Fonti
Le fonti dell’Incoronazione di Poppea sono poche: due soli manoscritti ne tramandano il testo musicale; uno Scenario, stampato per la prima rappresentazione veneziana, descrive luoghi e contenuti dello spettacolo; due libretti a stampa, pubblicati a Napoli nel 1651 e a Venezia nel 1656, riproducono il testo letterario, del quale esistono ancora parecchie copie manoscritte.
Le partiture, conservate l’una a Venezia e l’altra a Napoli, provengono da una stessa fonte: canto e basso generale, nelle parti comuni alle due versioni, coincidono sostanzialmente, anche nelle imprecisioni e negli errori.
È da escludere invece che l’una possa derivare dall’altra. Entrambe risalgono al decennio che segue la morte di Claudio Monteverdi. Le versioni che vi si leggono sono simili ma non identiche: le differenze aiutano a comprendere la natura dei codici e la prassi esecutiva del tempo, soprattutto per quanto riguarda la relazione compositore-interprete. La prima differenza riguarda la quantità della musica contenuta: nel codice napoletano vi sono più scene di quante se ne trovino in quello veneziano. La seconda riguarda l’elaborazione di Sinfonie e Ritornelli strumentali: nel codice napoletano sono a quattro parti, in quello veneziano a tre. La terza differenza riguarda l’impianto strumentale dei brani cantati, l’accompagnamento della voce: nel codice veneziano si trova soltanto il basso generale, con qualche rara cifratura, ma in quello napoletano si contano alcuni bellissimi esempi di canto solistico accompagnato da strumenti, uno dei quali riguarda uno stesso brano che nel codice veneziano figura per il solo basso continuo.
Inesplicabilmente questi brani con strumenti non hanno trovato la giusta considerazione da parte dei musicologi che si sono occupati della realizzazione orchestrale dell’opera. Pure essi costituiscono la prova inoppugnabile che il canto dell’Incoronazione, al tempo di Monteverdi, non era sostenuto unicamente dal continuo. Che nella fonte napoletana si trovino strumentate pagine che in quella veneziana figurano col solo basso continuo significa che l’elaborazione strumentale è opera del concertatore (Francesco Cavalli, responsabile della stesura della copia veneziana, non si sarebbe permesso di sopprimere frasi del grande maestro).
Monteverdi affidava dunque agli interpreti il compito di stabilire volta a volta i modi della realizzazione delle sue opere secondo i mezzi a disposizione e le situazioni contingenti?
Analisi delle fonti
Entrambi i manoscritti presentano una veste strumentale estremamente scarna. Se si eccettuano i brevi preludi e intermezzi, dove al basso si aggiungono alcune voci per strumenti, per gran parte dell’opera esistono soltanto il canto e il basso che lo sostiene.
Molti ritengono che il modo filologicamente corretto per interpretare un simile manoscritto debba essere quello del recitativo secco, che di fatto presenta una struttura morfologica affine. Nell’ambito del recitativo secco ogni revisore ha cercato di arricchire la sostanza dell’accompagnamento, moltiplicando gli strumenti da unire al basso.
Al clavicembalo e all’organo sono stati accostati regali e virginali, liuti e chitarroni, arpe barocche, cetre, tiorbe e simili col proposito di fornire colori al lunghissimo monologo vocale. Sono strumenti tratti da una tradizione che percorre tutta la storia del recitativo barocco, operistico e non; una tradizione che ha riguardato però singoli strumenti, o limitate combinazioni di essi, piuttosto che un loro largo uso d’insieme.
Il basso del manoscritto monteverdiano non procede con carattere uniforme, ma presenta andamenti antitetici: a tratti è chiaramente il basso di un recitativo secco, che invita a sovrapporre i rituali accordi; a volte diviene la voce grave di un discorso polifonico che niente ha da spartire col lessico del recitativo. Nel primo caso gli accordi del continuo non determinano una successione di formule riconoscibili, non costruiscono sequenze regolari. Nel secondo caso la struttura musicale che viene a formarsi sul tracciato del basso tende a ordinarsi in simmetrie organizzate, a sviluppare formule che non appartengono alla cultura del recitativo, ma che si riconoscono nei procedimenti del pezzo chiuso, sia esso un semplice arioso, una vera e propria aria, una canzone strofica, un duetto o un episodio concertante.
