Le Marche di Giacomo Leopardi ricoprono un ruolo di rilievo nella Storia del melodramma per merito di tre compositori che hanno determinato svolte importanti nel gusto e nel costume: Giovanni Battista Pergolesi, che con i suoi Intermezzi ha dato avvio alle fortune dell’opera buffa; Gaspare Spontini, che ha moltiplicato ambizioni e allargato dimensioni del teatro lirico sino a influenzare la rivoluzione di Wagner; Gioachino Rossini che ha collegato la parabola del virtuosismo belcantistico alle emozioni del Romanticismo. Tutti e tre hanno avuto come epicentro della loro attività Parigi, al tempo indiscussa capitale del mondo civile: Pergolesi protagonista a distanza di una vivacissima querelle fra italianisti e conservatori che ha propiziato il rinnovamento gluckiano; Spontini inventore di meccanismi teatrali che comportano superbo impegno interpretativo e organizzativo; Rossini che dominando per decenni i cartelloni dei teatri lirici di tutto il mondo ha orientato i comportamenti degli operisti che lo seguiranno. Tutti tre hanno iniziato a comporre confrontandosi con la splendente realtà della Scuola napoletana: Pergolesi per divenirne il popolare capostipite; Spontini e Rossini per entrarne in insanabile conflitto. È interessante indagare la storia di questa separazione, anche per comprendere le ragioni che hanno innalzato i due Maestri a una dimensione europea riservata agli eletti.
Risulta intrigante esaminare le coincidenze che hanno accomunato il destino di due compositori italiani la cui opera è essenziale per intendere la transizione del melodramma dal classicismo di Haydn, Mozart, Gluck, Cherubini al romanticismo e al verismo imperanti sino alla metà del nostro secolo.
Gaspare Spontini e Gioachino Rossini hanno entrambi sperimentato in vita un successo clamoroso e incondizionato tributato dal pubblico delle più esigenti capitali europee, Napoli, Parigi, Vienna, Berlino, città adusate a ogni forma di espressione musicale. Entrambi hanno poi conosciuto l’amarezza di un oblio altrettanto clamoroso, sopravvivendo lungamente alla scomparsa delle loro opere dal repertorio di quei teatri lirici che sino a pochi anni avanti avevano dominato incontrastati. Il caso ha voluto che questi personaggi vedessero la luce nella stessa regione, le Marche, in paesi situati a pochi chilometri di distanza: Spontini a Maiolati, Rossini a Pesaro. Le Marche conservano molti tratti tipici dell’italiano autentico perché la collocazione geografica, lontana dalle rotte degli eserciti invasori, ha consentito di conservare, meglio che in altre regioni, abitudini e tradizioni autoctone.
Il linguaggio limpido, le forme nette delle opere dei due maestri riflettono la semplice e spontanea cordialità della gente marchigiana; l’elementarità del loro vocabolario musicale, l’essenzialità degli elementi basici della composizione ricordano la cucina regionale marchigiana, dove una straordinaria e raffinata cultura contadina impreziosisce i prodotti basici della natura. Le coincidenze che accostano Rossini a Spontini sono tante. Ambedue di origine modesta, lasciano presto la famiglia per cercare un luogo dove studiare e coltivare la vocazione per la musica.
Rossini va al Nord, dove la musica fiorisce in grande splendore e dove l’opera lirica, sospinta dal genio di Mozart ad altezze vertiginose, prepara l’esplosione di un trionfo popolare che ancora permane. A Bologna un maestro illuminato, Stanislao Martini, gli schiude i segreti dell’abbagliante esplosione sinfonica d’Oltralpe, che Rossini beve e assimila con la consapevolezza del predestinato. L’acutissima intelligenza lo induce a innestare la lezione di Haydn, di Mozart, di Beethoven sulle vestigia di una tradizione lirica obsoleta e manierata, giungendo a elaborare col suo sostegno una personalissima drammaturgia novatrice. Con essa Rossini conclude il processo evolutivo aperto dal fastoso barocco di Monteverdi e Cavalli che ha portato il melodramma italiano, ubriacato dagli eccessi del virtuosismo belcantistico, a un ristagnante edonismo galante e lezioso nell’opera comica e a una insulsa tenerezza manierata e borghese nell’opera seria.
