Dalla madre amatissima, interprete itinerante d’ogni sorta di spettacolo lirico, Rossini aveva ereditato la passione per il canto; dall’inquieto padre, strumentista eclettico e versatile, l’interesse per timbri inusitati.
Fin dalle prime esperienze compositive il canto, accompagnato da colori strumentali di prepotente originalità, fu l’elemento che guidò con naturalità l’ispirazione del giovane musicista alla cultura del melodramma. Rossini affrontò il teatro lirico con tale sprezzante sicurezza, con tale carica di novità e di indipendenza da poterlo sovvertire dalle radici senza subire il tormento della ricerca sperimentale, inventando una forma di comunicazione, incentrata appunto sulla vocalità, che resta tuttora senza uguali e senza continuatori.
Per forgiare questo rivoluzionario linguaggio estetico Rossini recuperò e riscrisse il canto artificiale dell’obsoleta tradizione belcantistica, un canto basato su elementi totalmente asemantici quali scale, arpeggi ascendenti e discendenti, successioni interminabili di terzine e quartine, vertiginose discese e ascensioni cromatiche, salti acrobatici, figure proprie della tecnica strumentale, di per sé gelide e insignificanti, poco inclini a descrivere gli accadimenti e le emozioni della vita reale. Con quel canto mai pretese di trasmettere i sentimenti che la nascente voga tardo romantica intendeva trasferire al palcoscenico teatrale direttamente dalla quotidianità, dove il dolore trovasse il conforto della lacrima, il torto invocasse la vendetta liberatoria, l’amore sconfinasse nell’effusione erotica, la passione degenerasse in ansioso turbamento, la contentezza ripiegasse nel riflesso della risata. Ciò non significa che il canto rossiniano sia incapace di far vibrare la corda della commozione patetica: poiché esso costituisce la chiave per penetrare in un altrove immaginario dove albergano eroi e semidei, lontano da quello abitato dalla gente comune, esso consente di ricreare emozioni adeguate alla statura dei personaggi evocati, enfatizzate da un processo di idealizzazione simile a quello che trasforma la prosa in poesia. Il canto viene ulteriormente impreziosito dall’aggiunta di un virtuosismo acrobatico stellare che impone una selezione spietata, giacché alla straordinaria difficoltà tecnica si aggiunge per il divo che lo affronta il compito imprescindibile di trasformare in emozioni e immagini pregnanti le inerti fioriture della scrittura belcantistica. Rossini ha scelto per il suo teatro molte storie improbabili e inverosimili, e le ha accompagnate con un discorso musicale poco consono a tratteggiare i percorsi psicologici e i comportamenti dei personaggi. Un discorso che rimette in auge la poetica degli “affetti”, ridestata a nuova vita da un vocabolario traslato e metaforico che, filtrato dall’ironia e reso enigmatico dall’ambiguità, giunge a toccare l’iperbole della follia e del nonsense.
Sorge a questo punto una domanda: l’elezione della vocalità belcantistica risponde a una precisa scelta ideologica, razionalmente meditata, o è stata imposta alla intuitiva superintelligenza del compositore da invalicabili limiti di una natura musicale asimmetricamente dotata e soggetta a condizionamenti riduttivi del processo creativo?
In altre parole, la musa ispiratrice avrebbe seguitato a dispensare tesori di pari valore anche se Rossini avesse scelto di seguire le tendenze emergenti e ricercato per i suoi melodrammi una verità drammatica simile a quella perseguita dai compositori venuti dopo di lui? Il suo ultimo capolavoro, Guillaume Tell, incentrato su un popolo contadino in lotta per la libertà e su un indomito condottiero, Guillaume, che ha abbandonato i coturni dell’eroe per vestire i modesti panni di un padre di famiglia, appare una sfida così ben riuscita da giustificare il sospetto che il Maestro potesse aver meditato l’ipotesi di intraprendere un nuovo cammino. Poiché una virata estetica di tale portata avrebbe inevitabilmente condotto all’abbandono dell’astrattismo artificiale del canto ornato ci si chiede se l’armamentario a disposizione del compositore fosse idoneo a consentirgli di addentrarsi nel labirinto del realismo veristico.
È possibile che i Pèchès de vieillesse siano il risultato di un laboratorio dove Rossini abbia sperimentato forme di composizione diverse dal melodramma per verificare la congruità della svolta ipotizzata. Se così fosse, potrebbe questo lacerante conflitto esser stato una delle ragioni che lo hanno spinto ad abbandonare la composizione operistica?
Il corpus dei Péchés de vieillesse dedicati al canto può certo contribuire a dare qualche risposta sensata a questi interrogativi. Le composizioni che lo compongono non hanno le dimensioni dei pezzi solistici delle sue opere; neppure presentano forme architettoniche che possano compararsi a quei prodigi di perfezione: si tratta per lo più di pagine d’album e romanze da salotto, tanto in voga nella Parigi della restaurazione; in qualche caso assumono la dignità del lied o, come nel tormentone dei “Mi lagnerò tacendo”, la melanconica funzione della confessione autobiografica. Il testo ispiratore non ha per soggetto un particolare affetto di natura poetica, ma descrive fatti e situazioni concrete, per i quali l’astrazione del belcantismo non vale. Di fatto solo sporadicamente Rossini riprende qualche lemma del corredo virtuosistico, per lo più preferendo ricorrere a figure musicali proprie della romanza vocale o a spunti della musica popolare.
