Il viaggio a Reims: metafora del rossinismo

Il viaggio a Reims, produzione di Emilio Sagi. ROF 2001

L’essenza del processo compositivo di Gioachino Rossini si può sintetizzare con una sola parola: idealizzazione. Non è una novità: ogni progetto artistico è basato sull’esigenza di sublimare la realtà trasformando in assoluti universali esperienze e sentimenti della vita individuale. Ma è l’accanimento con cui viene perseguito il distacco dal senso comune a fare della drammaturgia rossiniana qualcosa di assolutamente incomparabile con le altre forme di teatro musicale. In Rossini l’ansia di sottrarsi ai condizionamenti della realtà travalica l’astrazione arrivando a sfiorare l’assurdo. Si annida in questo maniacale processo di aggirare il comune sentire quella componente di follia, di folie organisé, come scrisse Stendhal, che lascia un’ombra di mistero sugli esiti dei suoi drammi, incerti fra il sublime della poesia e il disincanto di un’ironia venata di sarcasmo.

Qualunque storia si accinga a raccontare, seria o buffa, Rossini non tralascia espediente per sottrarla alla logica del quotidiano e situarla in un altrove individuabile con l’antenna della fantasia e dell’immaginazione piuttosto che con i meccanismi della ragione. Solo a Rossini avviene di creare credibili storie d’amore evitando gli appuntamenti obbligati della seduzione e del dialogo. Valga per tutte la lezione del Barbiere di Siviglia, dove Rosina e Almaviva non si trovano mai soli in tutto il corso dell’opera, non posti in grado dunque di maturare il percorso dialettico e conoscitivo che conduce dal turbamento del primo incontro a una decisione matrimoniale che corona una vicenda irta di contrattempi e difficoltà . E ciò senza trasmettere al pubblico il minimo dubbio sulla legittimità dell’operazione, senza allentare la tensione del divertimento e della partecipazione. Solo Rossini riesce a commuovere con Duetti di indiscutibile carica erotica, quale quello bellissimo fra Elena e Uberto nel primo atto de La donna del lago, dove l’oggetto del desiderio è diverso per i due protagonisti, determinando un gioco erotico inquietante: la perversione seduce quando si ammanta di innocenza e virtù, come chiarirà in modo paradigmatico il celestiale terzetto conclusivo del Comte Ory.

L’armamentario rossiniano annovera quanto di più sofisticato possa immaginarsi.
Sostanziale nella poetica rossiniana è l’elezione dei testi posti in musica: vicende prive di chiaroscuri psicologici, carenti di un ritmo drammatico preordinato, rallentato dalla presenza di arie introdotte in ossequio alla tradizione del virtuosismo canoro, insidiate da salti logici palesi, comunque fortemente sbilanciate nell’equilibrio fra i prevalenti momenti statici e quelli d’azione. Amenaide e Tancredi trascurano l’occasione di due lunghi duetti per chiarire l’equivoco che li condurrà a separarsi per sempre, ma nessuno se ne scandalizza perché il fascino del loro amore disperato e romantico risiede nella malinconia della sua tragica incomunicabilità. Semiramide, Arsace, Assur costruiscono in ore di laceranti tensioni, scandite da arie e duetti di smisurata carica emotiva, l’appuntamento con la catarsi purificatrice che si dipana alfine in poche, precipitate battute di recitativo strumentato: l’obiettivo di Rossini non è quello di raccontare una storia, ma quello di farci partecipi di uno scontro epico fra la volontà di potenza della creatura umana, per il bene o per il male, e le forze soprannaturali che le si oppongono, simboleggianti la fatalità del destino.

Altrettanto determinante la scelta di una vocalità essenzialmente artificiale, basata su cellule melodiche anodine, virtuosisticamente elaborate, tipiche del vocabolario strumentale, ma che non escludono l’edonistico abbandono al piacere del canto. Per diventare espressivo questo canto rossiniano ha bisogno della collaborazione trasfigurante dell’interprete, che gli insuffli luce, vita, immagine onde uscire dai meandri del cervello e raggiungere le pulsioni del cuore. L’interprete capace di trasformare il gelo dell’astrazione in fonte di emozioni significanti conquista il diritto a simboleggiare e a trasmettere i grandi e nobili sentimenti: il virtuoso della vocalità diventa automaticamente l’espressione specchiata della Virtù, della Regalità, dell’Eroismo, dell’Amore sublime. Solo il superbo cantore capace di modulare colori innumerevoli, compiere acrobazie mirabolanti, piegare la voce a chiaroscuri che simulino le sfumature dell’animo è in condizione di dominare e dar senso a vicende che poggiano su metafore astratte e vaghe. Giusto dunque che la tipologia vocale dell’interprete non debba rispondere a criteri governati dalla logica della verosimiglianza.

