Per riportare in auge il repertorio protobarocco, sono state recuperate tecniche e prassi desuete che hanno orientato i musicisti a ricreare un contesto musicale di cui si era perduta ogni tradizione diretta. All’inizio di questo processo conoscitivo è stato giusto attenersi, quanto possibile, a criteri storicistici, affinché il punto di partenza fosse il meno arbitrario. Oggi che regole e nozioni sono diventare patrimonio diffuso e assimilato si pone pressante l’esigenza di uscire dalle dotte ma ingessate pastoie del rigore storicistico per cercare una più libera traduzione della musica barocca, rispondente alla sensibilità dell’ascoltatore contemporaneo, come avviene per qualunque composizione musicale di altra epoca.
Se le premesse degli integralisti fossero corrette, si dovrebbe concludere che le Sinfonie eseguite dai Berliner e dai Wiener o le Sonate toccate allo Steinway, tanto diverse nel suono da quelle che ascoltavano i contemporanei, danno di Mozart e Beethoven un’immagine falsa e limitativa. Laddove proprio il poderoso Steinway può arrivare a trasmettere la smisurata energia, l’anelito di infinito contenuti nella Sonata op. 106, scritta da Beethoven per un Hammerklavier che la spinta profetica del genio ha obbligato a trasformarsi.
La ricostruzione fededegna del mondo musico-teatrale secentesco è obiettivo chimerico quanto inutile: quand’anche fosse possibile raggiungerla, non è certo che gioverebbe a un pubblico che ha stratificato altre conoscenze, acquisito altre chiavi di lettura. Discorso analogo vale per l’aspetto visivo. È altrettanto improbabile che gli argani e le macchine teatrali del grande Giacomo Torelli da Fano, che mirabilmente cambiavano a vista fondali e quinte di carta malamente illuminati da candele sgocciolanti e fumose, possano oggi competere con gli artifici della tecnologia cinematografica per restituire allo spettatore la sorpresa di apparizioni celesti, la suggestione di boschi incantati, la visione di creature mitologiche fantastiche.
I manoscritti sopravvissuti d’opere del primo Seicento sono la traccia di partiture mai scritte per esteso, che contengono sovente soltanto il canto col relativo basso generale. Solo Ritornelli e Sinfonie aggiungono al basso una realizzazione strumentale a tre, quattro o cinque voci, dove mai viene indicato il nome dello strumento destinato a eseguirla, giacché non era consuetudine del compositore precisare aspetti della composizione ritenuti secondari e complementari, quali la veste strumentale. Considerare questi manoscritti alla stregua di una odierna partitura d’orchestra, testo di riferimento esaustivo, è l’errore che porta a ritenere filologiche certe esecuzioni al confronto con altre che applicano i criteri teorizzati, per esempio, da Agostino Agazzari, musicista militante, compositore affermato, autore di un aureo trattatello, “Del Sonare sopra’l Basso con tutti li stromenti e dell’uso loro nel Conserto” (Domenico Falcini, Siena, 1607).
Un testo aperto, dunque, simile a quello di tanta musica aleatoria dell’avanguardia musicale novecentesca a cui il momento rivoluzionario e innovativo dell’accensione barocca sorprendentemente si ricollega, che comporta automaticamente l’intervento dell’interprete per decrittare e integrare i simboli della sintetica notazione. Ne discende la necessità di rivisitare e trascrivere i manoscritti con una visione musicologica aperta ad accogliere il contributo di fantasia e creatività previsto dal compositore, sforzandosi di intuire le sue esigenze.
Esigenze che Emilio Del Cavaliere, nell’Avvertenza ai lettori della sua Rappresentazione di anima e di corpo (1600) riassume nella frase: “et il signor Emilio lauderebbe mutare strumenti conforme all’affetto dei recitativi”, e Claudio Monteverdi esemplifica nella partitura dell’Orfeo (1609), nei Madrigali guerrieri e amorosi dell’Ottavo libro, nella Selva morale e spirituale, ed espone con coloritissimi argomenti in lettere ad Alessandro Striggio e a Ferdinando Gonzaga: illuminante la descrizione di un’ideale orchestrazione da lui immaginata per dar voce distinta al mare, ai venti, al cielo, alla terra in un progettato e mai realizzato Intermedio per Mantova.
