La bellezza, o del futuro della musica

Cupula di Brunelleschi

A commento di una nota citazione di Dostojevskij  “La bellezza salverà il mondo, una ragazza ricoverata in un centro down ha pronunciato questa frase che non posso scordare: “spero un giorno di potermi commuovere anch’io per una cosa bella. Per lei, dunque, la bellezza si materializzava in una cosa bella  e l’attributo che l’accompagnava era la commozione. Non c’é un canone generalizzato per misurare la  bellezza né la cosa bella:  nell’essere umano, per esempio, la bellezza non è fatta solo di proporzioni;  vi concorre lo sguardo, il gesto, il modo di camminare, il contenuto del discorrere… La bellezza che interessa noi artisti è quella che esce dal processo di trasfigurazione compiuto dall’arte, dalla poesia, dalla musica. Questo vale tanto per gli spiritualisti discesi dalla lezione di Platone e Aristotele e arroccati nel secolare epistema giudeo-cristiano, che considerano quello spirituale il lato superiore della vita, da sviluppare in un ipotetico mondo ultraterreno, quanto per i materialisti edonisti, che ritengono possibile qui e ora la ricerca di un piacere che assicuri quanto meno la felicità moderata di un’atarassia priva di sofferenza.

Abbiamo dunque due forme di bellezza: una naturale, insita nelle forme e nelle creature dell’universo, godibile da tutti a costo zero; una artificiale, forgiata dall’uomo nell’intento di trasformare l’oggetto che la esprime in qualcosa di ancor più bello e più vero dello stesso reale. Il prodotto di questo processo idealizzante, che chiamiamo arte,  ha un costo di lavorazione inevitabile, anche se di entità variabile. Il blocco di marmo per lo scultore; il pennello e i colori per il pittore; lo strumento per il musicista; il teatro, la scena e il palcoscenico per l’attore e il cantante sono arnesi indispensabili per intraprendere il viaggio nell’onirico. Questa bellezza mediata dall’arte o dalla cultura in generale, questa bellezza che costa, è un lusso, un di più di cui si può fare a meno, oppure è un diritto e una conquista necessaria ad accompagnare il processo di evoluzione della specie verso un traguardo di civiltà auspicato in egual misura da spiritualisti e materialisti?  Insomma la cultura è l’irrinunciabile cibo dello spirito per dar sostanza all’umano accorgersi di sentire senso al transito obbligato e tragicamente consapevole dalla vita alla morte, oppure va lasciata fuori dall’elenco delle vere necessità quotidiane da salvaguardare ad ogni costo?

Nei convegni dedicati a temi di particolare spessore culturale – come quello di oggi – raramente manca il richiamo a prender atto della difficile realtà economica del momento e quindi a concentrasi su proposte concrete che tengano conto della situazione, accantonando i discorsi elevati e inutilmente astratti. Credo invece che proprio questa sia la sede giusta e proprio questo il momento ideale per impostare il problema della cultura in generale e della cultura musicale in particolare su argomenti alti, su motivazioni etiche e morali che poco hanno a che vedere con le ragioni dei mercati finanziari.

Sono il Direttore artistico di un festival citato ovunque come esempio da manuale di investimento culturale produttivo. In effetti, il cospicuo indotto economico, turistico e commerciale che si determina attorno al Rossini Opera Festival di Pesaro è un argomento che tutti coloro che ci sostengono e promuovono usano largamente. Lo utilizziamo qualche volta anche noi, trattandosi di un fatto inoppugnabile e documentato, ma lo facciamo con un certo fastidio, perché la restituzione di patrimoni artistici come quello rossiniano resterebbe un dovere imprescindibile anche senza le favorevoli  implicazioni economiche. L’argomento della convenienza economica nasconde una tabe pericolosa, specie in tempi calamitosi come questi: il concetto che l’evento culturale che non produce ricchezza appartenga alla categoria dell’intrattenimento, del divertimento, del superfluo; che insomma ciò che non è “utile” si possa tranquillamente accantonare.

