Casa Ricordi mi ha dato incarico di realizzare l’edizione critica del Barbiere di Siviglia. L’importanza del lavoro non deriva solo dalla scelta prestigiosa del capolavoro rossiniano – opera che da sempre ha posto inquietanti interrogativi ai suoi interpreti – ma anche dal fatto che l’auspicata edizione critica è la prima che riguardi il grande repertorio lirico ottocentesco.
La recente Carmen, pubblicata in Germania a cura di Fritz Oeser, non riduce la validità dell’affermazione. Là il lavoro è stato condotto su un autografo musicale che, per la sua eccezionale accuratezza e per la varietà dei suoi preziosi dettagli interpretativi, non si limita che a sfiorare i problemi posti dai manoscritti di Rossini, Verdi, Bellini, Donizetti e di tanti altri compositori del tempo, anche non operistici.
Definire la formula ideale di una moderna edizione critica non è difficile. Musicisti e musicologi sono probabilmente concordi nell’affermare che dovrebbe essere una seria edizione “diplomatica” completata da un meditato lavoro di integrazione per colmare lacune e approssimazioni del manoscritto. Queste integrazioni del revisore dovrebbero essere identificabili attraverso una serie di accorgimenti grafici quali parentesi quadre, legature tratteggiate o punteggiate, impiego di differenti caratteri tipografici e così via, in modo che risulti subito chiaro a chi legge fin dove è arrivata la mano del compositore e dove invece è intervenuta quella del revisore.
Una formula, dunque, semplice e chiara. Non altrettanto semplice è capire perché, nel passaggio dall’enunciazione teorica alla realizzazione pratica, l’applicazione di questo elementare postulato incontri ostacoli a volte insuperabili.
Le difficoltà di attuare un’edizione critica nascono dalla natura stessa di un manoscritto, mai completo di quelle indicazioni interpretative che il musicista di oggigiorno è abituato a leggere. L’interprete, nel senso moderno del termine, cioè colui che deve servirsi di un testo per mediare un’opera d’arte fra il suo creatore e un pubblico che non la può accostare direttamente, è figura recente. Il compositore del secolo scorso spesso era lo stesso realizzatore della propria opera e comunque parlava un linguaggio contemporaneo, rispondente a una pratica comune e diffusa; si limitava pertanto il più delle volte a suggerire spunti interpretativi, modelli di fraseggio, sommarie indicazioni di coloriti. La necessità di corredare ogni nota di un suo preciso simbolo interpretativo era dunque molto meno sentita di oggi.
Se il revisore dovesse servirsi di parentesi quadre per ogni punto che manca, di legature tratteggiate per ogni legatura omessa, di caratteri tipografici distinti per ogni colorito da estendere o da uguagliare, risulterebbero a volte pagine così sovraccariche di segni da divenire pressoché illeggibili. Un’edizione, perché venga accolta e preferita dal musicista, non può rinunciare a criteri di praticità e chiarezza e non deve contenere contraddizioni, incertezze, approssimazioni grafiche. Gli autori del passato hanno bisogno di testi seri e sicuri che sostituiscano nei teatri e nelle orchestre le tante edizioni scorrette, piuttosto che di testi sovraccarichi di segni e di dottrina destinati a rimanere chiusi nelle stanze di una biblioteca.
Chi abbia provato a trascrivere anche solo alcune pagine di Rossini sa che i dettagli da completare e segnare in parentesi sarebbero migliaia. Rinunciare alle parentesi per segnalare in nota il comportamento del revisore è impossibile perché ciò condurrebbe a un apparato critico più voluminoso dello stesso testo musicale, anche sorvolando sulla pedantesca monotonia del suo contenuto.