Spontini va al Sud, attratto dal fascino della capitale incontestata dell’opera lirica, Napoli, dotata di ospitali Conservatori che sfornavano in continuità talenti destinati a diffondere nel mondo intero la leggenda di una Scuola operistica ammirata senza riserve. La Napoli di quel tempo gareggia con Parigi nella letteratura, nella filosofia, nell’editoria, nell’arte drammatica. I teatri sono frequentati da un pubblico colto e maturo che si apre alla grande musica d’importazione e non si accontenta del divertimento brioso e disimpegnato dei suoi compositori di successo. Il teatro di San Carlo presenta un repertorio di sorprendente varietà e ricchezza di titoli, contendendo alla Scala di Milano la palma del primato nel mondo. Spontini entra in Conservatorio e comincia a comporre come i suoi maestri e i suoi condiscepoli: le prime opere italiane, da Li puntigli delle donne al Teseo riconosciuto, poco si distinguono dai melodrammi affini di Cimarosa e Paisiello. Ma l’ovvietà di un discorso musicale legato a temi convenzionali e stantii, incentrato sulla piacevolezza del canto e affidato alla vanità del virtuoso doveva stancarlo presto.
A Napoli Spontini rimane poco tempo: per sottrarsi alle seduzioni rilucenti di un mondo al tramonto, l’infallibile bussola del genio gli indica la via di Parigi. Anche lui prende dunque la strada del Nord per andare a misurare il suo talento nella capitale politica d’Europa, dove Napoleone ha impugnato la fiaccola languente delle libertà repubblicane per coltivare il sogno di un impero illuminato, capace di innovare profondamente il tessuto della società civile. A Parigi Spontini si confronta con una tradizione che, partita dalla magniloquenza pomposa di Lully e approdata alla retorica altisonante della cherubiniana Tragédie Lyrique, sembra non corrispondere più al cataclisma sollevato dalla Rivoluzione dell’89, amplificato dalle ambizioni napoleoniche, una tradizione in agonia, dunque, anche se le battaglie ideologiche combattute all’ombra di Gluck l’hanno resa evoluta e colta.
Il pubblico parigino si muove incerto fra il disimpegno del balletto classico, assunto al rango di forma favorita dell’espressione teatrale in musica, e la nobile ampollosità di una retorica tributaria della grande lezione della Comèdie, ma già minata dal pompierismo di un Grand Opéra di maniera. La crisi del modello d’opera lirica imposto dai maestri italiani è percepibile anche nel mondo tedesco, dove pure la severità luterana di Schultz e l’astrazione metafisica di Bach hanno indirizzato l’entusiasmo per il canto a nobili intenti. Dopo l’alto messaggio di Idomeneo, l’opera seria segna il passo e lo stesso Mozart, nella Clemenza di Tito, sembra dubitare della sua validità, attratto ormai dalle libere forme che il dramma giocoso gli aveva dischiuso e che non aveva esitato a trasferire nel Singspiel, derivandone il miracolo del Zauberflöte. Dopo Mozart l’opera italiana e le sue ramificazioni europee dovevano morire o rinnovarsi profondamente. Lo attesta anche l’ultimo sussulto cimarosiano: quel Matrimonio segreto che si rinsangua respirando l’aria viennese ancor pregna delle vibrazioni di Wolfgang.
I marchigiani orientati al Nord l’hanno prontamente avvertito: Rossini si rende conto che l’opera comica italiana, paga di tradurre le folgoranti invenzioni e i classici stilemi della Commedia dell’Arte in linguaggio convenzionale, ha esaurito la carica propulsiva. Perseguendo una comicità astratta, animata da un’ironica follia e dall’inedito piacere del gioco e del nonsense, arditamente trasferiti nella sfera dell’opera seria aggiungendovi l’ambiguità, ha saputo inventare una drammaturgia che troverà imitatori solo in epigoni di scarso spessore. Spontini indirizza l’impegno verso nobili personaggi della storia, abbandonando la primitiva propensione per l’opera comica e i soggetti mitologici.