Se il Vincitore, l’Eroe, l’Eletto deve sorprendere per la qualità del suo cantare, è naturale che venga scelto dove esistono le migliori condizioni per assicurare l’attesa meraviglia. Un tempo la scelta cadeva sul Castrato, voce duttile e potente, naturale e insieme artificiale, non interamente maschile né interamente femminile, portato dunque a evocare la mitica figura dell’ermafrodita. Privato di questa possibilità, Rossini ha trovato nella voce femminile del contralto la sostituzione più convincente: prima di tutto perché al contralto è consentito un acrobatismo virtuosistico esteso e robusto; poi perché la condizione innaturale del travestimento imposto dai ruoli facilita quel processo di distacco dalla verità a lui tanto caro. A questa vocalità si affianca l’adozione di un vocabolario strumentale personalissimo, basato su microcellule fortemente caratterizzate in senso ritmico e dinamico ma non altrettanto significanti riferite all’espressione. Il linguaggio della musica, si sa, è astratto e asemantico per natura: quello rossiniano lo è più d’ogni altro proprio per lo scarso valore espressivo di temi melodici asciutti e brevi che non tollerano sviluppo, sostituito dalla pura e semplice ripetizione o dal susseguirsi di nuovi spunti tematici. Nessun altro autore applica sistematicamente l’apparente assurdità di ricorrere a vocaboli identici, impiegati con eguale disinvoltura e efficacia, per accompagnare le opposte situazioni della gioia e del dolore. Si spiega così la perfetta funzionalità di sinfonie quale quella dell’Aureliano in Palmira, nata da situazioni tragiche e, trasmigrata nel Barbiere di Siviglia, diventata prototipo di sinfonia giocosa.

In una prospettiva più lata si spiega anche perché sia possibile che novanta minuti di musica (si badi: non un tema, una pagina, un’aria, un duetto!) passino senza modificare una nota o uno strumento da un’opera italiana, Il viaggio a Reims, a un’opera francese, Le Comte Ory aderendo tanto bene alla diversa situazione da far qualificare autonomamente le due opere fra i capolavori. Nel passaggio dall’una all’altra, la partitura musicale viene smontata e rimontata determinando cadenze e successioni, prestabilite dai nuovi librettisti piuttosto che dal compositore. Determinanti, certo, le pagine nuove, composte da Rossini per collegare e completare le parti rimaste senza copertura musicale, ma resta il fatto straordinario che al direttore d’orchestra, al regista, al cantante, all’ascoltatore impegnati in una di queste opere mai avviene di andare col pensiero all’altra, di ritrovare suggestioni parallele, di confondere i significati della rappresentazione. Si aggiunga che per molti commentatori non sprovveduti il cambio di collocazione ha significato addirittura una sostanziale mutazione di pelle, sino a ravvisare nel Comte Ory una vena d’ispirazione francese sconosciuta ne Il viaggio a Reims.

In effetti  nella permuta la cifra stilistica ha subito un cambio radicale. Nel Viaggio a Reims la comicità segue la tendenza che Rossini, sollecitato dalla prepotente vocazione drammatica, aveva perseguito con Barbiere e Cenerentola di allontanarsi dal comique absolu coltivato nelle farse d’esordio e sfociato nel capolavoro del genere, L’italiana in Algeri, per avvicinarsi al comique significatif, mescolanza di buffo e di serio. L’opera va dunque ascritta al filone semiserio. Le Comte Ory ritorna invece, sorprendentemente e senza esitazioni, al comique absolu, il primo, spontaneo modo di esprimersi del giovane Rossini: un astrattismo sganciato da ogni prudenza, consentito solo al genio visionario.

Ne Le Comte Ory il gioco è spinto al limite di impostare e condurre il discorso drammaturgico non su quello che accade in scena, ma su quello che potrebbe accadere o che si immagina accadere. Il meccanismo illusorio del travestimento, largamente impiegato, non riguarda più soltanto tonache, barbe finte, luoghi esotici: si trasferisce nell’inconscio a suggerire esiti diversi da quelli che appaiono sulla scena, di modo che la vera natura dei comportamenti, i moventi che li determinano sfuggono alla valutazione immediata dell’osservatore. Il travestimento diviene così strumento principe dell’ambiguità e confonde il giudizio morale con l’innocente apparenza del gioco.