Del resto il musicista e il musicologo che oggi vogliano constatare dove un’edizione si discosti dall’autografo, non si accontentano più di una lezione diplomatica, sempre esposta a possibili errori di decifrazione. Essi preferiscono rifarsi alla fonte diretta: i mezzi di riproduzione anastatica e fotografica glielo consentono con facilità. Devo dire per inciso che è nelle speranze di Casa Ricordi e mie di accompagnare l’edizione critica con una riproduzione anastatica del manoscritto offerta a un prezzo abbordabile grazie a un procedimento che la Casa editrice sta attualmente sperimentando.
L’uso sistematico delle parentesi presenta un altro grosso inconveniente: esso non consente di distinguere con chiarezza se un segno interpretativo posto tra parentesi rappresenti soltanto l’estensione di un segno autografo già esistente o se invece sia un suggerimento del revisore per rimediare a un’omissione dell’autore. È evidente che nei due casi la responsabilità e l’incidenza dell’intervento del revisore sono ben diversi e devono subito risaltare all’occhio. Per questo nell’edizione critica mi sono limitato a segnare tra parentesi quadre soltanto le indicazioni riferentesi al secondo caso contemplato, cioè quelle suggeritemi da quanto sottinteso dal contesto musicale, e non quelle derivanti dalla moltiplicazione di un segno originale.
C’è poi un problema che nessun accorgimento grafico riuscirà a risolvere: quello della sicura decifrazione di alcuni segni. Ci sono, ad esempio nell’autografo del Barbiere, molte forcelle piccole che nessuno potrà mai dire se siano accenti piuttosto che brevi diminuendo; segni che potrebbero essere dei f, dei ff o degli sf, poiché si incontrano mescolati volta a volta con tutti i sopraddetti; punti più allungati di altri che fanno pensare a staccati di diverso tipo: però nella stessa battuta, ad altro strumento che suona le stesse note, si leggono normalissimi puntini. Si tratta dell’impiego di due tipi di staccato o soltanto di punti che la fretta ha fatto scrivere più allungati? Anche il segno di sf non è sempre chiaro, se un’edizione diplomatica seria e attenta come la Guidi ha potuto prendere tanti svarioni. Nessuno poi può decidere con sicurezza quando Rossini prescriva i fagotti e taluni legni in coppia o da soli. L’indicazione “solo” non compare sempre e non è mai indicato quando venga a cessarne l’effetto.
E che dire delle forcelle di crescendo o di diminuendo sovrapposte che iniziano o terminano in punti diversi pur riferendosi al medesimo passaggio musicale? Ritenere intenzionali tali differenze è semplicemente assurdo; come assurdo è ritenere volute legature di lunghezza diversa per identici disegni sovrapposti. Si può suggerire fra parentesi un segno omesso, ma come segnalare i due diversi aspetti del manoscritto? Il rigore filologico assoluto vorrebbe che queste incongruenze venissero pari pari trasferite nell’edizione a stampa. Ma questo non si può fare: dalla partitura derivano le parti d’orchestra e i segni dinamici e interpretativi di queste non possono essere in disaccordo fra strumento e strumento.
Oltretutto sarebbe poco serio addossare il dubbio e la responsabilità di una scelta a coloro che non hanno il dovere di compierla. Tocca a chi ha trascorso anni a contatto dell’autografo, cercando verifiche e controprove in lezioni collaterali, di effettuare una scelta. Il revisore avrà comunque avuto in mano gli elementi per sbagliare di meno. Nelle note dell’apparato critico egli potrà sempre spiegare le ragioni della sua scelta e informare sull’origine e sulle differenti sfaccettature di ogni caso preso in esame. In queste scelte, in questo sopprimere una contraddizione che ingenera dubbio e perplessità, è il senso più vero di quell’aggettivo “critica” che distingue questa mia da un’edizione “diplomatica”.
Per quanto riguarda il mio comportamento di revisore, mi limito qui a citare alcuni fra i criteri più importanti cui mi sono attenuto. Per un’esposizione completa rimando alla prefazione che accompagna l’ampio apparato critico della partitura, di ormai prossima pubblicazione, e da cui queste note sono tratte.