Tanto per Rossini che per Spontini il nuovo modo di far opera poggia sull’elezione di una specifica vocalità, alla quale affidare l’elaborazione di un adeguato codice espressivo. Entrambi adottano soluzioni di assoluta originalitá.
Rossini riscopre e porta alle estreme conseguenze la grande lezione del belcantismo, nobilitando un virtuosismo funambolico al quale affida il compito di illuminare e insufflare di vita e sentimento, sulla scia della parola musicata, le figurazioni anodine e asemantiche della musica strumentale.
Spontini ricerca una vocalità che eviti le simmetrie prevedibili di Arie e Cabalette per conseguire un’espressione di classica compostezza, in grado di conciliarsi con l’eletta tradizione gluckiana e cherubiniana.
Rossini cala la novità di un linguaggio vocale simbolico e allusivo, graffiante e paradossale, animato da una pulsione ritmica irresistibile nelle antiche forme chiuse, riproposte senza pentimenti sfidando le ire dei giovani avanguardisti, capitanati da Wagner e Berlioz. Spontini racchiude ampie e severe melodie, in linea coi temi altisonanti dei suoi libretti, in strutture formali di largo respiro, aperte e irregolari.
La vocalità di Rossini richiede una preparazione tecnica superiore e un utilizzo illimitato di colori e fioriture; quella di Spontini, tesa a una continuità senza fessure, vuole potenza, resistenza, dominio di registri impietosamente collocati nelle insidiose posizioni del passaggio di voce. La vocalità di Rossini, basata su freddi elementi di anonima valenza espressiva, pretende l’ausilio della fantasia e dell’immaginazione dell’interprete; quella di Spontini, viene condizionata dall’intensità dell’assunto drammatico volto a conseguire la grandiosità di situazione estreme.
Ambedue i compositori rifiutano di tratteggiare la realtà quotidiana e coltivano l’eccezionalità di personaggi e accadimenti situati in un altrove che confina col mondo platonico delle idee, perpetuamente tesi al sublime. Per questo inventano un canto poco spontaneo, destinato a descrivere persone e atti che si sottraggono alla normalità: un cantare artificiale che è l’esatto contrario del canto romantico e verista che dominerà incontrastato dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento, con appendici ostinatamente coltivate sino ai nostri giorni, troppe volte impropriamente applicate a repertori e personaggi che non lo tollerano. Se non si esplora la natura di questa vocalità, se non ci si appropria del suo codice stilistico ed espressivo, se non si recupera la prassi indispensabile per tradurla in emozioni precise e mirate è impossibile penetrare il significato delle loro opere, collocarle in una corretta prospettiva, diversa da quella di opere che hanno preceduto e seguito la loro traiettoria storica.
Mentre per Rossini la fortuna che ha arriso alla recente riproposta del suo repertorio ha fatto nascere un fiorente mercato di vocalisti attrezzati ad affrontare il suo canto, per Spontini la presa di coscienza indispensabile per affrontare una vocalità tanto diversa da quella frequentata è ancora embrionale e sporadica. Anche per lui occorre promuovere un’analisi tecnico-musicale sistematica delle sue opere, con riferimento particolare alla vocalità.
A Parigi, dove Spontini conquistò la fama, i cantanti d’opera lirica venivano lodati più per le qualità di attori drammatici che per quelle di squisiti vocalisti. Il vigore della sottolineatura, la perentorietà del gesto, la nobiltà della retorica venivano preferiti alla bellezza dell’emissione, alle preziosità della tecnica. La lezione di Spontini ha puntato invece su un canto di stile elevato, non ignaro della lezione gluckiana, espanso in una nobile cantabilità che restituisca alla melodia vocale il primato dell’espressione.