La contrapposizione fra il basso che tratteggia un recitativo estremamente libero e sezioni dello stesso basso che rimandano alla scrittura elaborata del pezzo chiuso suggerisce un diverso trattamento strumentale, cosicché il contesto del recitativo risulti separato da quello che accompagna la forma chiusa. Ciò deve farsi senza troppo marcare il confine fra i due momenti musicali, per non cadere nella rigida contrapposizione recitativo-aria che condurrà alla rivolta gluckiana.
Il basso del recitativo secco richiede una realizzazione prevalentemente accordale, dunque verticale, adatta alle tastiere; il basso che disegna forme organizzate suggerisce andamenti imitativi di tipo contrappuntistico, dunque orizzontali.
Anche restando nell’ambito degli strumenti del continuo si può passare da una scrittura essenzialmente accordale ad altra lineare e contrappuntistica, ma il controcanto che dialogherà con la voce umana difficilmente conseguirà sufficiente spessore, convincente equilibrio timbrico.
Per un tale accompagnamento meglio valersi di strumenti in grado di tenere i suoni, di legarli fra loro con fraseggio espressivo, di competere autorevolmente col protagonismo delle parti vocali.
L’esempio di un tal modo di procedere ci viene dai frammenti di canto con strumenti che si ritrovano nel codice napoletano (l’Aria di Ottone del primo atto, scena IX, battute 302-351; il Duetto Nerone-Lucano del secondo atto, scena V, battute 145-155; l’Aria di Amore, del secondo atto, scena XIII, battute 73-83). Questi frammenti, anche se brevi, sono sufficienti a mostrare come doveva essere l’accompagnamento del canto all’epoca della Poppea e a smentire la convinzione diffusa che il canto monteverdiano mai venisse accompagnato da strumenti che non fossero quelli del continuo.
Nel codice napoletano si incontrano ancora pagine che introducono parti strumentali in episodi cantati (Finale dell’atto terzo, Coro d’Amori, battute 311-315 e 323-327).
Che gli episodi vocali con strumenti siano pochi, confrontati con la mole dell’opera, è prova ulteriore che conforta quanti ritengono, come il sottoscritto, che i manoscritti della Poppea rappresentino una traccia di lavoro per il concertatore e direttore e non già la partitura d’orchestra vera e propria. Tali “particelle”, utilizzate dal concertatore, dal primo violino o dal maestro al cembalo per guidare l’esecuzione, sono state impiegate nella pratica esecutiva sino a quando il “direttore d’orchestra”, nell’accezione moderna del termine, ha riunito in una sola persona il compito del preparatore e del conduttore dell’esecuzione.
Quando il canto procede filato, non interrotto da battute di pausa, o quando l’accompagnamento non presenta spunti imitativi che si inseriscano a intervalli obbligati (ciò che avviene per la maggior parte dell’opera), il riferimento del canto e del basso è sufficiente per guidare l’esecuzione.
Quando il canto si interrompe per più battute per far posto a interventi strumentali, o quando questi interventi assumono andamento canonico o imitativo, e dunque devono essere intervallati da pause obbligate, il direttore dell’esecuzione deve avere sott’occhio il discorso strumentale completo per assicurare la corretta entrata delle voci e degli strumenti obbligati. È proprio quanto emerge dall’esame dei frammenti strumentali presenti nei codici della Poppea.
L’importanza di questi episodi strumentali è evidente: costituiscono il punto di partenza obbligato per chi si accinga a un lavoro di integrazione strumentale della Poppea fondato su una visione musicologica (si badi bene: musicologica, non filologica) tesa a recuperare la prassi esecutiva del tempo. Per quanto pochi e brevi, essi sono sufficienti a suggerire come doveva essere questo accompagnamento: la strumentazione proposta è sobria e contenuta, di carattere contrappuntistico e melismatico, e mai raddoppia la parte melodica della voce. Come in tutte le operazioni condotte su testi aleatori, dove l’intervento dell’interprete è ideologicamente previsto dal compositore, s’impone al revisore una delicatissima questione di gusto e di misura, che parta dallo studio e dall’assimilazione dei non molti documenti d’epoca.
L’ambizione è contenere l’arbitrio, agire in un ambito accettabile di legittimità, accarezzare la speranza di avvicinarsi al messaggio originario. Non per migliorarlo (per afferrarne la grandezza bastano il canto e il basso che ci sono pervenuti) ma per renderlo meglio accessibile a un pubblico disusato ad ascoltare la sublime intimità di un “recitar cantando” che, tratto fuori dalle stanze raccolte dei palazzi, chiede oggi di risuonare in teatri tanto più grandi e gelidi. C’è poi un altro elemento che viene a limitare il campo d’azione del musicologo: l’esigenza imprescindibile di conservare la percezione del testo cantato costringe a tessere un ordito strumentale di particolare trasparenza e levità.