La ricezione del suono è profondamente mutata rispetto a quella dell’individuo post-rinascimentale, immerso in un silenzio turbato soltanto dai rumori della natura e degli esseri viventi: diverso dovrà essere il modo di presentare il repertorio barocco nei nuovi spazi teatrali, per propiziarne l’ascolto.
L’accompagnamento della voce era condizionato dai gravi problemi d’intonazione sollevati dal concomitare di strumenti forgiati senza il riferimento di un diapason condiviso: il prevalere di archi e flauti discendeva anche dalla duttilità di questi strumenti a rapportarsi all’intonazione del continuo e del canto.
Vano è dibattere sulla preferenza da accordare a strumenti antichi o moderni, a complessi specialistici o a organismi istituzionali. Il ricorso allo strumento antico non conferisce automaticamente un marchio d’autenticità, che trova altrove le ragioni primarie. D’altronde le odierne ricostruzioni, accogliendo il temperamento armonico ed estendendo i limiti di registro, hanno alterato profondamente la tecnica originaria degli strumenti barocchi. L’esecutore di uno strumento moderno che conosca la tecnica di emissione dell’equivalente barocco e i principi basilari della prassi esecutiva del tempo può conseguire risultati validi quanto quelli ottenibili da un buon suonatore di strumento antico ricostruito.
Nel repertorio lirico barocco il canto è protagonista assoluto: la cornice strumentale non può che essergli ancella, sicché ogni sfumatura delle parole del testo sia percepibile in ogni momento. Il compositore, tanto vago nel fissare i contorni strumentali, è puntualissimo nel precisare gli andamenti del canto e il suo ambito armonico, i veri cardini della composizione. Limitare la scelta degli interpreti a vocette anemiche e fisse, incapaci di trarre dalla parola le luci e le ombre che la fanno vivere e palpitare, è sbagliato, come è sbagliato affidare ruoli che dalla parola traggono forza e drammaticità a chi non sia in grado di dominare la prosodia della lingua impiegata, di restituire sino in fondo il valore evocativo e la carica espressiva dei suoi simboli. Da come vengono impostati e risolti i problemi della vocalità discendono i modi dell’accompagnamento strumentale e, più in generale, quelli metodologici che presiedono alla restituzione dei testi.
La ricerca dell’autenticità per le parti strumentali aggiunte dal curatore per integrare lo scheletro di partitura costituito dalle sole linee del canto e del basso, dovrebbe partire, piuttosto che da alchimie timbriche, dalle caratteristiche strutturali dei non pochi modelli tramandati. Si tratta per lo più di frammenti in stile contrappuntistico-imitativo, con andamento orizzontale, opposto a quello verticale richiesto dal procedere armonico-accordale. Gli esecutori potevano improvvisarli dialogando col canto o leggerli su particelle appuntate durante le prove, di concerto col maestro al cembalo e col violoncello, il violone o la viola da gamba che, a turno, sostenevano il basso del continuo.
Gli integralisti che limitano l’impiego di strumenti melodici ai rari casi esemplificati nei manoscritti sono ormai una ristretta retroguardia. Oggi, la prassi esecutiva riguarda per lo più l’ampiezza, il numero, la natura di tali interventi, non l’opportunità di effettuarli, e preferisce spostare gli interrogativi sulla scelta degli interpreti, sui problemi strutturali e drammaturgici del testo: tagli, espunzioni, spostamenti, parodie, prestiti da altre composizioni; aggiunte o ripetizioni di Ritornelli e Sinfonie; trasposizioni di tonalità; elezione di una data versione quando esistano più lezioni autentiche, riflesso di interventi ulteriori o di riprese in mutate circostanze.
Come sempre avviene quando ci si muove sul terreno minato dell’aleatorietà e del gusto, l’ impegno filologico e storiografico deve mescolarsi al buon senso del musicologo e del musicista militante. Non la pretesa di migliorare e abbellire le opere che trascrive deve muovere la mano del curatore, ma il proposito di tradurle e presentarle in modo appropriato ad ascoltatori che le riscoprono in situazioni tanto mutate. A volte soluzioni che appaiono distanti dalla lettera del manoscritto sono quelle che meglio ne rispettano lo spirito, le più fedeli alle intenzioni originarie, le più vicine al miracolo della creazione.
Alberto Zedda