Non si ritrovano in questo compositore l’edonismo raffinato, l’elegante rifinitura della frase melodica, la lussureggiante e talvolta eccessiva ornamentazione dei belcantisti italiani. Il canto si fa attento ai valori semantici della parola e ricerca una emozione verace, assecondando le nuove richieste di espressività, tuttavia ancora lontane dalle intemperanze del verista tardo-romantico. Anche il canto spontiniano, come quello rossiniano, scarseggia di sfumature psicologiche: il conflitto tra razionale e irrazionale, tra il male e il bene non recepisce le inquietudini dell’inconscio e si risolve col trionfo della virtù e della giustizia, senza attenuanti e compromessi. Una linea vocale ininterrotta sale al culmine con un crescendo ottenuto per accumulo, progressivamente aumentando la concitazione ritmica e agogica sino a raggiungere un parossismo fervido e coinvolgente. Il canto spontiniano, non facilitato da interruzioni strumentali che concedano respiro e spinto alla tensione estrema di tessiture impervie, richiede all’interprete un’enorme capacità di resistenza: non per la presenza dei rari sovracuti, ma per l’insistenza esasperata in zone critiche della voce.
Spontini, come Wagner, tende a ridurre i confini delle forme chiuse collegando un brano all’altro senza soluzione di continuità, come si evince da precise indicazioni che impongono di non creare indugi nell’attaccare il brano successivo. Le arie sono brevi, concise; raramente la Scena raggiunge e supera dimensioni cherubiniane. Prese a sé stanti, armonicamente e melodicamente poco sviluppate, dunque povere di sorprese, non si impongono: il valore persuasivo emerge dal contesto in cui sono inserite, proprio come avverrà per Wagner e Berlioz. Le melodie non colpiscono per intrinseca bellezza, bensì per la loro nobiltà, la pertinenza, l’efficacia, la proprietà semantica. Le modulazioni più audaci e inattese non si trovano nei pezzi chiusi ma nei recitativi e in quei grumi di emozioni che si incontrano frequentemente nelle sue opere: non più sconnessi vocaboli di recitativo e non ancora frasi elaborate abbastanza da assumere i contorni dell’aria. Spontini accosta continuativamente nuovi temi, passando dall’uno all’altro senza curarsi di svilupparli. Anche per questa varietà nasce un canto appassionato e intenso, non facile da ritenere all’orecchio. La voce evita in genere i grandi salti cari allo stile epico e preferisce i piccoli intervalli, sovente i gradi congiunti. Le melodie di rado eccedono l’ambito di una ottava e insistono su formule che rimangono costanti per intere sezioni, sfruttando l’effetto ossessivo dell’iterazione. Il recitativo non è momento di riposo per il cantante, ma piuttosto occasione di intensificazione espressiva. Esso parte da formule semplici e si espande in grandi costruzioni, arricchito spesso dai succosi frammenti melodici sopramenzionati.
La continuità melodica rende evanescenti i confini tra pezzi chiusi, non suggellati da formule cadenzanti, e i recitativi. Spontini usa con frequenza l’artificio della ripetizione, tanto nelle frasi vocali come nei frammenti strumentali, ma si preoccupa di eludere l’eccesso di simmetria che ne potrebbe derivare accostando spunti di lunghezza diversa. L’orchestrazione non ricerca effetti fini a sé stessi o coloristici: essa è costantemente nutrita e motivata e coglie il traguardo dell’efficacia attraverso la coerenza e la congruità piuttosto che evocando immagini onomatopeiche o suscitando moti di sorpresa.
Che la vocalitá sia chiave di volta per accedere all’universo creativo di Rossini e di Spontini lo prova un altro aspetto del curioso destino che li accomuna. Quando la nuova domanda di verità drammatica, l’urgenza di esternare sulla scena i sentimenti e le passioni dei mortali ha spinto il canto lirico a privilegiare una possanza capace di restituire emozioni forti, è stato difficile reperire virtuosi capaci di trasmettere il senso autentico delle loro opere. Anche per questo titoli che avevano incontrato il favore entusiastico del pubblico, influenzando la coscienza popolare e il gusto di intere generazioni, sono scomparsi all’improvviso, a volte senza lasciare traccia né rimpianto. Fatto tanto più incredibile quando si pensi che Rossini e Spontini hanno acceso e incantato comunità di altissima tradizione culturale, adusate a consumare musica e spettacoli d’ogni epoca, incontrati in chiesa e nella scuola, ritrovati nelle piazze e nei teatri, coltivati nella quotidianità familiare della pratica amatoriale.
