Niccolò Piccinni occupa una posizione di spicco fra i compositori della Scuola Napoletana. La sua fama parte da Napoli, dove maturò la formazione musicale e dove la facilità inventiva, straordinaria anche in tempi di fertilità diffusa, e la felicità della vena melodica, ricca di un pathos larmoyant semplice e commosso, gli guadagnarono presto una serie di commissioni primarie, sia nel repertorio buffo che in quello più esclusivo dell’opera seria.
Ma Piccinni doveva presto estendere la sua reputazione alle più importanti capitali d’Europa, Roma e Parigi. A Roma, col successo clamoroso della Cecchina, conquistò tale favore da parte di quel pubblico esigente da assicurarsi una ventennale presenza con cadenza annuale; a Parigi venne eletto dal partito italianista come bandiera di rappresentanza, termine di paragone vincente nella celebre querelle contro il partito riformista di Gluck. Forse suo malgrado, perché Piccinni mostrò in più occasioni grande rispetto per Gluck, al quale fu debitore di non pochi suggerimenti nella scrittura strumentale, insolitamente ricca ed elaborata, e nella ricerca di un vigore drammatico di inconsueta efficacia. Con Gluck, Piccinni condivise poi lo sforzo di introdurre nel suo comporre modi e gusti della tradizione francese.
Il fascino della musica di Piccinni deriva da una estrosità fuor d’accademia che si materializza nell’impiego di forme poco ortodosse, impiegate e mescolate fra loro in modo irregolare. Non è sempre evidente se si tratti di geniale intuizione della fantasia piuttosto che di un certo disordine anarcoide, ma è assicurato l’effetto sorpresa e la piacevole sensazione di novità che sempre si avvertono nel suo comporre.
Le conquiste originali del suo mestiere riguardano i Finali, articolati in sezioni multiple e variegate poco frequenti nei compositori di estrazione napoletana, e i Duetti, dove la seconda voce non si limita a riprendere con testo differente la stessa melodia della prima, ma presenta andamenti nuovi e drammaturgicamente contrastanti, passando dal tono Maggiore al Minore. Anche nell’impiego dei Da Capo delle arie Piccinni non si limita a meccaniche ripetizioni della prima esposizione, introducendovi sviluppi e cambiamenti che travalicano l’ambito della variazione d’uso. Singolare è la mescolanza di elementi semplici e di spunti dotti e complessi che alternano momenti di disimpegnato procedere ad altri di elaborata classicità.
L’accompagnamento strumentale della parte vocale è assai più denso e impegnato di quello di tanti suoi colleghi napoletani, anche se purtroppo conserva la comune pratica di raddoppiare costantemente la parte vocale coi violini primi, venendo a creare una gabbia obbligata che limita la libertà agogica dell’interprete e condiziona gli slanci espressivi della voce, rendendo difficile anche l’introduzione di variazioni belcantistiche atte ad accrescere l’interesse.
Altro elemento di pregio della musica piccinniana riguarda l’impiego di formule armoniche originali che vengono a interrompere in modo imprevisto procedimenti tutto sommato semplici e tradizionali, dando all’ascoltatore un senso di novità e di sorpresa che a volte sopravanza l’effettivo valore della trovata.
Per questo la musica di Piccini suona moderna, nel confronto di quella di molti contemporanei, e si è mantenuta in repertorio per decenni senza perdere freschezza e favore di pubblico.
È però negli ariosi e nei recitativi accompagnati che la forza drammatica del compositore tocca traguardi di tutto rispetto, conseguendo risultati di incontestabile efficacia e originalità. Gli interventi dell’orchestra nei recitativi drammatici, sempre fortemente caratterizzati, sono perentori e variegati, e conferiscono alla scansione della voce un rilievo eccezionale. Essi si concludono spesso in modo brusco e inatteso, lasciando nell’ascoltatore un disorientamento inquietante che scompagina l’ordinato procedere di strutture di per sé non particolarmente interessanti ma che acquistano efficacia proprio dal loro irregolare sviluppo, a volte lungo e protratto, a volte breve e folgorante.
Nella torrenziale vena melodica, non sempre frutto di scelte meditate e inedite, si avverte la semplicità cattivante di una ispirazione sorretta da espressività costante e intensa, di facile comunicabilità, che offre all’interprete occasioni di brillare e al pubblico il piacere di divertirsi e commuoversi senza astruse problematicità.
Nelle arie e nei duetti de Lo sposo burlato, bella opera della maturità, si ritrovano in abbondanza gli elementi fondanti del comporre piccinniano: brio, vitalità, grazia, inventiva melodica di immediata e facile sentimentalità, mai volgare o anodina.
Non mancano pagine di routine, ma sempre arriva la sorpresa di una una brusca modulazione o un radicale cambiamento di tempo a riscattarle, come nell’Aria di Pomponio, dove a un’esposizione scontata segue una tarantella di indiavolata carica buffa, resa impervia da una tessitura vocale acuta e tesa.
Nel Duetto Lindora-Florindo il periodare melodico è impreziosito da una suddivisione ritmica inusitata, che lo carica di intenzioni al di là del valore dell’invenzione. Quando il dialogo si fa serrato, l’accavallamento delle voci genera intensa emozione che si scioglie in una rapida conclusione che consente di non insistere eccessivamente nella tessitura acuta e fatigante.
Il Recitativo Strumentato e Aria di Lindora, uno dei pezzi di rilievo, apre con piglio gluckiano alle tensioni della Tragedie Lyrique con un canto aspro e forte, interrotto dai lampi di impetuosi interventi strumentali. Il recitativo si salda originalmente all’Aria che presenta una forma aperta e cangiante che fa pensare a Spontini. Spontiniano è anche l’impegno vocale preteso all’interprete, una tensione senza respiro nella zona acuta del registro vocale che chiede forza e resistenza.
Anche la bella Aria di Florindo ricerca cantabilità intensa e acuta per restituire la carica espressiva che racchiude. Non mancano passi di agilità , da rendere non con virtuosismo acrobatico, ma col legato intenso ed espressivo del canto di forza. Da notare i lunghi pedali espressivi che preparano il ritorno agli spunti melodici dell’impianto iniziale.
La Cavatina di Lindoro, breve e felice, è una lezione di alto patetismo, intenso e nobile, sempre collocata in un registro acuto che la rende complicata. Vi si incontrano particolarità armoniche raffinate, con ritardi e progressioni, tipiche della scuola napoletana, di grande effetto. Belle melodie, brevi e intense, iterate con insistenza per creare abbandoni nello stesso tempo teneri e forti.
Da citare ancora l’Aria di Livietta, dove si alternano maliziosi inviti consolatori a disinvolti commenti ironici; sapidi e rapidi sguardi presto mutati in occhiate malandrine.
La conclude una cadenza insolitamente estesa, originale nel libero andamento civettuolo, che contrasta con la folgorante e improvvisa chiusa strumentale.
Alberto Zedda