Rossini e l’universo femminile

Anna Guidarini

La mappatura grafologica della vita di Gioachino Rossini (1792-1868) è abbondantemente docu-mentata dai suoi scritti autografi, da lettere, da partiture musicali; abbiamo anche qualche disegno, conservato nei musei e nelle istituzioni che portano il suo nome, come la Fondazione Rossini di Pesaro, o di proprietà di appassionati collezionisti, quali Reto Müller e Sergio Ragni. Dunque non manca materiale per ripercorrere la “cronografia” della sua esistenza, a partire però da un’età già matura, perché non ci resta testimonianza della sua fanciullezza.

Uno dei suoi primi biografi, Giuseppe Radiciotti (1927, p. 15), sostiene che fosse fin da bambino “vivacissimo d’indole e per natura poco propenso al lavoro”. Chissà. Estendiamo pure all’infanzia la proverbiale pigrizia e la golosità, di certo il giovane Gioachino anticipa i tempi anche nella lussuria; forse superbo sarà diventato grazie al successo e pare che l’avarizia abbia fatto buon gioco nelle sue scelte di vita. La storia, l’aneddotica, le lettere autografe restituiscono l’immagine di un inaffidabile viveur, un traditore secondo le convenienze del mondo: ma non è di questo che dobbiamo trovar conferme o smentite. Molto si è scritto sulla sua vita e sulla sua grafia, a partire dalla monografia di Arnaldo Camosci fino a un recente articolo di Annarosa Vannoni, passando attraverso studi più o meno articolati pubblicizzati anche in rete.

Gioachino nasce a pochi mesi dal matrimonio di Giuseppe Rossini, detto Vivazza (1764-1839), originario di Lugo di Romagna, e dell’urbinate Anna Guidarini (1771-1827), quando la madre ha 21 anni e il padre 28. È doppiamente figlio d’arte, perché Anna è una brava cantante (sarà tra le prime donne a calcare i palcoscenici dello Stato pontificio) e Giuseppe di mestiere suona in banda e in orchestra. La musica dunque gli appartiene con naturalezza, da sempre: è il linguaggio con cui impara a comunicare addirittura con i genitori (Fabbri, 1983).

Sappiamo che nel 1804, a 12 anni, si esibisce come cantante a fianco della madre. La sua vita artistica di compositore è precoce e rapidissima: in breve arriva ai massimi fasti della carriera, vera e propria star ante litteram, di prolificità quasi impressionante nell’auge dei suoi vent’anni. Poi, nel 1829, l’ultimo capolavoro con l’opera Guillaume Tell, cui seguono anni e anni di silenzio, appena interrotto dallo Stabat Mater del 1832-1842 e, nel 1864, dalla Petite Messe Solennelle. In questo arco di tempo va ascritta la morte di Anna, nel 1827; Giuseppe Rossini arriverà a vivere fino al 1839.

La sua prima moglie è la spagnola nonché ricca cantante Isabella Colbran (1784-1845), regina d’arte e di fatto dei palcoscenici lirici del tempo, voce in cui si trasfiguravano le creature femminili più forti e chiaroscurate delle sue opere del periodo napoletano. Si conoscono fugacemente nel 1806 a Bologna, si frequentano nel partenopeo Teatro San Carlo a partire dal 1815, in una splendida stagione di sodalizio artistico, quindi nel 1817 si fidanzano per convolare a nozze nel 1822. Il matrimonio non sopravviverà al declino artistico di Isabella, iniziato poco dopo. Nel 1830 Gioachino torna a Parigi e lascia che lei resti a vivere a Bologna, fino alla separazione consensuale avvenuta nel 1837.