La restituzione rossiniana ha contribuito a rimettere in auge una vocalità di peculiare ricchezza, sottraendola alla generica omogeneizzazione di un canto spianato e privo di mezze tinte. Grazie a Rossini, oggi si canta meglio Bellini e, anche se ancora in misura insufficiente, Donizetti e Verdi, soprattutto il Verdi della giovinezza. Chi ha coltivato il virtuosismo belcantistico canterà meglio anche Mozart (il Mozart impossibile delle prime opere italiane!), Wagner, Strauss, Schömberg, Bizet, Puccini. La morbidezza che pretende il Belcanto, la ricerca del legato e della mezzavoce, la cura del dettaglio e del particolare esornativo assicurano uno spettro di colori vocali infinito. Giova sperare che anche per Spontini si arrivi a coltivare canoni vocali atti a riportare in repertorio le grandi creazioni dei periodi parigino e berlinese.
Nati presso la dorsale orografica che i geologi reputano linea di divisione fra il Nord e il Sud della Penisola, dorsale che sfocia nell’Adriatico all’altezza di Fosso Sejore fra Pesaro e Fano, Rossini e Spontini non hanno potuto sottrarsi alle diatribe che contrapponevano i seguaci della Scuola napoletana ai compositori del Settentrione, influenzati dalla lezione della grande tradizione d’oltralpe. Scegliendo, volontariamente o meno, il genere buffo per l’esordio, Rossini ha dovuto confrontarsi con la lezione di Cimarosa e Paisiello, a cui pervicacemente facevano riferimento recensori e critici incapaci di comprendere quanto deboli fossero i richiami al passato a fronte delle rivoluzionarie innovazioni musicali e drammaturgiche introdotte dal giovane pesarese. Lezione invece assunta senza tentennamenti da Spontini, entrato come allievo nel Conservatorio napoletano per avviare la formazione professionale, e poi drammaticamente rinnegata con una svolta stilistica radicale.
Il distacco da una tradizione che orientava il gusto del pubblico ha riguardato, oltre la vocalità, le strutture formali e l’assetto strumentale. I compositori della scuola napoletana centrano il discorso espressivo principalmente nella linea vocale, prestando scarsa attenzione al suo accompagnamento e astenendosi dal conferire alla trama strumentale un’autonomia di comportamento capace di assicurare alla partitura varietà e incidenza espressive. L’elaborazione complessiva della partitura risulta spesso sommaria e rudimentale, avendo accolto il criterio degli operisti secenteschi che consideravano la strumentazione un complemento esornativo secondario, da affidare alla responsabilità di un concertatore tenuto a corrispondere esigenze ambientali, artistiche e economiche diverse in ogni circostanza. Gli archi vengono generalmente raggruppati in due sole sezioni: Violini primi e secondi, che espongono la linea melodica, quasi sempre ricalcante quella del canto; Viole, Violoncelli e Contrabbassi, che eseguono pressoché esclusivamente il basso generale. Quando i Violini non procedono omofonicamente fra loro o col canto, il più delle volte i Violini secondi riprendono in terza o in sesta spunti e disegni dei Violini primi, con andamento omoritmico. Raramente le Viole sviluppano un comportamento autonomo da quello di Violoncelli e Contrabbassi. I fiati rivestono compiti di scarsa importanza: Flauti e Oboi, quando non raddoppiano la parte dei violini (e dunque del canto) si limitano a tenere note lunghe d’armonia. Rari sono gli interventi solistici, solitamente riservati a arie impegnative di carattere virtuosistico. Corni e Trombe, salvo rituali richiami bellici e fanfare di caccia, hanno compiti di sostegno armonico, mentre i Fagotti si limitano per lo più a rinforzare il basso generale.