1. – Le indicazioni dinamiche e i segni interpretativi esemplificati in una o più parti ma evidentemente comuni anche ad altre sono stati estesi a tutte le parti che li richiedono senza servirsi delle parentesi quadre. Così coloriti, staccati, accenti, legature segnati, per esempio, alle parti estreme della partitura, sono stati verticalmente estesi anche alle similari parti intermedie, senza esser posti fra parentesi quadre.
2. – I segni interpretativi di un determinato passo sono stati considerati validi anche per le ripetizioni dei passi similari, ove detti segni manchino, e riportati identici senza ricorrere alle parentesi quadre. Qualora nell’autografo si presentino realizzazioni differenti di uno stesso passo, il revisore ha eguagliato i passi scegliendo le indicazioni ricorrenti e più aderenti al senso musicale, ma ha segnalato in nota l’altra soluzione prospettata dall’autografo spiegando le ragioni che hanno determinato la sua scelta. Questo vale anche in quei casi in cui si riscontrano contraddizioni o che comunque comportano una scelta precisa da parte del revisore. Nei casi in cui la nota non è sufficiente a spiegare con chiarezza la condizione dell’autografo, è stato riprodotto anastaticamente il frammento in questione.
3. – Qualunque segno di cui non esista un modello autografo e che si è ritenuto opportuno di aggiungere è stato messo fra parentesi quadre. Per le legature anziché usare le parentesi quadre si è preferito ricorrere a legature punteggiate.
4. – Dove l’autografo presenta aspetti oscuri o confusi è stata accolta, previa consultazione e raffronto delle varie fonti, la soluzione suggerita dalla versione più attendibile. Quando ciò si è verificato, la nota critica relativa consente di ricostruire esattamente il comportamento del revisore. Ove l’interpretazione dell’autografo non presenta alcun possibile dubbio, la lezione rossiniana, di regola, ha sempre prevalso su quella di altre redazioni. Tuttavia quando in altre partiture viene prospettata una soluzione diversa ma interessante, tale soluzione è stata riportata in nota.
5. – Quando i criteri qui esposti non sono stati scrupolosamente rispettati, per particolari ragioni contingenti, il revisore ne ha sempre dato conto in nota.
6. – Il revisore si è astenuto dal proporre modelli di esecuzione (colpi d’arco, fraseggio dei fiati, ecc.) per non ingenerare confusione o dubbio sul fraseggio originale. Questo ulteriore e necessario processo di revisione è stato compiuto direttamente sul materiale d’orchestra che accompagna l’edizione critica e che quindi viene a farne parte integrante.
7. – Le didascalie relative all’azione scenica mancano nell’autografo. Sono state riprese dalla prima edizione del libretto, quella del 1816. Qualche esplicazione scenica, inesistente anche nel libretto ma ritenuta utile, è stata aggiunta dal revisore. Le rare didascalie originali di Rossini sono state riportate senza alcuna parentesi; quelle che figurano nel libretto princeps sono state riportate fra parentesi rotonde; quelle aggiunte dal revisore sono state poste fra parentesi quadre.
L’edizione critica è stata ovviamente condotta sull’autografo, che si trova nella Biblioteca del Conservatorio di Bologna. Esso è stato seguito e rispettato sino al limite della sua decifrabilità. Il manoscritto rossiniano contiene purtroppo molte approssimazioni, più di una contraddizione e non pochi errori. Per questo è stato accuratamente collezionato con le più importanti lezioni manoscritte reperite e con le principali edizioni a stampa della partitura uscite vivente Rossini oltre che, per quello che possono valere, con molte riduzioni per canto e pianoforte antiche e recenti.