Con la francese Olympe Pélissier (1799-1878) – nata povera ma dotata di fortunata avvenenza che rispecchia i canoni eterni della bellezza femminile, dama consegnata bambina dalla madre ai danarosi frequentatori dei salotti parigini – la incontra nel 1832, in un momento in cui è legata sentimentalmente a Honoré de Balzac. Avevano già avuto occasione di conoscersi in precedenza, probabilmente nel ’23. La loro relazione si palesa in società e si affianca a quella coniugale in maniera al-quanto anomala, tuttavia devono attendere che Gioachino divenga vedovo per convolare a nozze: si sposano nel 1846, a meno di un anno dalla scomparsa di Isabella.

Riassumendo: nel 1822 Gioachino sposa Isabella, nel ’27 perde la madre, nel ’39 il padre Giuseppe, nel ’45 Isabella; si sposa quindi con Olympe e vivrà con lei a Passy, vicino a Parigi, fino al 1868, ritirato dalle scene e impermeabile alla mondanità, distaccato, ironico, bonario, sotto la protezione avvolgente delle cure che Olympe gli riserva con totale abnegazione.

Prima di aprire le porte del suo universo femminile, proviamo brevemente ad illuminarne le origini attraverso le scritture dei genitori.

Grafie di Giuseppe Rossini e Anna Guidarini

Il padre è figura con forte identità sociale, ben radicata nel contesto ambientale che lo circonda; è intelligente, attivo, estroverso, fanfarone, attento alle convenienze e attrezzato per spargere attorno a sé ottimismo e cordialità.
La madre ha un temperamento nevrile, è delicata, fragile. Il figlio avrà modo di definirla «dolcissima e angelica». Sicuramente non era nelle intenzioni di Gioachino offrire una connotazione inerente al discorso di genere quando le ha attribuito quest’ultima caratteristica. Resta il fatto che la parte femminile di Anna rimane nascosta nell’ombra. Prevale infatti nel suo essere un che di aspro, soffe-rente, faticoso, rigido; non solo per la resa poco estetica della sua scrittura. È stata una donna di palcoscenico, con tutto quello che la carriera e il ruolo di cantante di non altissimo grido comporta-vano negli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Sa presentarsi con cura e attenzione, far buon viso a un sentimento di sé intermittente, poco propensa a concessioni, che si riverbera in modalità di interessarsi e proporsi agli altri non sempre costanti e coerenti. Sembra non albergare più alcun so-gno, quasi ritratta in un’interiorità pesante e lontana, forse anche a causa dell’età e della salute ormai cagionevole (le due lettere proposte sono del 1820 e del 1818). Se possiamo concederci un’illazione, le scelte di vita del figlio sembreranno ricalcare le sue orme.

Per non soffermarci troppo su Gioachino, sintetizziamo che anche grafologicamente si rivela un ‘maestro’, dotato di una capacità grafica veramente elevata, che trascorre dall’apollineo nitore di un Minuta evolutissimo alla scrittura disturbata da impastamenti faticosi e fiato grosso, attestando anni di confusione, protesta, scoraggiamento: da un gelido distacco, ritratto di un’interiorità impermeabile al mondo, fino alla tenerezza verso la vita, alla quale in vecchiaia sorride con gesti stanchi e bonari, stupidi e felici. Ne diamo pochi esempi: la lettera scritta al padre non appena ha appreso la notizia della morte della madre e due indirizzi scritti in tarda età, corredati da una pagina musicale.

Lettera di Rossini al padre per la morte della madre.

4 • IN MORTE DI LEI
5 • MUSICA XE BELA + altro INDIRIZZO

Rossini è immenso, volubile, è tutto e il contrario di tutto, come si avverte nel sorriso vagamente beffardo delle sue tante fotografie, con mano che immaginiamo vecchia e gonfia mentre scrive all’«Autore della Nota Xè bela». Ironico, finalmente quieto, oltre la tranquillità e la felicità. Nella compostezza della lettera al padre, incredibilmente solare, nitida e luminosa, sta lo spazio congelato dal dolore, con gesti finali di ritorno e ripiegamento su di sé dove si rinviene la sua maschera di uomo. In morte la madre viene chiamata «La Sposa»: ecco il distacco, la lontananza, il trovarsi so-pravvissuto, dopo dichiarazioni d’amore enormi e apertissime. Sembra realizzarsi qui un ossimoro tipicamente rossiniano, che altro non è se non la ricomposizione, a un livello più alto, di qualunque opposto. Come accade nell’overture della Gazza ladra, ricca di giocosi motivi popolari fruibili anche in ambito pubblicitario: solo un direttore d’orchestra che conosce bene l’opera ne sceglie fin dall’inizio una lettura drammatica.

