occuparsi anche di questo, e, ripensando il legato dei greci, inventò, col melodramma, un genere che consentisse di applicare le conquiste espressive della musica colta a un testo letterario in grado di guidare l’ascoltatore a una più facile comprensione del messaggio. L’invenzione dei dotti dell’Accademia dei Bardi procurò alla musica una diffusione straordinaria, che toccò il vertice nel furore operistico di fine ottocento. Questa popolarizzazione non fu gradita dai chierici esigenti, sospettosi che le conseguenze potessero comportare una banalizzazione dell’arte loro. Da qui l’inversione di tendenza del compositore contemporaneo, tornato a intricare il linguaggio musicale sino a eguagliare e superare l’oscura complessità dei fiamminghi, col dichiarato proposito di non cercare un facile consenso e di mirare a un discorso di ambiziosa elitarietà.
L’ascoltatore che volle mantenere un rapporto con la musica colta senza compiere lo sforzo di penetrare l’oscura crittografia dei nuovi chierici si rivolse all’immenso patrimonio del passato, riportato in auge da una musicologia criticamente documentata. L’ascoltatore meno esigente si accontentò di quella musica pseudo-popolare che i vari strumenti riproduttori si premurano di diffondere giorno e notte in ogni luogo possibile e immaginabile. Questa musica di consumo, a volte anche rispettabile, ha preso il posto della vera musica popolare, che la moderna industrializzazione di massa ha relegato a accompagnare eventi e situazioni straordinarie, come il jazz, i canti di guerra e di protesta, i ritmi eccitanti dei moltitudinari raduni giovanili, etc. E’evidente che se la musica colta dovrà interessare solamente l’ascoltatore professionalmente attrezzato o l’interessato a un repertorio museale, essa è destinata a perdere il contatto con le nuove generazioni, giustamente protese a cercare un linguaggio consono al loro tempo. Nell’illusione di riportare i giovani a teatro e nelle sale da concerto, oggi si tende a mescolare disinvoltamente i vari generi musicali, cercando di attribuir loro una pari dignità obiettivamente discutibile….
La musica ha caratteristiche che la distinguono dalle altre arti: tra il prodotto e il suo fruitore interviene necessariamente un terzo soggetto, un traduttore-interprete che trasformi in suoni percepibili i segni della notazione che la definisce. Il lettore di una poesia, il contemplatore di un quadro, l’ammiratore di un’architettura stabiliscono un contatto diretto con l’opera d’arte e l’emozione, il giudizio che ne traggono non passa necessariamente per il filtro di una sensibilità altra. Nella musica, l’intervento di uno strumentista, di un’orchestra, di un coro è condizione obbligata perché la pagina scritta si trasformi in timbri rutilanti, in melodie seducenti, in ritmi eccitanti. L’intervento dell’interprete è asettico e oggettivo soltanto quando la trasformazione sonora provenga dal programma di un computer. Quando sia un essere umano a trasferire nel mondo sonoro il segno grafico inanimato, la sua cultura, la sua sensibilità, la sua fantasia, la potenza evocativa del suo carisma, la capacità di identificarsi con l’autore dell’opera e di intenderne il messaggio condizioneranno inevitabilmente anche il giudizio e l’emozione dell’ascoltatore, al quale sarà concesso solamente la libertà di rivivere un’emozione già sperimentata da altri. Quando l’interprete sia un direttore d’orchestra, l’operazione si complica ulteriormente, giacché nel processo che conduce all’ascolto pubblico si frappone un nuovo soggetto: l’orchestra. Il professore d’orchestra non è una macchina, un soggetto passivo; è dotato di una preparazione specifica, di una sensibilità personale, di un gusto proprio. Il direttore che deve portare un numero cospicuo di musicisti di tale preparazione a suonare in modo omogeneo e coerente un’opera d’arte secondo la sua visione, deve esercitare una costante mediazione fra la sua concezione interpretativa e quella dei suoi collaboratori. Il risultato da presentare all’ascoltatore sarà pregnante quanto più illuminante e profonda sia stata l’opera di convincimento e di ispirazione esercitata dal direttore nella fase preparatoria, quanto più geniale e appropriata sia stata la sua lettura del testo, quanto più trascinante e magnetica risulti la sua bacchetta nel momento dell’esecuzione.
Potrà avere la musica una valenza terapeutica particolare, data la sua capacità di evocazione onirica affrancata dalla mediazione concettuale? E quale dei generi musicali potrebbe appropriatamente svolgere una funzione terapeutica? Le vacche del Vinsconsin danno latte migliore e in maggior quantità quando ascoltano musica classica. E gli uomini? Il Bolero di Ravel aggiunge sfumature raffinate a un intermezzo erotico; i ritmi scatenati del reggae caricano di energia esplosiva un raduno hippy; le ipnotiche iterazioni dei concertati rossiniani sospendono il tempo di personaggi e ascoltatori….
E il cerebro cosa ne pensa?
Gli spagnoli hanno una bellissima parola per evocare una magia, un sentimento, una emozione che sta fra il carisma e la fascinazione: duende. Il duende distingue in categorie inconciliabili chi lo possiede e chi no; il duende accompagna gli individui che ne sono dotati come un’alone e influisce sul loro agire, sul loro comunicare. Ma anche un tramonto violento, un mare tempestoso, un paesaggio deserto, un albero solitario talvolta hanno duende, e forse lo sprigiona anche il gioco capriccioso e involontario dei vetrini colorati del caleidoscopio. L’arte e l’artista ne sono privilegiati, e la musica é quella che più facilmente lo esprime e lo comunica. Ce lo ricorda García Lorca, che in una celebre conferenza dedicata al duende descrive l’incantesimo suscitato dall’accendersi improvviso di un canto hondo. In quel meraviglioso saggio poetico, Lorca tenta di definire il duende ricorrendo a espressioni letterarie di indicibile intelligenza inventiva, a richiami e accostamenti immaginifici di sorprendente forza evocativa. Non so se sia riuscito a spiegare ai suoi ascoltatori la natura del duende, ma è certo che del duende ha dato una dimostrazione tangibile e inequivocabile, facendocelo toccare fisicamente con l’incanto delle sue parole. Il robot che costruiranno i cibernetici del domani, provvisto di “intelligenza”, di “sensibilità”, di “giudizio”, di anima insomma, avrà anche duende?
Alberto Zedda