Ho sempre cercato di interpretare, col pensiero e con l’azione, lo spirito del tempo, in una ricerca inesauribile di un nuovo proteso al futuro, rifuggendo dall’ovvio, dal déjà vu, dalla consuetudine consacrata. Perché questo nuovo rispondesse veramente allo Zeitgeist e non al capriccio di mode passeggere, all’infatuazione di futili successi, ho cercato di confrontarlo costantemente col grande lascito della cultura classica. Gli studi umanistici, al liceo classico prima e alle università di filosofia e di paleografia musicale poi, hanno avuto il compito di provvedere gli strumenti adeguati.
Lo studio della lingua greca mi ha insegnato che vocaboli e verbi possono assumere significati diversi, anche opposti, secondo il contesto in cui vengono adoperati; quello della lingua latina, al contrario, ha dimostrato che, partendo dal concetto basico contenuto nella radice etimologica greca, chi parla e chi scrive ha il dovere di arrivare a una definizione precisa e sintetica dei termini che adopera. Dal greco ho derivato la capacità di variare con infinite sfumature un testo da interpretare, dunque la libertà di adattarlo allo spirito del tempo; dal latino l’esigenza di ancorarlo a una verità filologica fededegna, al rispetto di una lezione criticamente ripensata. Dal primo filone è nato il musicista militante: il direttore d’orchestra, il programmatore, il direttore artistico; dal secondo discendono le prime edizioni critiche di opere liriche del grande repertorio italiano da lui pubblicate (rese possibili dall’adozione di una metodologia ad hoc, inedita e originale), seguite dalla riscoperta di un Rossini dimenticato, di segno drammatico serio, dall’affermarsi del Rossini Opera Festival e dell’Accademia Rossiniana di Pesaro. L’attitudine a valutare il quotidiano con l’apertura mentale del filosofo, ha sviluppato in me una costante attenzione ai problemi della società civile e alle leggi che ne determinano i comportamenti, esaminati con disincanto, ma anche con l’assillo pugnace di comprendere e giustificare, rivisitando costantemente certezze e convinzioni.
Da giovinetto coltivavo frequentazioni adulte; da adulto ho dedicato ai giovani gran parte della mia attività: attraverso ogni tipo di didattica, esercitata in conservatori, in università, in innumerevoli masterclasses tenute nell’universo mondo; promuovendo manifestazioni incentrate sul protagonismo di talenti affioranti; aprendo ai giovani artisti percorsi che la pigrizia borghese riservava a presenze consolidate. Per questo ho coltivato l’utopia dell’avanguardia, per questo mi sono schierato con la minoranza del dissenso, anche se non sempre con quella del dissenso organizzato che arriva a istituzionalizzarsi e a conseguire posizioni di potere ripaganti chi lo esercita: il dissenso silenzioso, difficile da praticare nell’ombra dell’anonimato e nel rispetto delle regole. Sono le ragioni che mi hanno portato ad amare e ammirare, io laico intransigente, personaggi come il pretore di Balbiana, Don Milani.
Come direttore d’orchestra sinfonico ho coltivato con anni d’anticipo autori estranei alla programmazione corrente, sia per quanto riguarda il grande repertorio classico (Bruckner, Malher, Wolf…) sia per quello barocco, del tutto assente nel panorama musicale del primo dopoguerra (Haendel italiano, Vivaldi sacro, Purcell, Boyce, Corelli, Carissimi, Monteverdi, Cavalli…). In campo lirico ho promosso un sostanziale ripensamento di tradizioni obsolete, in gran parte frutto di convenienze per aggirare insufficienze di interpreti o facilitare allestimenti poco scrupolosi, comunque non in linea coi mutamenti intervenuti nella ricezione di un pubblico profondamente diverso da quello che aveva promosso la grande stagione del melodramma romantico e verista.
Ho iniziato solitario una personale rivoluzione in campo lirico, senza casse di risonanza che aiutassero a spiegare l’esigenza di edizioni critiche ancora lontane nel tempo, premessa indispensabile al rinnovamento di un costume interpretativo fermo a consuetudini ultrasecolari e all’allargamento di un repertorio lirico ristretto a poche decine di titoli.