Uno sguardo d’assieme alle varie lezioni consultate consente di ricavare alcune impressioni generali. I testi manoscritti sono sostanzialmente fedeli all’autografo di cui spesso riportano anche errori e anomalie. In nessun manoscritto si trovano più numerose indicazioni interpretative di quante se ne leggano nell’autografo: in alcuni, invece, tali indicazioni sono molto ridotte e sommarie. La collazione dei testi ha avuto dunque valore soprattutto per quanto riguarda il tessuto musicale vero e proprio e i valori ritmici, oltre che a fornire una conferma di quanto si legge nell’autografo.
Nelle edizioni a stampa le differenze sono più rimarchevoli. Quella parigina curata da Castil-Blaze riflette il lavoro di revisione di un musicista sensibile e intelligente ma certamente non animato da preoccupazioni di ordine filologico. La Ratti e Cencetti, romana, è un’edizione in litografia molto bella e seria. Presenta però notevoli approssimazioni per quanto riguarda i segni di interpretazione e sotto questo aspetto si è rivelata poco utile. La Guidi, invece, apparsa molti anni dopo, nel 1864, e quindi in grado di trar profitto dai progressi compiuti dall’editoria musicale, è un’edizione diplomatica molto fedele all’autografo, di cui si limita a correggere gli errori più evidenti.
Il confronto fra l’autografo e le altre lezioni ha consentito poi di assumere un nuovo atteggiamento riguardo le tradizioni che accompagnano l’opera. Le differenze fra l’originale e le lezioni derivate, manoscritte e a stampa, tranne che per la Castil-Blaze, sono veramente trascurabili. Il barbiere di Siviglia che risulta da queste lezioni, che pur coprono un arco di quasi cinquant’anni, è, nota più nota meno, quello dell’autografo. Ciò vuol dire che tutte le modificazioni riguardanti la parte vocale e strumentale che sono arrivate fino a noi a intorbidarne la partitura, se pur nate e allignate vivente Rossini, non hanno mai trovato la conferma indiretta di una lezione scritta.
L’edizione ha dedicato un’adeguata attenzione alla parte letteraria e didascalica basandosi “in primis” sull’edizione princeps del libretto (1816), poi confrontata con numerosi altri libretti degli anni immediatamente successivi. Il raffronto fra il libretto originale e il testo musicato è utile per comprendere quale dovesse essere il confine tra comico e farsesco negli intendimenti di Rossini. È interessante notare come egli si sia preoccupato di non musicare versi mediocri o volgari; come abbia saputo elegantemente modificare espressioni troppo rozze; eliminare doppi sensi e forzature buffe; sostituire alla risata grassa un più malizioso e autentico sorriso.
Troviamo anche qui una condanna autorevole dei tanti eccessi di gusto con cui viene sovente umiliata l’aristocratica comicità del Barbiere da registi, direttori e cantanti. Dai libretti che accompagnavano le singole rappresentazioni dell’opera, riflettendone le caratteristiche, e anche da taluni spartiti per canto e pianoforte più sensibili alle esigenze del mercato è in parte ricostruibile una storia degli abusi. Si può tranquillamente affermare che le “tradizioni” del Barbiere non riflettono affatto il pensiero e il gusto di Rossini e non hanno alcun diritto consacrato di proporsi in alternativa alla chiarissima lezione dell’autografo.
Per definire la differenza di fondo che si rivelerà all’ascolto del Barbiere di Siviglia così come risulta da questa edizione nel confronto con le precedenti, si dovrebbe ricorrere a un’immagine pittorica. Si pensi a un antico dipinto, al quale un restauratore ottocentesco avesse arbitrariamente appesantito colori e contorni, riportato oggi alla purezza e alla semplicità originarie. Passando a un sommario confronto fra questa partitura e le altre in circolazione si rileva infatti una sostanziale differenza di valori dinamici lungo tutto l’arco dell’opera. Le edizioni correnti presentano un gran numero di coloriti che nell’originale non esistono. In particolare le indicazioni di diminuendo e di crescendo, usate arbitrariamente con grande frequenza, tendono a dare al Barbiere un colore più vicino alla musica tardo-ottocentesca e ad allontanarla dai contorni netti di una partitura di sapore mozartiano.