Spartito

Possiamo leggere nel suo epistolario (Cagli e Ragni, 1992-2004) che si rivolge al padre come a un “Mustafà”, cioè a un personaggio dell’Italiana in Algeri, al «flagel delle donne» che s’infiamma «d’insolito ardore», a Vivazza appunto. A lui Rossini ha concesso di dedicarsi ai piaceri della vita, non certo ad Anna, da cui ha sempre preteso vita santa. Gioachino pensa al loro mantenimento, figlio e genitore che si occupa fin dell’abbigliamento della madre.

Proviamo ad accostare le grafie di Rossini con quelle di Isabella Colbran e poi di Olympe Pélissier. La prima spagnola, la seconda francese: anche i modelli calligrafici dell’epoca certamente differivano.

6 • ISABELLA
7• OLYMPE

Isabella Colbran è un’artista, una cantante, come Anna. Come Anna non presenta i tratti di una femminilità vivace e dichiarata, ma ha una personalità molto più autonoma, più morbida, ricca di vita e di dialogo interiori, un senso di sé permeato di dignità. Si muove con agio e disinvoltura nel suo mondo, senza preoccuparsi troppo di rispondere a un ambiente che d’altra parte domina dall’alto. È donna forte di una ricchezza interiore che entra in risonanza con quella di Gioachino. In qualche modo, è come se si assomigliassero in questo e contemporaneamente in un sentire intenso che li attraversa dall’intimo fino a risalire a fior di pelle, a tratti scoperta: Isabella ci convive, è capace di farci i conti e non ne viene colta di sorpresa, come sembra accadere a lui.

Grafia della giovane Isabella Colbran

C’è anche in lei un sottofondo di introversione nervosa che richiama l’eco di un’alta pretesa genito-riale, quasi un atteggiamento di controllo e di stizza che blocca lo scambio con il prossimo e la erge in una torre. Che sia l’abitudine a guardare gli spettatori da un palcoscenico? Gioachino ha trovato un terreno comune con lei nel sodalizio musicale. Il loro innamoramento, in perfetta consonanza tra arte e vita, sboccia e viene suggellato nei duetti di un’opera che esalta l’incantesimo di una maga che cede a un eroe: Armida. A Rinaldo non servono stratagemmi per vincere il potere della maga, eppure in quest’opera si palesa che l’amore è possibile in un luogo magico, non nella quotidianità. In Armida l’amore incantato condivide con quello mondano il sentimento della vendetta, che alla fine dell’opera diviene una – premonitrice? – presenza ingombrante.

Isabella Colbran.

Olympe Pélissier, seconda compagna di Rossini, è una cortigiana principessa. Abile e capace di prendersi ciò che vuole, leggiadra e insieme imprigionata nell’ordito della necessità, è immersa nell’organizzazione ferrea della propria vita, tanto ferrea che sembra derivare da necessità e stabi-lizzarsi nella pertinacia più stizzosa e in una vulnerabilità di vetro. Rossini sarà per lei un porto si-curo, un alleato con cui stipulare – nella complementarietà delle personalità e dei bisogni – un patto scritto dalle convenienze del vivere sociale. Funzionale a lei, alla sua bramosia di controllo, di una posizione degna dell’ascesa agognata; indispensabile a lui, al suo ‘pensaci tu’, al desiderio di delega, di rinuncia a ogni preoccupazione, a qualsivoglia dominio sulla realtà.

