L’autografo pesarese del Maometto II

Maometto II, produzione di Pier Luigi Pizzi . ROF 1985

L’autografo del Maometto II, composto per Napoli nel 1820, è conservato alla Fondazione Rossini di Pesaro. Peculiarità di questo manoscritto è di essere anche, in molte pagine, l’autografo del Maometto II che Rossini presentò, profondamente modificato, a Venezia nel 1823 e, in qualche frammento, di Le Siège de Corinthe, terza e ultima trasformazione di quest’opera preparata nel 1826 per l’Opéra di Parigi. Rossini infatti introdusse direttamente nella partitura napoletana i cambiamenti imposti dalle varie versioni, inserendovi le nuove parti composte, tagliando quelle divenute pleonastiche, espungendone i brani non più necessari e arrangiando i collegamenti imposti dalle mutate situazioni.

Questa stratificazione di momenti compositivi diversi offre una rara e preziosa documentazione di quel processo rielaborativo così comune nei compositori di opere liriche, attuato qui in una misura che ha pochi precedenti. Le plurilezioni coesistenti nel manoscritto lo rendono difficile da ricostruire, in qualche caso addirittura impossibile senza l’ausilio delle copie approntate per la realizzazione delle singole versioni.

Dai comportamenti del musicista, riflessi nell’autografo pesarese, prima ancora che dal testo dei differenti libretti, si intuisce  in che direzione si muovono le successive redazioni dell’opera. L’aggiunta di strumenti fuori scena – una seconda Banda capace di inediti risultati stereofonici-; l’accresciuta partecipazione del Coro; l’accentuata presenza dei personaggi minori; l’ampliarsi delle scene più variamente articolate denunciano il proposito di espandere l’originale Maometto II in spettacolo di maggiori proporzioni, di più eccitanti effetti.

Nonostante il grande affresco storico che lo caratterizza, il Maometto II commuove per il valore intimistico delle passioni. Anna è la vera protagonista: gli ardori, le titubanze, i trasporti, i terrori che la scuotono disvelano una sensibilità che è diversa da quella delle grandi eroine romantiche soltanto per la sua incapacità di trasgredire per amore. Maometto è nobile figura di sconfitto: il successo nelle armi non ripaga le ferite d’amore e d’orgoglio. Erisso e Calbo, pur con tratti di grande dignità, sono gli indispensabili strumenti di un Fato che non può disattendere le leggi del teatro classico dove i sentimenti, oltre che emozioni individuali, sono categorie universali, assoluti metafisici.

Rossini ha conseguito con quest’opera la definizione più alta del suo discorso drammatico, accelerando la svolta del melodramma romantico. Come già in Mosé e Donna del lago la forma chiusa, imposta da una convenzione mai rinnegata, non ostacola più il fluire degli eventi. Il netto prevalere dei pezzi concertati sulle arie – anch’esse elaborate con presenze non scontate di cori e pertichini e partecipi al procedere dell’azione -; la rinuncia all’inutile diversione della Sinfonia; l’entrare subito nel vivo del discorso drammaturgico con Introduzioni che imprimono una tensione coinvolgente sono i segni esteriori del rinnovamento napoletano. Rossini fu certo aiutato dall’eccezionale livello culturale di questa capitale, fucina di riflessioni estetiche e di speculazioni metafisiche avanzatissime; dal pubblico meno provinciale d’Europa, non legato alle mode d’importazione; dalla collaborazione con un’orchestra fra le migliori e una leggendaria schiera di interpreti vocali senza eguali al mondo. Lo aiutò ancora la scelta intelligente di un librettista anomalo, il Duca di Ventignano, letterato di moderne tendenze col quale potè intessere un fruttuoso dialogo a sostegno di una visione musicale certamente già maturata.

Quando l’opera fu richiesta a Venezia per la Fenice, Rossini dovette ripensarla in termini assai meno innovativi. Anzitutto dovette sostituire l’olocausto finale con un inopportuno lieto fine per non ridestare nei veneziani il ricordo di uno dei più terribili e cruenti rovesci della loro storia, la sconfitta subita a Negroponte nel 1470 ad opera di Maometto. Dovette poi piegarsi alle abitudini di un pubblico uso a tradizioni di alta teatralità, come poco più tardi farà fede il gigantesco meccanismo della Semiramide; dilatazione estrema del melodramma classico, anch’essa composta per la Fenice.

Ecco così ricomparire la sinfonia – quasi tutta nuova -; risuonare altri cori e bande; aggiungersi cambiamenti scenici per un lieto fine che allenta la tensione tragica e diminuisce la statura dei personaggi relegando le presenze catartiche a compiti meno aulici.

Il lavoro di revisione per Venezia ha certo influenzato la scelta parigina di Le Siège de Corinthe, trattandosi di soddisfare non meno sentite esigenze di Grand’opéra e di magniloquenza. Come la battaglia di Negroponte aveva ispirato il cambiamento veneziano, così l’irredentismo ellenico contro l’impero turco, appoggiato dall’entusiasmo dei francesi, forniva a Le Siège de Corinthe l’afflato dell’attualità.

Tutto questo traspare dall’autografo pesarese, manoscritto fra i più curati e meditati, splendente di geniali soluzioni strumentali e vocali, di vividi lampi di intensa ispirazione.

L’autografo purtroppo non è completo: pochissimo rimane del materiale elaborato per Le Siège de Corinthe; molto di più per il Maometto veneziano. Alcuni pezzi mancanti della redazione napoletana sono ricomparsi in biblioteche pubbliche o in collezioni private (alcuni per merito di Philip Gossett) sicché oggi è possibile ricomporla quasi per intero.

Alberto Zedda

in programma di sala ROF 1985

© Zedda-Vázquez