Il viaggio a Reims, conobbe un grande successo alla sua presentazione, il 19 giugno 1825 al Théâtre Italien di Parigi, e fu subito giudicata dalla critica, Stendhal e Castil Blaze in testa, una della più felici creazioni di Rossini. L’opera siglò i festeggiamenti per l’incoronazione di Carlo X Re di Francia, avvenuta a Reims, sede tradizionale della cerimonia, circa due settimane prima. Il Re presenziò con la famiglia alla rappresentazione, cosicché non fu possibile al pubblico, per ragioni di etichetta, manifestare apertamente il proprio entusiasmo. Il cast, per qualità e quantità senza eguali nella storia dell’opera lirica, allineava i più bei nomi del firmamento canoro, praticamente tutte le stelle dell’Opéra e del Théâtre Italien, ansiose di rendere omaggio al nuovo padrone del loro destino: Giuditta Pasta, Adelaide Schiassetti, Laure Cinti, Domenico Donzelli, Marco Bordogni, Felice Pellegrini, Vincenzo Graziani, Carlo Zucchelli e Nicolas Prosper Lévasseur.

Alla rappresentazione di quella memorabile serata ne seguirono una seconda, pubblica il 23 e una terza il 25. Poi, nonostante pressioni insistenti, Rossini non consentì altre riprese, salvo una concessa alla Duchesse de Berry, che però non ebbe luogo per l’indisponibilità di un protagonista, Felice Pellegrini. Una seconda eccezione, con Filippo Galli al posto di Pellegrini, ebbe miglior sorte il successivo 12 settembre, ma Rossini fu irremovibile nel non consentire che lo spettacolo passasse all’Opéra, dove avrebbero trovato posto più spettatori. Con questa rappresentazione Rossini considerò conclusa la storia del Viaggio a Reims che riteneva non più proponibile per varie ragioni: prima di tutto per una questione di eleganza nei confronti del Sovrano, destinatario di un omaggio che per essere tale doveva restare esclusivamente suo; poi perché la pratica di direttore artistico e di organizzatore teatrale gli insegnava che nessun impresario ragionevole avrebbe accettato di radunare per un solo spettacolo tanti cantanti e di levatura tale da corrispondere alle richieste di ruoli composti per i più grandi interpreti dell’epoca, dunque irti di ogni difficoltà; infine perché dubitava che uno spettacolo tanto insolito nella sostanza drammaturgica, governata dalla necessità di trovar posto a tanti personaggi, potesse veramente interessare lo spettatore.

Quest’ultimo dubbio viene confermato dalla definizione che di suo pugno premette all’autografo della partitura del Viaggio: “Cantata”, diversamente da quanto si leggeva nel libretto che accompagnava la rappresentazione parigina: “Dramma giocoso in un Atto”, e, nella titolazione in francese, “Opéra Comique en un acte”. Di fatto Rossini smembrò la partitura del Viaggio traendone tutte le pagine non condizionate dall’organico abnorme e dalla situazione di circostanza e passandole, con la collaborazione di Eugene Scribe, il più esperto uomo di teatro del tempo, in quella che doveva divenire la prima opera composta espressamente per Parigi, dopo i rifacimenti de Le siège de Corinthe e del Möise et Pharaon: Le Comte Ory. L’autografo delle parti superstiti, quelle non passate ne Le Comte Ory, fu gelosamente conservato nella sua collezione privata e solo dopo la morte fu regalato dalla vedova Olympe all’amico medico Vio Bonato, forse per debito di riconoscenza per averlo amorosamente assistito negli ultimi anni. I 149 folli, perfettamente conservati, sono poi approdati per ragioni non chiarite alla Biblioteca di Santa Cecilia, in Roma, dove ancora si trovano. Non è ancora stata ritrovata, invece, la lezione autografa della parti trasmigrate nell’Ory, per cui il lavoro degli studiosi della Fondazione Rossini che l’hanno ricostruite ha dovuto basarsi sull’edizione a stampa della partitura pubblicata da Troupenas nel 1828 (sicuramente con la vigile presenza del Maestro, amico dei Troupenas e ancora residente a Parigi), sulle parti d’orchestra e coro adoperate nella prima esecuzione parigina dell’Ory , conservate nella Biblioteca dell’Opèra, e sui materiali di due pasticci, Andremo a Parigi? (1848) e Il viaggio a Vienna (1854), che, a dispetto della volontà di Rossini, erano stati allestiti, assente il compositore, a Parigi in onore dei moti rivoluzionari di quell’anno (!) il primo e a Vienna in occasione del matrimonio di Francesco Giuseppe con Elisabetta, il secondo.