Olympe vola sapendo di volare o vola camuffando una capacità di stare nel mondo opportunamente, opportunisticamente? È una farfalla a cui sono state tarpate le ali? Nella O della firma sta la sua cifra e il suo mistero, l’intera personalità di bambina graziosa, fanciulla leggiadra, donna piena di femminilità e di spirito operativo. Compostezza e insieme esagerazione, in una conflittualità interna che deborda con eleganza e con una tensione che stira costantemente il tono distinto e misurato. Vive di seduzione attiva, calcolata, che non la libera però da una posizione di desiderio mai soddisfatto di stare alla pari. Manca in lei il respiro della libertà, schiacciato e sacrificato nell’ostinazione infinita a dover essere attiva, organizzata, efficiente.

Olympe Pélissier.

Aggancia continuamente il mondo, sembra capace di rispondere solo a domande provenienti dall’esterno. È mai entrata in contatto con sé? Aspirazioni e bisogni, alto e basso, sembrano schiac-ciare una zona centrale timida. Ma qui gioca il suo braccio di ferro: si afferma e si blocca (la scrittura, dopo l’asta discendente della t, non è più capace di collegare), afferma e continua a farlo nel rifiuto di porgere la mano all’altro, nell’impossibilità di aprirsi al futuro, al mondo.

Ma Olympe è una femmina, la classe la sua arma: al ‘sono come tu mi vuoi’ senza sforzo accosta il “ti faccio credere di obbedirti e faccio quello che mi pare”.

Nella scrittura di Isabella, come in quella di Anna, si stenta a trovare il lato squisitamente femminile; con Olympe no: siamo inequivocabilmente di fronte a una dolcissima creatura che sa proporsi con un sorriso perfetto. Una persona con tutte le carte in regola per affrontare la vita sociale con la maschera migliore per ogni circostanza. Un tratto, questo, che rimanda al carattere di Giuseppe e che – ipotizziamo – costituirà nella parabola discendente della vita di Gioachino la sicurezza di un porto riparato, il rifugio alla fatica di vivere, il luogo del riposo e della protezione, una volta deposte le armi dell’arena teatrale e mondana e soprattutto una volta che – arreso e vinto, abbandonandosi a una sorta di autosopraffazione – concede a se stesso il lusso di lasciar ad altri il peso di rispondere alla vita.

Rossini e Colbran

Il costo di questa operazione ce lo racconta Olympe, oltre che con la sua firma, nelle parole del suo testamento: «Desidero che il mio corpo sia deposto definitivamente e per sempre nel cimitero dell’Est [oggi Père-Lachaise]. […] Dopo la traslazione a Firenze, io vi rimarrò sola: faccio questo sacrificio in tutta umiltà; io sono stata glorificata abbastanza dal nome che porto» (Radiciotti, II, p. 548). Olympe morì nel 1878.

Mettendo a confronto la scrittura delle due donne c’è una zona di sovrapposizione, un confine con-diviso, una sfumatura che le fa scolorare l’una nell’altra? Dove sta in entrambe l’ubi consistam, l’istanza di senso della vita? Come giocano la libertà e il legame con lo stesso uomo che, alla resa dei conti, è un gigante di solitudine?
Isabella e Gioachino corrono vicini, si intrecciano, si assomigliano, si sentono e si fondono come vasi comunicanti. Sicuramente per un tratto di vita si sono dati la mano, si sono accompagnati fino ad un’assimilazione progressiva che Isabella ha agito vrso di lui. Qui si mette in atto la dinamica del ‘tu come me’. La coppia Gioachino-Olympe neppure si sfiora: ‘tu diverso/a da me’. In entrambi i rapporti si gioca la lontananza di Rossini dai sentimenti, nella vita come nel palcoscenico. A teatro le passioni vengono tenute distanti dalla musica: Rossini le lascia al testo, casomai all’interpretazione, per tener sempre alta la barriera del distacco, il traguardo di una visione superiore. Certo, quando si tratta di coralità i sentimenti sono dettati dalla musica, e forti.