Il problema va dunque affrontato da un’angolatura completamente diversa: in ogni costituzione moderna esiste una clausola che afferma  l’impegno dello Stato di promuovere la cultura in tutte le sue forme, così come si garantisce la difesa dell’istruzione, della sanità, della casa, del lavoro, della sicurezza. A questa stregua, essa è dunque un diritto primario del cittadino. Non si comprende allora perché noi professionisti della cultura, operatori culturali che abbiamo ben chiaro che musica, poesia, arte visiva sono esigenze fondamentali della persona e prezioso alimento di civiltà e sviluppo della società siamo costretti ogni giorno a giustificare, a difendere, a spiegare e argomentare un concetto che dovrebbe appartenere al senso comune. Forse è necessario che noi stessi ci convinciamo della profondità del radicamento – storico, filosofico, etico –  di questo principio e del suo buon diritto a venir affermato come ovvio.

George Steiner, commentando i libri dell’Antico Testamento, ricorda che per rispondere a Giobbe, che chiede ragione delle prove vessatorie cui è sottoposto, Dio elenca una serie di immagini poetiche, apparentemente gratuite, riguardanti le bellezze della Creazione. Come dire: la sofferenza umana  trova un’uscita compensatoria in quel bisogno di assoluto, di armonia, di trasfigurazione artistica nel quale si identifica il suo stesso creatore. In questo testo sapienziale, Steiner vede la più antica e solenne affermazione della necessità della bellezza come componente essenziale della vita delle persone, la prima testimonianza del concetto di arte per l’arte. Giobbe non si sente risarcito da questa risposta,  ma ne ricava il senso della propria vita perché capisce che dietro la bellezza c’è un mistero che la sua mente non può penetrare, e che quel mistero lo riguarda. Questa consapevolezza finalmente lo consola: avrà di nuovo fortuna, genererà tanti figli, camperà 140 anni e morirà “sazio di giorni”.

A domande d’ordine etico e ontologico,  Dio dà una risposta estetica, richiamandogli lo spettacolo della bellezza senza altre spiegazioni. Se risulta  difficile per un Dio spiegare perché una cosa è bella, perché dovremmo pretendere di riuscirci noi mortali? In realtà non è necessario chiarire cos’è la bellezza: importante è saperla percepire attraverso l’arte, la musica, la poesia: la libera elaborazione che ne fa l’uomo, che se ne  appropria nel momento stesso che la ricrea, sostituendosi a Dio. Che sia questo gesto superbo di togliere a Dio l’esclusività della bellezza il peccato originale che ha meritato all’uomo la perdita del paradiso? Se così fosse, se la conquista della bellezza fosse l’atto che ha destato la collera divina, se il possesso della bellezza fosse l’attributo distintivo della specie umana, avremmo già in abbondanza gli argomenti per difenderla e  diffonderla.

Giova riflettere sul fatto che tutti i momenti alti della civiltà umana sono coincisi con situazioni ambientali e sociali dove si registrava una sostanziale  pari dignità di esigenze materiali e spirituali dei cittadini. Penso all’Atene di Pericle, alla Roma dell’Impero, alla Firenze del Rinascimento. Cito a questo proposito un esempio illuminante riportato da Gianfranco Mariotti, Sovrintendente del Rossini Opera Festival, in un suo intervento di contenuto prossimo alle tesi qui sostenute e da lui in buona parte derivate: “A proposito di Firenze, vorrei ricordare la vicenda, straordinaria ed emblematica, della Cupola di S. Maria del Fiore. La Cattedrale di Firenze, progettata da Arnolfo di Cambio, a 70 anni dalla prima pietra non aveva ancora la sua cupola. Nel 1366 viene bandito un concorso, poi confermato da un referendum popolare. Vince Neri di Fioravanti, che disegna l’elegante mongolfiera, aerea e gigantesca, che ancora oggi galleggia invitta sul panorama di Firenze. Il problema è che quella cupola, di cui subito i fiorentini s’innamorano, è così grande che nessuno ha la più pallida idea di come si può fare a realizzarla. Per fare un esempio, non esistono foreste sufficienti a fornire il legname per costruire l’enorme impalcatura a centine che sarebbe necessaria alla costruzione. E tuttavia Neri costruisce un modellino in scala della Cupola, che viene messo in una navata della cattedrale, e su quel modello, divenuto oggetto di culto, ogni anno architetti e maestri muratori dell’Opera del Duomo giurano sulla Bibbia che quella e solo quella sarà la cupola che costruiranno. Si dovrà arrivare al 1418 perché un concorso per la realizzazione del progetto di Neri, sempre indiscusso, laurei un outsider,  Filippo Brunelleschi, che riuscirà a convincere i Sovrintendenti dell’Opera della possibilità e della sua propria capacità di coprire con una volta senza centine uno spazio così smisurato. Come poi in effetti avverrà. Ciò significa che per 52 anni (52 anni!) non un solo fiorentino si alza per mettere in discussione il progetto, per esempio proponendone uno più piccolo o più semplice. Assistiamo cioè allo spettacolo impressionante di una collettività evoluta di cittadini che investe su un sogno. Ma i fiorentini non sono un popolo di sognatori: sono anzi pragmatici, arroganti. Hanno corporazioni potentissime, mercanti che battono ogni paese d’Europa, banche fiorenti che finanziano i pontefici, e insieme hanno in casa gente come Giotto, Donatello, Masaccio, Ghiberti, Leonardo, Michelangelo…..Per loro quella cupola doveva rappresentare plasticamente la  egemonia politica di Firenze, dunque non sarebbe bastato che fosse il prodigio architettonico che conosciamo: essa doveva essere anche vertiginosamente bella. È ben chiaro dunque come nella mentalità di un fiorentino del XV secolo la bellezza fine a se stessa fosse una parte necessaria e strutturale della qualità della vita, una sua componente “normale”. È per questo che Firenze, ancor oggi, è un’icona dello spirito nella storia della civiltà umana.