Taluni coloriti originali cambiano sostanzialmente il senso di certe pagine. Basti citare lo scoppio del fortissimo nel “Temporale” del secondo atto, che avviene sedici battute dopo il punto in cui siamo usi ascoltarlo: al cambio di tonalità Rossini indica senza ombra di dubbio piano e vi aggiunge la didascalia “tuono” che serve sì a indicare un effetto di scena, ma che precisa benissimo il significato onomatopeico di quel borbottio di archi e fagotti, a tratti interrotto dal luminoso lampeggiare dei legni, che solo nel piano trova il giusto colore. Più di una volta il crescendo è ottenuto semplicemente con l’aggiunta progressiva di nuovi strumenti, senza ricorrere ad altre indicazioni.
Un’altra fondamentale differenza fra l’edizione critica e molte edizioni in circolazione riguarda l’impianto strumentale della partitura. Edizioni sostanzialmente fedeli all’autografo rossiniano, per quanto riguarda la distribuzione strumentale, ne sono sempre esistite. Purtroppo raramente hanno prevalso nella pratica quotidiana. Frequente era l’aggiunta all’organico originale di tromboni (generalmente uno), di timpani e di un secondo oboe. Il raddoppio degli oboi portava a rimaneggiare la parte degli strumentini con il fine evidente di eliminare il secondo ottavino. L’impiego dei tromboni contrasta con la trasparenza e la leggerezza della partitura; l’eliminazione degli ottavini in coppia, così tipici e caratterizzanti, è inescusabile; l’uso degli oboi, invece che degli ottavini, conduce poi all’assurdità di passaggi tecnicamente ineseguibili alla velocità richiesta, come avviene nell’ultima parte del grande Finale Primo.
L’edizione critica, naturalmente, ristabilisce la lezione originale dove ritocchi strumentali erano stati accettati abusivamente e corregge note e ritmi che erano stati deformati. Qualche passaggio viene ad assumere una fisionomia decisamente nuova, come ad esempio l’inizio della celebre “cavatina” di Figaro. Si prospetta ancora un curioso interrogativo circa l’esistenza di una Lisa, personaggio menzionato dall’autografo e di cui si è persa ogni traccia. Il problema verrà ampiamente trattato nell’apparato critico.
Poiché nell’autografo le didascalie riguardanti l’azione scenica sono scarsissime, l’attuale edizione riporta quelle del primo libretto, cioè di quello stesso testo che Rossini aveva sott’occhio quando veniva componendo il suo capolavoro. Qualche didascalia aiuterà davvero a comprendere meglio il senso della musica e del testo. Citeremo per tutte quella che si trova nell'”aria della lezione” del secondo atto: il sonno di Bartolo dà un senso preciso a quel duetto tanto spesso frainteso: Rosina e Almaviva possono dirsi in libertà le prime espressioni d’amore.
Qua e là si incontrano parole diverse da quelle che siamo abituati ad ascoltare o addirittura frasi dimenticate dai trascrittori. Niente di sostanziale, tuttavia. Almaviva, per esempio, dice nell’originale, con molta più logica, “Già l’alba è appena” invece di “Già l’alba appare”; e Rosina “Mi parlò di cento bagattelle” invece di “Mi parlò di certe bagattelle…”. I soldati che entrano in casa di Bartolo richiamati dal frastuono del litigio cantano “Niun si muova” invece di “Nessun si muova”, il che comporta una notevole modificazione ritmica del testo musicale. Basilio, alla fine del quintetto, canta una frase che non si era mai sentita: dopo il “Buona sera, buona sera” dice “Ah, che in sacco va il tutor, doman poi si parlerà” frase che ci illumina ulteriormente sull’intuito e la sagacia del personaggio. In un punto del Finale Primo, là dove tutti si affannano a spiegare all’Ufficiale le ragioni del frastuono, vengono abitualmente aggiunte due battute inesistenti nell’autografo. In altro passaggio del medesimo Finale, la voce di tenore è sempre stata aggiunta a quella di Rosina e di Berta guastando un bellissimo effetto di cascata discendente di suoni chiari, cui si contrappone una risalita di voci scure.
