A Lebrija un fanciullo di straordinaria sensibilità contempla stupito la bellezza della sua terra andalusa: ascolta il canto dell’usignolo e il gracidare della rana con la curiosità del musico che anela a coglierne il segreto messaggio; osserva le ombreggiature del bosco e il trascolorare dei fiori con lo sguardo del pittore desioso di fissarli in vita duratura; misura nella linea dell’orizzonte l’infinità che spinge l’uomo a superare il limite. Vorrebbe diventare musicista, per dar senso all’armonia discordante della natura; pittore per moltiplicare il tripudio di forme e colori; filosofo per costringere l’intelletto a spiegare la creazione. Decide, invece, di essere poeta, il demiurgo che ardisce creare un linguaggio fuor dalle regole, miscuglio di senso e ragione, espressione di egoismo antropocentrico e di aperture generose, verbo capace di attingere nello stesso momento l’astrazione della verità estetica e l’illusione del sogno, di conciliare realtà e finzione, di esaltare l’iperbole del nonsenso.
Per forgiare gli strumenti della comunicazione l’apprendista poeta interroga l’opera dei grandi spiriti che l’hanno affascinato e decide di viaggiare nella terra dove, col Rinascimento, è nato l’uomo moderno. Quando avvicina Dante Alighieri, “el musico que lleva dentro” lo induce a raffrontare il beethoveniano fragore che promana dalle quartine dell’Inferno con l’algido algoritmo bachiano che glorifica le rime del Paradiso; quando incontra Francesco Petrarca, apprende da un verso del suo Canzoniere che parole semplici e aggettivi comuni possono evocare i suoni e colori di una polla sorgiva meglio di qualunque strumento musicale e di qualsiasi pennello, includendovi il dono sublime di tramutarsi in moti palpitanti dell’animo umano. Per dieci lunghi anni Jacobo Cortines, senza venir meno ai doveri del filologo scrupoloso, confronta l’immagine poetica di Petrarca con l’urgenza della propria ispirazione: il risultato è tale che taluni sonetti del Canzonieresuonano all’orecchio del lettore italiano più significanti e godibili nella sua versione castigliana che nell’originaria fiorentina.
Petrarca e Leopardi hanno alimentato la propensione di Jacobo Cortines a un’espressione semplice e luminosa, delicata e franca, mai criptica e tortuosa, propedeutica a dar anelito d’infinito all’emotivo congiunto di Pasiòn y Paisaje che sostanzia la sua opera poetica. La leggerezza aristocratica del verso non nasconde il rigoroso umanismo che determina la sofferta scelta del vocabolo e consente di alternare voli poetici di eccelsa spiritualità con disquisizioni secolari che mai arrivano ad abbassare la nobiltà del discorso, giungendo a elevare quest’ultime a una dignità negata ai fatti della quotidianità. La pratica musicale, il fascino astratto del gioco sonoro, l’obbligo di provvedere strutture capaci di dar continuità alle frasi melodiche gli hanno suggerito aggregazioni che aggiungono freschezza e novità al comporre poetico. Ne risulta una lettura insolitamente facile e scorrevole che, senza togliere profondità all’assunto, accende la voglia di prolungare e ripetere l’insolita esperienza.
Nella poetica di Cortines l’evocazione dell’onda marina, la descrizione di un’arborescenza, di un campo di grano, di un profilo montano va di pari passo con la ricerca di immagini poetiche, auspicio di rinnovate emozioni. Valgono le stesse ragioni che inducono il musicista a ricorrere alla variazione per ricavare da un tema melodico l’inesauribile potenziale espressivo che racchiude, moltiplicandolo al prisma della fantasia. L’arte della musica risiede nella capacità di organizzare in strutture ordinate suoni che singolarmente non si distanzierebbero dal rumore, conferendo loro contenuto edonisticamente appagante. La pregnanza della forma prescelta, la sua funzionalità discorsiva e dialettica, l’articolazione ritmica che la muove, l’assillo di raggiungere ambiziosi traguardi espressivi condizionano in maniera sostanziale il risultato di queste aggregazioni. Senza un ordinamento che li sottragga all’attimo fuggente, qualunque felice impasto timbrico, qualunque geniale guizzo melodico è destinato a svanire come favilla al vento. L’evoluzione della storia della musica occidentale è marcata dal progredire di costruzioni formali sempre più complesse; la grandezza di un compositore discende dalla capacità di racchiudere l’ispirazione in formule che conferiscano ai suoni il respiro della narrazione. Cortines, finissimo ascoltatore e critico esigente, al momento di organizzare in poemi i versi delle sue poesie ricorre alla sapienza musicale per conferir loro collocazione e misura che assicurino scorrevolezza e chiarità: per questo i suoi volumi di poesia hanno il dono della levità e della trasparenza, oltre quello della suasiva musicalità, risultando subito grati anche al fruitore non adusato a endecasillabi e settenari.
Nombre entre nombres, oltre alla pregnanza di un periodare non immemore del recitar cantandomonteverdiano, dispiega un ritmo agile e asciutto che conferisce alla sinteticità di un discorso poetico privo di enfasi e di sentimentalismo una tensione emozionale senza cedimenti. Il contributo del musicante non si limita ad assicurare scorrevolezza e logica espositiva: il tema variato del nombre si trasforma in poderoso leit motiv ciclicamente declinato, artificio che moltiplica le ombreggiature psicologiche del racconto. Nel poema conclusivo il periodico richiamo al nome misterioso crea un’aspettativa spasmodica che trascende qualsiasi realtà tangibile: il Labrador si materializza come il luogo dell’anima dove esiziali conflitti tramutano in pace e serenità, oasi dove tutti vorremmo alfine deporre frustrazioni e insicurezze.
La poesia è chiave che apre lo scrigno della bellezza, sola risposta plausibile al mistero della vita, divina fiamma capace di rischiare il mondo: se contasse molti cantori dotati dell’armoniosa eleganza e della colta sprezzatura che troviamo in Nombre entre nombres, la sua diffusione nella coscienza degli uomini darebbe altro significato al loro cammino.
Alberto Zedda