Ciononostante la ridicola leggenda che Rossini avesse distrutto la partitura del Viaggio a Reims dopo averne estrapolato i pezzi migliori perché insoddisfatto dei risultati continuò a circolare. Il titolo rimase vivo nella coscienza dei contemporanei, talché una ouverture apocrifa, composta da chi sa chi su uno spunto tematico proveniente dalle danze del Finale e su altri derivati dalle danze de Le siège de Corinthe, conobbe un successo protrattosi sino ai nostri giorni, pur essendo documentato ch’essa mai fu associata all’opera in questione. Il viaggio a Reims rappresenta il punto d’arrivo del rossinismo, la sua folgorante metafora, proprio per la natura ambigua di opera-non opera, che sfugge a ogni definizione razionale. Rossini costruisce uno spettacolo fuori dalle regole, e con ciò stesso realizza la regola non scritta della sua parabola di musicista che rifugge i percorsi della verosimiglianza e della logica.

Il libretto, moderatamente comico, svolge con intelligenza un’esilissima trama: gli ospiti di uno stabilimento balneare di Plombières, l’albergo del Giglio d’Oro (!), provenienti da ogni parte d’Europa, vorrebbero organizzare una spedizione a Reims per prender parte alla cerimonia d’incoronazione del nuovo sovrano di Francia, Carlo X, spinti più dal desiderio di combattere la noia del soggiorno termale che dalla fede monarchica comportata dallo status di nobili e ricchi esponenti della classe che conta. La difficoltà di trovare un mezzo di trasporto li induce a sostituire il progettato viaggio con una improvvisata Accademia nel salone dell’Albergo, nella quale ciascuno si ingegna a contribuire in modo originale all’omaggio regale cantando una tipica sequenza della sua terra d’origine. La vita dell’albergo è descritta in un susseguirsi di quadretti, fra loro collegati da recitativi secchi che faticosamente cercano di stabilire un sensato tessuto connettivo, dove vengono saporosamente tratteggiati gli intrecci amorosi nati nel disimpegnato clima vacanziero, i giochi erotici occasionali, le manie, le gelosie, le follie di personaggi emblematici che compongono un solido quadro sociale, osservato con bonomia, ma anche con inesorabile, graffiante ironia.

Ne esce uno spaccato di costume che, considerato il contesto, viene a costituire un omaggio discutibile per un monarca circondato in corte da personaggi appartenenti a quel ceto. Momenti musicali brillanti e comici si alternano ad altri decisamente da opera seria. Come sempre nel miglior Rossini, le immagini evocate dal testo vengono innalzate dalla musica ben al di là del loro significato estrinseco, configurandosi in preziosi aforismi di astratta valenza. Ancora una volta Rossini prende in giro un mondo, una società, una morale, anche se nel Viaggio a Reims, diversamente che nel Comte Ory, lascia da parte i veleni corrosivi e rinuncia a scoperte provocazioni eversive. Passata nel Comte Ory, la stessa musica suonerà sprezzante rivolta contro l’ordine che nel Viaggio a Reims aveva celebrato con distaccato umorismo.

Ci sono due modi di mettere insieme una compagnia in grado di interpretare questa difficilissima opera: riunire i migliori interpreti rossiniani del mondo o affidarla a giovani disposti a lavorare lungamente insieme su questa partitura. Un cantante giovane ben motivato potrà essere buono o cattivo, mai mediocre, la peggior condizione, questa, che possa toccare alla musica di Rossini. La routine, anche raffinata, uccide inesorabilmente l’arte rossiniana; l’entusiasmo dell’immaginazione e la gioia della creazione l’animano, anche al di là di risultati tecnici modesti.

Alberto Zedda

In programma di sala, Rossini Opera Festival 2001 e Liegi, Opéra Royal de Wallonie 2000.

© Zedda-Vázquez