L’edizione critica vuol essere uno strumento di lavoro in grado di garantire allo studioso e all’interprete il massimo di fedeltà ad un testo riletto con severa metodologia. In senso lato l’edizione critica rappresenta lo sforzo di percorrere a ritroso la storia di un’opera d’arte per risalire al momento della sua creazione. Così accanto al testo originario, sarà possibile conoscere e utilizzare tutti i pezzi che sono stati aggiunti o sostituiti col consenso dell’autore, siano essi autoimprestiti o nuovi brani composti da lui stesso o da altri.
La rilettura critica si impone perché il testo di un’opera lirica italiana del primo Ottocento veniva pubblicato molto tempo dopo la sua composizione, il più delle volte quando l’autore era già scomparso. Nel momento di decifrare il manoscritto per trasferirlo alla stampa, gli editori furono costretti a esercitare un primo fondamentale atto interpretativo, con larghi margini di discrezionalità, perché l’Autografo non era completato in ogni dettaglio e non era possibile, quindi, limitarsi a trascriverlo acriticamente.
Anziché chiedere all’incisore di copiare fedelmente una partitura, gli si addossava la responsabilità di compiere una mediazione ragionata fra l’intenzione dell’autore approssimativamente espressa e una traduzione grafica coerente. La ragione delle incompletezze va anche cercata nel fatto che i compositori d’opera italiani di quel tempo non destinavano alla pubblicazione le loro partiture. L’opera lirica era una sorta di composizione aleatoria, aperta ai cambiamenti necessari ogni qualvolta veniva ripresentata in situazioni diverse da quelle esistenti nel teatro per il quale era stata commissionata: altre compagnie di canto, altri organici strumentali e corali, altre possibilità scenotecniche. L’idea di fissarla sulla pagina stampata sarebbe apparsa poco pratica all’editore come al compositore, per tema di comprometterne la diffusione. I compositori, privati dello stimolo alla pubblicazione, non si preoccupavano di rifinire partiture che oltretutto erano quasi sempre chiamati per contratto a realizzare di persona, avendo così la possibilità di integrare durante le prove quanto era rimasto indefinito nel manoscritto.
Così, accanto al Barbiere che traspare chiarissimo dall’autografo custodito al Conservatorio di Bologna – un Barbiere con protagonista femminile mezzo-contralto (tale era Righetti-Giorgi, la primadonna del Teatro Argentina in Roma nel 1816); con una Berta soprano (di scrittura vocale più acuta di quella di Rosina); con un Bartolo di vaglia (impegnato da un’aria di gran difficoltà “A un dottor della mia sorte”); con un organico strumentale dai contorni classicamente netti (arricchito dall’apporto di strumenti inconsueti come i due ottavini, il sistro, le chitarre) – se ne conobbero altri profondamente diversi dove Rosina era diventata soprano, anzi soprano-coloratura (tipo di voce che non esisteva al tempo di Rossini); Berta mezzosoprano; Bartolo un comprimario di poco conto (al quale si dovette provvedere un’aria meno difficile, “Manca un foglio”, talvolta sostituita a quella originale senza neppure avvertire che Pietro Romani ne era l’autore) e dove l’orchestra aveva cambiato drasticamente connotati (lo strepito originalissimo dei due ottavini, sostituiti con altri legni; il tintinnio dei sistri, scambiati col triangolo; il colore popolaresco delle chitarre, mal imitato dall’arpa; l’aerea trasparenza di un organico ottocentesco appesantito da tromboni e timpani e da raddoppi inesistenti nell’ordito originale).
Questo scambio di ruoli, vocali e strumentali, ha comportato profonde modifiche nel testo: Rosina soprano dovette trasportare arie, mutare note, scambiare la parte, sostituire fiorettature, cadenze e variazioni per adattarle alle caratteristiche specifiche della sua tessitura, esigenza per altro legittima. Alle prese col difficile equilibrio dei concertati dovette alzare di un’ottava più di una frase, sconvolgendo il rapporto armonico fra le voci, e si spinse sino a sostituire l’aria della lezione del secondo atto “Contro un cor”, importante per lo sviluppo dell’azione teatrale.