Si vedrà ancora in questa edizione come parecchie indicazioni iniziali di tempo siano diverse da quelle normalmente accettate. All’aria di Berta è premesso un Allegro (non un Allegretto) e alla fine dell’Aria non esiste il Più mosso cui siamo abituati. L’arietta di Bartolo per tradizione sempre cantata lentissima (e suddivisa dai direttori) è prescritta Allegro.
Interessante e attuale è il fraseggio originale di molti passi modificati dalla tradizione. Certi passaggi vocali e strumentali stanno benissimo “staccati” contrariamente a come vengono eseguiti di solito; certi altri, invece, normalmente eseguiti “staccati”, sono assai più efficaci «legati», come indicato da Rossini. L’autografo presenta numerose altre sorprese. La prima aria del tenore “Ecco ridente in cielo” è accompagnata da più chitarre, non da una sola (e tanto meno dall’arpa); nell’”Introduzione” vi è un altro delizioso tocco strumentale: il sistro opposto alla tromba. La successiva Canzone, in cui Almaviva si presenta a Rosina come Lindoro, non ha accompagnamento. Vi è l’indicazione “chitarra”, ma la parte non è scritta per esteso a dimostrare il desiderio di Rossini che il chitarrista accompagni liberamente, secondo il suo estro, come in una vera canzone popolare.
L’edizione affronta con nuovi argomenti l’annosa e controversa questione della “Sinfonia”. Quella composta da Rossini su temi popolari spagnoli per la prima esecuzione del Barbiere è andata perduta. Qualche musicologo ha recentemente avanzato l’ipotesi che essa non sia mai esistita. Fin dalle prime repliche a Firenze e a Bologna, nello stesso 1816 che vide a Roma la prima esecuzione dell’opera, Rossini impiegò una sinfonia che aveva composto nel 1813 per l’Aureliano in Palmira e che due anni dopo aveva già utilizzato per un’altra sua opera, l’Elisabetta regina d’Inghilterra. Quando Rossini rifece la stesura della partitura per farla precedere all’Elisabetta, pur lasciando la musica quasi identica, introdusse molte modifiche strumentali anche al fine di allargare l’organico estendendolo ai tromboni e ai timpani, strumenti che si trovavano nell’orchestrazione più elaborata dell’Elisabetta. Il problema per i posteri fu di individuare con certezza quale delle due stesure esistenti fosse stata scelta per diventare la “vera” sinfonia del Barbiere di Siviglia. Oggi non ci sono più dubbi che si sia trattato di quella dell’Aureliano in Palmira per le seguenti ragioni:
- La «Sinfonia» dell’Aureliano presenta lo stesso organico strumentale che viene impiegato nel resto dell’opera, con la sola aggiunta di un secondo oboe.
- Rossini, subito dopo le prime rappresentazioni, fece copiare una partitura completa del Barbiere di Siviglia da mandare all’editore Birchall per servire di base all’edizione inglese dell’opera. In quella partitura l’ouverture che appare è quella dell’Aureliano in Palmira.
- Il manoscritto autografo del Barbiere ha inserito al posto della sinfonia, legata alla partitura, e facente corpo con essa, una parte d’orchestra di contrabbasso: è la parte del basso della “Sinfonia” dell’Aureliano, probabilmente servita da guida al maestro direttore.
Alberto Zedda
Pubblicato nel Bollettino del Centro Rossiniano di Studi.
Anno 1968. NN. 4-5-6