Pochi compresero la novità delle mie proposte di allora. Casa Ricordi, attraverso un suo oscuro funzionario che operava all’insaputa della direzione e che ha fatto più danni al prestigio della casa editrice milanese di un esercito di detrattori, per anni mi impedì di dirigere opere di sua edizione, accusandomi di lesa tradizione. Pagando di persona, mi sono reso conto che certe operazioni culturali andavano adeguatamente preparate: vano contare sulla lungimiranza di critici lontani dalla specifica militanza, sulla solerzia di operatori musicali restii a mettere in discussione posizioni redditizie, sulla sensibilità di un ambiente snobistico e disattento, pigro e supponente, provinciale e ignorante, uso a liquidare con fastidio aggiornamenti che obbligano a impegnative riflessioni. Mi sono anche reso conto che latitavano strumenti adatti a promuovere un effettivo rinnovamento di gusti e costume.
Nel teatro letterario grandi registi e attori pretendevano fresche letture dei testi classici, favorite da nuove traduzioni aperte alla sensibilità del linguaggio moderno. Nel teatro musicale invece registi, direttori, cantanti operavano su testi vecchi di secoli, sclerotizzati da spurie incrostazioni di ogni genere, depositatesi con l’accumulo di tradizioni esecutive accolte senza discrimine. La tradizione è arma a doppio taglio: accolta acriticamente nasconde il pericolo di irrigidire e distorcere posizioni e atteggiamenti non più attuali.
Negli anni del mio apprendistato ho assistito a numerose operazioni culturali di impatto rivoluzionario rimaste senza effetto perché non condotte con rigorosa coerenza. Ricordo una memorabile Walkure alla Scala: a un’impostazione registica d’avanguardia, di grande apertura intellettuale, era stata affiancata una concezione musicale di routine; una regia ricca di sottintesi si accompagnava a un discorso musicale greve, di scarsa fantasia. Risultato: il lavoro del geniale regista, Luca Ronconi, andava intuito piuttosto che visto, poiché la dicotomia col discorso musicale lo rendeva incomprensibile. Altro esempio insigne, per restare alla Scala, è stato il fiasco registrato da una Favorita che allineava un cast singolarmente clamoroso. Ancora una volta ho dovuto constatare che non basta mettere insieme i più bei nomi della lirica mondiale se poi non ci si preoccupa di legarli a un progetto unitario e valido, premessa per una stimolante riconsiderazione critica.
Altre volte un progetto culturale ben delineato non ha trovato l’interlocutore in grado di corrispondergli. Si veda una rossiniana Gazza ladra che ha inaugurato anni addietro l’Opera di Roma in una versione integrale condotta sull’edizione critica della Fondazione Rossini. Lo spettacolo ha mostrato un desolante campionario di impreparazione e superficialità, quando non insensibilità, da parte di molta critica che ha liquidato una delle opere più importanti del repertorio ottocentesco, vetta assoluta di un compositore sommo, con banali argomentazioni quali la lunghezza dello spettacolo, la scarsa credibilità di un soggetto tirato in lungo più che la sostanza del dramma consentisse, l’eccessivo impegno di regista e direttore nel prenderla sul serio, l’inadeguatezza di taluni degli interpreti. I più non si sono accorti che per la prima volta a Roma veniva rappresentato uno spettacolo impostato sulle regole del più autentico belcantismo, basato su un testo critico che estendeva il rigore testuale a una prassi esecutiva recuperata, in grado di aprire la strada alla comprensione di un repertorio primottocentesco ridotto al silenzio dalla mancanza di adeguati strumenti comunicativi. Altri non hanno compreso la novità di un “genere” pochissimo conosciuto, il “semiserio”, ritenuto una commistione di comico e di serio, tanto da ridere e tanto da piangere, laddove trattasi invece di un’opera seria ambientata nella realtà quotidiana anziché nell’Olimpo e nella storia. La presenza del lieto fine e di personaggi che sfiorano il grottesco non bastano ad alterarne il carattere tragico di fondo.
Alberto Zedda