Icona spirituale, come da sempre e per sempre Atene, che intorno all’Accademia di Platone e al Liceo di Aristotele, al Portico di Zenone e al Giardino di Epicuro sviluppa una società civile e politica nutrita da una paideia che assegna alla poesia e alla musica, alla cura del corpo e dello spirito del mousikós anér il compito di celebrare nella bellezza il punto d’incontro con la suprema virtù.  Ad Atene, come a Roma e a Firenze abitano le nostre radici e la nostra storia, di lì viene il nostro DNA, il nostro senso d’appartenenza, la nostra identità profonda di popolo: lì dove l’elemento estetico si è affermato come identitario per la nostra immagine di Paese. Pur nei diversi canoni nazionali, esistono realizzazioni artistiche che rappresentano la metafora di sentimenti unificanti, lo specchio di emozioni condivise. Queste opere diventano eterne (cioè classiche) perché continuano nel tempo a porre domande e a dare risposte. Sono molti i filoni che nel giro di tre o quattro generazioni hanno fissato canoni identitari nazionali  (e come tali connotativi in modo esclusivo) divenuti presto universali. La tragedia di Eschilo- Sofocle- Euripide è greca, ma chi potrebbe negarne l’afflato universale? Lo stesso vale per quella francese di Corneille-Moliér-Racine; per il teatro elisabettiano di Shakespeare-Marlowe-Jonson; per il sinfonismo tedesco di Bach-Beethoven-Brahms; per la commedia spagnola di Lope de Vega-Tirso de Molina-Calderon de la Barca; per il melodramma italiano di Rossini-Verdi-Puccini.

Battersi per fare della cultura una spesa prioritaria non è un vezzo di  aristocratici ignari delle esigenze primarie del vivere, né egoismo di cittadini abbienti che difendono privilegi, come sembra ritenere un’opinione pubblica populista e confessionale, gravata di pregiudizi anticulturali di tipo efficientistico che agiscono in modo trasversale sulla società civile, indipendentemente dalle forze politiche: un’opinione pubblica qualunquista, che non percepisce come altrettanto drammatica la chiusura di un teatro e quella di un ospedale o di un acquedotto;  che non comprende come si stia difendendo un’esigenza primaria della persona e una componente fondamentale del benessere in una società che voglia dirsi civile. Per questo, se non vogliamo che la musica sia marginalizzata come puro intrattenimento da tempo libero, dobbiamo batterci per una educazione obbligatoria che inscriva nella coscienza di ogni cittadino il convincimento che il linguaggio dei suoni è la prima lingua da apprendere e frequentare. Si tratta, infatti,  del logos originario, della prima forma di comunicazione, dell’artificio che ha separato, per il bene e per il male, l’homo sapiens dal mondo animale.

Un’Operetta morale di Leopardi, il Cantico del gallo silvestre, dipinge lo spegnersi della natura in conseguenza dell’esaurimento dell’energia dell’universo con questi versi conclusivi: “tempo verrà che (….) un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso”.  Mariotti vi legge la spaventosa metafora di un mondo senza musica. Sia per noi l’invito a colmare di suoni e di canti quello “spazio immenso” che ci appartiene.

Alberto Zedda

© Zedda-Vázquez