Le ragioni del silenzio

Rossini compose l’ultima opera, il mitico Guillaume Tell, nel 1829: fino al 1868, anno della morte, rifiutò ostinatamente ogni invito a tornare sulla scena lirica.

Quarant’anni di silenzio, vissuti in mezzo a gente che seguitava a considerarlo il più grande compositore di melodrammi del suo tempo e a venerarlo come una divinità. Che la scelta avesse ragioni profonde lo attesta la progressiva scomparsa delle sue opere dai cartelloni di quegli stessi teatri che fino a pochi anni addietro gli avevano riservato un predominio pressoché assoluto: Rossini aveva lucidamente intuito che il gusto estetico dominante stava irrimediabilmente allontanandosi dall’idealizzante astrazione del suo belcantismo e che la rarefazione della domanda avrebbe reso impraticabile un repertorio per mancanza di interpreti preparati ad affrontare un codice espressivo desueto.

Se sul piano teorico le ragioni del silenzio trovano ampia giustificazione, e dunque potevano calmare il rovello di un grande compositore costretto a nascondere la penna, sul piano umano quarant’anni di rinuncia a esprimersi col linguaggio che pur aveva generato capolavori di indiscutibile rilevanza devono aver lasciato ferite devastanti nello spirito di un personaggio già minato da fragilità neurologica. Con atto di suprema dignità, di smisurato orgoglio, Rossini mai volle toccare, in interviste, conversazioni, atti pubblici, il tema della rinuncia per spiegare, giustificare o semplicemente sfogare l’angoscia, il disagio che pur dovevano tormentarlo lungo l’interminabile trascorrere degli anni.

Al posto di parole e pensieri Rossini ha lasciato gran messe di curiosi documenti musicali, alcuni validissimi, da lui stesso raccolti e denominati Péchés de vieillesse, il cui senso risulta evidente quando si consideri che molti di essi accompagnano insistentemente un breve testo metastasiano che richiama la sua situazione esistenziale:

Mi lagnerò tacendo
Della mia sorte amara
Ma ch’io non t’ami, o cara,
Non lo sperar da me.

In questi schizzi di varia dimensione e consistenza, quasi tutti per pianoforte solo o per voce e pianoforte, Rossini annota le sue impressioni di attento testimone e confessa le sue emozioni. Da essi si apprende che il Maestro seguiva con attenzione l’evoluzione del linguaggio musicale (si incontrano arditi e inconsueti giri armonici, movimenti di danza a la page, stravaganti enarmonie, scale e modi estranei al sistema temperato, contrappunti e accademismi mai precedentemente coltivati) e non trascurava la cronaca e l’attualità, evocate in quadretti spiritosi e divertenti (Le pétit train de plaisir, Le gourmet ), né la pratica invadente della romanza da salotto (Album français).

Molti di questi pezzi hanno in comune una caratteristica rivelatrice dello stato d’animo in cui opera il compositore: spingono la carica umoristica sino al più amaro sarcasmo, invitando l’interprete a trasformare l’iniziale divertimento in grido disperato. Mai come in questi Péchés de vieillesse l’ambiguitá del vocabolario rossiniano arriva a esprimere con lo stesso lemma significati sorprendentemente opposti, dalla leggerezza del comico all’abisso della tragedia. In queste pagine enigmatiche e segrete sta forse la chiave per comprendere la misteriosa grandezza del teatro rossiniano, così sfuggente nei suoi significati ultimi.

Gli importanti compositori che hanno voluto trascrivere, orchestrare, parafrasare i Péchés de vieillesse hanno capito questa duplice possibilità di lettura e si sono comportati di conseguenza. Britten ha inteso le pagine prescelte in chiave prettamente giocosa e scanzonata; Corghi ha preservato accuratamente l’ambiguità rossiniana, trasferendo ai suoi interpreti la responsabilità di passare continuamente da una visione serena ad altra inquietante; Respighi ha strumentato e manipolato i brani con tali sapienza e intelligenza musicale che non è difficile imprimere loro la direzione espressiva che meglio si confà alla visione interpretativa perseguita dall’esecutore, sia essa divertita e rasserenante o cupamente drammatica e nichilista.

Alberto Zedda

© Zedda-Vázquez