Se si comparano queste composizioni vocali con quelle della tradizione liederistica di Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Schumann, il confronto rischia di lasciare la bocca amara. La qualità della melodia rossiniana raramente attinge la tensione spirituale, il sottinteso onirico, la vertigine della poesia. Rossini ha bisogno di grandi spazi, di storie emblematiche, di situazioni morali abnormi agite da superuomini e semidei, dove la retorica metafisica diventa linguaggio necessario e appropriato. Nelle romanze e canzoni che fanno parte dei Péchés si piangono pene che muovono il singhiozzo; si contempla la tristezza di un sorriso amaro, la disperazione di un gesto stanco, la tenerezza di una carezza materna; sfumature che i personaggi del teatro rossiniano, usi ai roboanti vocaboli dell’astrazione metafisica, di norma non conoscono.
La sintassi delle melodie che si leggono nei Péchés de vieillesse non è diversa da quella che Rossini impiega nel melodramma: melodie brevi, limpide e facili da ritenere e da intonare, composte da microcellule tematiche che si muovono prevalentemente nell’ambito della tonalità di partenza in giri armonici di elementare semplicità, collegate da intervalli diatonici e da salti moderati sovente limitati ai gradi fondamentali dell’accordo. È la lussureggiante fioritura dell’ornamentazione belcantistica incorporata nella struttura melodica di base che nelle opere liriche rende il discorso idoneo a piegarsi alla volontà dell’interprete, onde assolvere il compito espressivo richiesto dalla situazione teatrale. Questo arredamento, che nelle opere di altri compositori ricopre una secondaria funzione esornativa, in Rossini diventa essenziale dato di linguaggio e si trasforma in autentica paramelodia disposta a piegarsi a ogni emozione, anche di segno opposto, grazie al fastoso dispiegamento di artifici condotti a sviluppi estremi e usati con una fantasia e una intelligenza drammaturgica sconfinate. In questa sorprendente polivalenza espressiva si cela forse l’enigma della grandezza del compositore. Totipotenza del genio o miracolo di un mestiere sublime?
Perfino la ritmica, nei suoi melodrammi animata da un respiro tanto possente da trasformare l’iterazione più insistita in rapinoso incantesimo, in queste pagine dei Pèchès smarrisce l’immensa energia per ridursi a una quieta normalità: l’arma vincente del suo comporre, quella che rende vive e palpitanti opere di oltre quattro ore, arriva qui a sprigionare monotonia e stanchezza!
Anche nei Péchés si trovano pagine di eccelso livello: esse riguardano principalmente quelle composizioni dove il testo letterario ricorre a figure retoriche care a Rossini: il gioco del nonsense (Le Dodo des enfents, La chanson du Bèbè), l’ambiguità di un sorriso che cela il pianto (La fioraja fiorentina, Chanson de Zora, l’orpheline du Tyrol), la leggerezza del comico che allude al serio, (La regata veneziana, Un petit train de plaisir), l’allegoria spiritosa (Bolero tartare, Tirana alla spagnola (Rossinizzata), il richiamo del mito (Giovanna d’Arco)…
L’esperienza dei Péchés induce a qualche altra considerazione d’ordine generale sulla creatività rossiniana. La prima riguarda la qualità oggettiva della sua vena melodica: un esame impietoso di queste pagine ci conferma che Rossini non possiede l’inventiva melodica di Mozart, Schumann, Chopin, autori dove la stoffa impiegata nelle proprie opere è nutrita di temi bellissimi e carichi d’emozione, aperti a sorprendenti sviluppi e corredati da squisiti contorni armonici. La tematica rossiniana non conosce la profondità concettuale di Bach, né la determinazione eroica di Beethoven o la malinconica inquietudine di Schubert e Chopin. Più di tutti loro possiede però il dono di solari costruzioni formali, conseguite con mezzi di stupefacente semplicità, insufflate da un respiro poetico in grado di innalzare al rango di categoria assoluta gli avvenimenti narrati e i comportamenti dei personaggi.
Lo dimostrano i raggiungimenti supremi di Tancredi, L’Italiana in Algeri, Il barbiere di Siviglia, La Cenerentola, Otello, Mosè in Egitto, La gazza ladra, Ermione, La donna del lago, Matilde di Shabran, Maometto II, Semiramide, Il viaggio a Reims, Le Comte Ory, Guillaume Tell, risultati che solo il teatro di Mozart, segnatamente quello della trilogia dapontiana, arriva a superare sommando l’anelito spirituale propiziato dalla vocalità parabelcantistica con i piaceri e i godimenti sensuali del suo fervido melodizzare. Rossini arriva al cuore dei problemi morali e sentimentali affidandosi totalmente all’utopia belcantistica, riservando al vitalismo energetico del ritmo il compito di ricondurre a misura d’uomo la percezione del difficile teorema concettuale. La conquista dell’assoluto categoriale compensa la perdita della facoltà di produrre tensioni alla portata di tutti: con la sua musica, sempre imparentata con la bellezza e con un edonismo nobile e raffinato, non si ride e non si piange, ma il suo ascolto lascia l’animo ripieno di un’atarassica leggerezza che aiuta a vivere.
Alberto Zedda