Berta mezzososprano fu costretta a scambiare la parte con quella di Rosina nel grande concertato che chiude il primo atto e talvolta a sopprimere la deliziosa arietta “Il vecchiotto cerca moglie”, diventata troppo difficile; Bartolo vide diminuire il peso specifico del suo personaggio contribuendo al prevalere di quella cifra buffonesca che ha sovente gettato in burla il capolavoro; l’ottavino, passata la mano all’oboe, creò complicazioni esecutive problematiche a causa di impervi passaggi veloci; il triangolo al posto dei sistri cancellò l’effetto di “orrida fucina” che Rossini aveva concepito per la stretta del Finale Primo; l’arpa tolse alla canzonetta di Almaviva il carattere di ispirazione spontanea che gli conferiva l’accompagnamento della chitarra; tromboni, timpani e raddoppi abusivi offuscarono la rabescata trasparenza dello strumentale e condussero a colorazioni tardo-romantiche.
A confrontare libretti e spartiti di ogni latitudine si potrebbe tracciare una storia divertente di questo popolarissimo Barbiere. Chi potrebbe pensare, ad esempio, che anche pezzi celebri come la Cavatina di Rosina “Una voce poco fa” dovessero far posto ad altri? E che all’inizio del secondo atto venisse proposto un intermezzo di sola orchestra derivato da un’elaborazione del coro finale? E che venissero aggiunte, alle già esistenti, arie di opere diverse, magari in altra lingua, per aumentare le prestazioni di questo o quel personaggio? E che l’ultima aria del Conte venisse trasposta di tonalità e passata a Rosina?
L’editore, costretto scegliere fra versioni tanto diverse, operò una volonterosa mediazione tra il testo della lezione originaria e quello che emergeva dalla pratica corrente, suffragata dalla tradizione di grandi teatri come la Scala e l’Opéra, sostituendosi alla libera decisione dell’interprete cui veniva negata la possibilità di conoscere l’opera nella sua prima formulazione.
Ognuno ha oggi il diritto-dovere di ricercare la chiave di lettura adatta alla propria sensibilità partendo dalla certezza di un testo autentico su cui innestare il contributo della tradizione che ritenga ancor valida. Recuperare questo testo rifiutando interventi posteriori, anche suggestivi, è stato il primo compito del revisore. Per farlo ha confrontato l’autografo con le fonti coeve, manoscritte e a stampa, per cercare conferme e suggerimenti nel suo lavoro di indagine teso a cogliere le intenzioni riposte, a dar ordine a quelle sommariamente semplificate, a eliminare contraddizioni, correggere errori materiali, estendere modelli e suggerimenti interpretativi, con l’ausilio di un apparato critico atto a documentare nel modo più ampio le sue scelte e a chiarire con esattezza la portata dei suoi interventi.
Col ripristino del suono originale sono stati reintegrati coloriti e articolazioni cambiati per ricercare effetti non sempre in linea con lo stile di Rossini o per aggirare difficoltà esecutive, come nel caso frequente di passi staccati sostituiti col legato più facile da piegare all’elasticità degli accompagnamenti vocali. Sulla partitura del Barbiere è stata operata un tipo di ripulitura quale oggi si effettua sui capolavori pittorici dove il restauratore, servendosi di ogni mezzo, dalla fotografia all’infrarosso alla documentazione storica, compie ogni sforzo per riportare il dipinto allo stato originario, mondandolo da incrostazioni e aggiunte. Ne è emersa una partitura asciutta e trasparente, di magistrale dialettica fra archi e legni, degna del più grande strumentatore di segno classico.
Alberto Zedda