Una considerazione di corollario: a detta dei ‘musicisti’ (le virgolette valgono a evidenziare che chi si definisce tale non dichiara solo un mestiere, ma l’appartenenza a una categoria dello spirito), la musica riempie, satura la testa, isola dal mondo, deborda dagli spazi a lei concessi. In sintesi, scar-dina – innestandosi su un terreno predisposto – i meccanismi comuni perché modifica in senso crea-tivo i parametri che regolano l’attività della mente, il rapporto con se stessi, con il mondo, con gli altri. Ancora: la musica (il teatro? l’arte?) fa bastare a se stessi. Come una bacchetta magica, mescola carte, colori, sentimenti e là dove c’è separazione unisce, crea allacci e ombre di trapasso. Dalla sintassi alla paratassi, dal sillogismo al paralogismo, dal pensiero logico-deduttivo al pensiero liqui-do, liquido ben prima che Zigmud Bauman lo facesse assurgere a categoria ermeneutica della nostra socialità. A grandi linee, potrebbe essere questa una parafrasi dell’universo ‘musicale’. Insomma la musica è un linguaggio, riservato e iniziatico, che accomuna coloro che ci convivono. È un canale di comunicazione ignoto a chi non la conosce e riconosce padrona. Del linguaggio della musica non ha senso parlare tra esoterici, nè se ne può parlare con gli essoterici. Non è solo un fatto di ritmo, di canale sensoriale preferenziale… è uno stile di relazione non verbale attraverso cui passano dati sensibili alla persona, che non riguardano esclusivamente il discorso musicale, anzi: hanno a che fare con l’interezza dell’essere. A riprova basti leggere il recente libro di Alberto Zedda, complesso e ricchissimo, sulla musica e su Rossini.

Rossini aveva in comune con i genitori il linguaggio musicale. Ha sempre parlato di tutto quanto è intorno alla musica, con loro, mai della musica ‘direttamente’. La stessa condivisione, la stessa mo-dalità comunicativa – non è certo questa la sede dove si afferma per la prima volta – c’è stata con Isabella Colbran. Anche lei ha conosciuto la musica nella fanciullezza, anche lei ha avuto un genitore musicista che ha addirittura sacrificato la propria carriera per costruire – sapientemente – quella della figlia, strappata bambina alla madre e alla patria d’origine per ‘motivi di studio’, per frequentare i migliori maestri dell’Europa del tempo. Anche lei, come Rossini e ancora prima di lui, ha creato uno stile musicale (di canto) riconoscibile e unico, che svincola dalla parola, dal testo cantato il portato comunicativo.

Pélissier e Rossini.

Ecco perché nel loro momento di felicità è accaduto un paradiso di comunione: a quale livello di profondità potevano arrivare a toccarsi e intrecciarsi, lui, grande compositore di una musica a cui lei, primadonna incontrastata, dava miglior voce col suo altissimo virtuosismo, con l’incarnazione avvenente e imperiosa di una presenza scenica inarrivabile? Rispetto a questa simbiosi artistica, a uno scambio così totalizzante, quale altra relazione poteva competere? Anche negli gli anni della lontananza, pare che Rossini e la Colbran non abbiano avuto bisogno di parole.

Nella vita, come nella musica, il genio di Rossini non è stato quello di sviluppare «strutture unitarie e coerenti» quanto piuttosto di «accostare differenze». Ancora: Rossini accenna, dice e non dice, anticipa: “L’incertezza è uno dei suoi tratti più belli […] lo smarrimento” (Baricco, 1989, pp. 35-40). Siamo di nuovo nella vita-musica o musica-vita come situazione autonormativa che prevede la «totale assenza del dramma» e spalanca le porte a ogni possibilità: per dirla con Isabella, l’italiana in Algeri, «Sarà quel che sarà».