Tale scrittura concisa favoriva la diffusione dell’opera perché richiedeva organici contenuti, scevri da rimarchevoli esigenze tecniche, ma, limitando fortemente i colori strumentali, riduceva l’interesse del dialogo col canto. Alla melodia vocale tocca così l’abnorme responsabilità di sostenere ore di discorso musicale e drammaturgico senza il contributo ravvivante e caratterizzante di un gioco timbrico variegato e cogente. Le partiture di queste opere venivano dunque a rassomigliare a quelle barocche del primo Seicento, dove erano tracciate solo la parte vocale e quella del basso continuo: soltanto Sinfonie e Ritornelli presentavano una realizzazione strumentale del basso a tre, quattro o cinque parti, dove quasi mai veniva indicato il nome dello strumento che doveva eseguirle. Dalla tradizione barocca discende ancora la prevalenza assoluta del canto monodico, col conseguente rifiuto di procedimenti contrappuntistici e polifonici che possano offuscare l’intelligibilità della parola cantata.
L’adesione incondizionata alla regola del basso continuo e l’impiego pragmatico e disimpegnato della strumentazione ha distanziato i compositori della scuola napoletana dai colleghi del Settentrione, influenzati dal travolgente sviluppo del sinfonismo strumentale germanico. Ne prenderanno coscienza Rossini e Spontini quando, voltate le spalle al tradizionale serbatoio napoletano, prenderanno la via del Nord. Del resto il criterio di una discrezionalità nell’accompagnamento della voce e la legittimità di interventi pretesi dalla natura aleatoria del testo non era appannaggio esclusivo dei compositori barocchi italiani. Haendel prescrive con eccessiva frequenza “Oboi coi Violini” senza specificare quanti strumenti debbano farlo; per quanto concerne i violini, che in genere raddoppiano la parte del canto, non viene poi precisato se ne debba suonare uno soltanto o l’intera sezione. Già Mozart ha dissentito da tale sommarietà facendosi carico di ristrumentare da par suo il Messia haendeliano, ma la tendenza a adeguare la scrittura strumentale al gusto corrente ha contagiato musicisti grandi e meno grandi di ogni epoca: Bach ha trascritto pagine di Pergolesi, Vivaldi, Albinoni; Wagner ha ritoccato la strumentazione delle sinfonie di Beethoven; Malher ha “corretto” quelle di Schumann e di tanti altri; Rimski-Korsakov ha addolcito la rocciosa partitura del Boris Godunov di Mussorski…..
L’atteggiamento della musicologia della seconda metà del Novecento ha osteggiato fieramente questa tendenza in nome di un rispetto sacrale del testo originale. In molti casi questa filosofia si è dimostrata giusta e proficua, ma la ricerca esasperata di un purismo filologico fine a sé stesso non sempre ha conseguito risultati positivi. Criteri di rigido storicismo hanno confinato splendide partiture di opere protobarocche al collezionismo discografico o alle manifestazioni elitarie e celebrative di festival specializzati. Oggi tutti i concertatori che approntano opere di Monteverdi, Cavalli, Cesti e loro contemporanei in teatri del normale circuito lirico non si fanno scrupolo di integrare, con le cautele e le cognizioni indispensabili, un discorso strumentale dichiaratamente abbozzato.
Ritengo che una riflessione analoga possa applicarsi anche a tante partiture d’opere della Scuola napoletana, soprattutto quelle di genere serio, lontane nello spirito e nella sostanza dalle definizioni perentorie che caratterizzano la partitura modernamente intesa. Se quei manoscritti ricalcano il sistema aleatorio delle partiture barocche, del resto non disdegnato da tanti compositori dell’avanguardia contemporanea, converrà rivedere radicalmente l’approccio interpretativo per poterle rimetterle in circolazione adeguatamente. Il discorso, partito dall’esperienza di due protagonisti che hanno vissuto in prima persona il disagio di scelte difficili e determinanti, non può trovare in questa sede risposte esaustive. L’argomento merita un dibattito specifico, dove si possa finalmente affrontare questo tema “politically incorrect”.
Alberto Zedda