La stabilità della Colbran, la forza morbida e remissiva della dolcezza che l’ha cambiato – a detta dello stesso Gioachino – diventa fermezza autoreferenziale in Olympe, l’unica in grado di raccogliere la sua volontà di farsi contrastare, di affidarsi, di delegare. Un tratto, questo, che ne accomuna la complementarietà: entrambi hanno un sé da proteggere, da custodire, nell’impossibilità di poterlo condividere, come è avvenuto con Isabella. Con Olympe torniamo nel regno delle parole: entrambi non possono farne a meno, sia pur per dirsi altro, come in molti rapporti. Nella sua compitezza, nella risposta totale della Pélissier c’è qualcosa di algido, una rimozione congelata che pervade come un’ossessione ovunque presente, perennemente.

Olympe è stata spesso definita la ‘badante’ di Rossini; badando a lui badava a sé, al suo posto nel mondo, alla costruzione di un ruolo in cui accomodarsi, che se non le permetterà mai di debuttare in costume di scena, le consentirà di entrare in società dalla porta principale e affacciarsi a un palco di prim’ordine senza suscitare brusio. Olympe ha bisogno di Rossini, che in lei trova riposo: non è un’interlocutrice, non pone domande, non lo mette in scacco. A differenza di Isabella, non lo riporta alla madre, ad Anna, a quella lotta del voler essere voluto. Olympe è così già iscritta nella polarità maschile di Gioachino.
Alla fine, dell’immagine di Rossini, presa da uno dei suoi innumerevoli ritratti, resta il sorriso dello sguardo, un respiro oltre.

Di Isabella e Olympe resta l’immagine di donne forti, diverse eppur accomunate dall’aspirazione a realizzare con lo stesso uomo una parte di vita: la prima chiede a Rossini una vita privata da con-durre insieme fuori dallo spazio teatrale, visto che quella pubblica e sociale – che equivale a quella artistica, perché entrambi hanno esternato sul palcoscenico le loro personalità – aveva abbondante-mente oltrepassato l’obiettivo suo e la proiezione paterna creando tra i due un’osmosi altissima; la seconda trova in Rossini lo stimolo per la sua emancipazione: lui le offre il braccio, lei ricambia con appoggio e sostegno, attenta a non uscire mai dalla posa con cui vive. Con Isabella Rossini ha pro-vato a uscire dal teatro, ha riscattato Anna e le sue fragilità che sembrano risuonare in lui, in un vuoto tremante. Con Olympe viene a patti con la vita, senza spostarsi troppo dalla propria interiorità, offrendo a lei il modo di trasformare la vita in teatro: il palcoscenico è l’esser moglie di Rossini.

Lui resta altrove, sereno, asociale, nella linea bianca di una luce inattaccabile che – forse – è musica. Sembra lasciar aperte le contraddizioni, ammettere lo scacco di non avercela fatta a staccarsi da sé. È invece tornato da tempo da una discesa agli inferi che l’ha restituito al mondo, portandoseli dietro senza proteste.

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ABSTRACT
Gioachino Rossini è figlio di musicisti e ha dedicato la sua vita alla musica. Ha condiviso con la prima moglie Isabella Colbran un’alleanza totale, dentro e fuori dal palcoscenico, che li ha tenuti insieme fino al declino artistico della cantante spagnola. Con Olympe Pélissier, con cui ha contratto un secondo matrimonio, ha trascorso l’altra sua vita fuori dal teatro.

BIO
Carla Di Carlo ha studiato grafologia famigliare e grafologia peritale presso l’Istituto Moretti di Ur-bino. Educatrice e rieducatrice della scrittura, laureata in Lettere moderne (sezione filologica) e specializzata in Bibliografia, si è occupata di Conservazione dei beni librari. Da vent’anni cura le Edizioni del Rossini Opera Festival di Pesaro.

Carla di Carlo

© Zedda-Vázquez