Non una parola, non una sillaba deve andare perduta perché non venga meno il miracolo di un canto che ha annullato ogni disputa sulla priorità tra poesia e musica grazie a un’unicità di discorso che trasfigura la parola in gesto teatrale di straordinaria efficacia.
Da questo canto si devono ricavare il giusto suggerimento per il suo accompagnamento, l’appropriato invito al dialogo con lo strumento, la scelta del timbro e dell’impulso ritmico che lo sostiene e lo integra.
Il canto monteverdiano ha tale compiutezza di eloquenza e forza retorica, tale luminosità chiaroscurata, tale ricchezza di riferimenti che, a ben leggerlo e a ben intenderlo, contiene le allusioni e gli stimoli espressivi di una intera partitura d’orchestra.
Ancora un indizio importante a supporto di chi ritiene che i manoscritti della Poppea contengano soltanto le coordinate essenziali di un discorso musicale che doveva trovar compimento in occasione dell’allestimento dell’opera. Nel frontespizio del Sesto libro di madrigali, stampato a Venezia presso Ricciardo Amadino nel 1614 quando Monteverdi era già “Maestro di Cappella” in San Marco, viene specificato: “con il suo basso continuo per poterli concertare nel clavicembalo e altri strumenti”. Non è questa la situazione che si ritrova nei codici manoscritti dell’Incoronazione di Poppea?
La fonte da cui derivano i due manoscritti superstiti (l’autografo?) potrebbe contenere ancor meno suggerimenti esecutivi dei manoscritti ritrovati: potrebbe mancare, per esempio, la realizzazione di Ritornelli e Sinfonie.
Non si spiegherebbe altrimenti perché tale realizzazione sia diversa nei manoscritti di Venezia e di Napoli mentre coincidono altri frammenti strumentati (Atto II, Scena XII: la parte superiore della realizzazione del basso nei Ritornelli; Atto II, Scena XV: le ultime otto battute).
È possibile un’altra ipotesi: il codice non ritrovato avrebbe la realizzazione di Ritornelli e Sinfonie del manoscritto napoletano (di Monteverdi?). Francesco Cavalli, che è intervenuto sul codice veneziano (per concertarlo e dirigerlo?), ha ritenuto, per motivi che si possono soltanto arguire, di ridurre a tre parti l’organico di quei brani. Operazione facile per un musicista di tale portata, ma certamente negata a un normale copista. Questa ipotesi spiegherebbe anche perché la realizzazione del basso di taluni Ritornelli e Sinfonie è simile nei due codici (Atto I, Scena I: primo Ritornello; Atto I, Scena IV: primo Ritornello; Atto II, Scena V: Ritornello; Atto II, Scena VII: Ritornello; Atto II, Scena X: Ritornello). Se così fosse. il codice napoletano, già privilegiato per compiutezza e vetustà, si qualificherebbe ulteriormente nei confronti di quello veneziano.
Può apparire singolare che quello stesso Monteverdi che per l’Orfeo aveva tracciato una lussureggiante partitura, ricca di dettagli preziosi, si sia accontentato di una stesura sommaria per l’Incoronazione. Ma all’Orfeo è toccato il privilegio della pubblicazione a stampa, per cui l’autore è stato costretto a precisare una lezione esaustiva. Del resto, anche nell’Orfeo, Monteverdi lascia spazio all’intervento dell’interprete: le indicazioni strumentali che accompagnano Cori, Ritornelli e Sinfonie non suonano tassative, ma si limitano a informare, a suggerire aggregazioni sperimentate nelle rappresentazioni mantovane (“questo ritornello fu suonato da…”).
Se Monteverdi avesse personalmente curato la preparazione della prima veneziana del 1643, come era costume (e obbligo) dei compositori d’opera sino alla metà dell’Ottocento, le indicazioni mancanti negli scarni manoscritti della Poppea avrebbero certamente trovato posto nel materiale d’orchestra utilizzato per l’esecuzione.
È difficile credere che uno strumentista non addetto al continuo, un flautista, un violinista, sapesse improvvisare un contrappunto al canto e al basso (anche se gli esecutori del tempo, talvolta gli stessi autori dell’opera, avevano frequentazioni multidisciplinari oggi inimmaginabili). Probabile invece che i loro interventi venissero scritti direttamente sulla parte senza preventivamente ordinarli in partitura, come si faceva per le singole voci di un madrigale. Solo ritrovando le parti usate in una rappresentazione autentica della Poppea si potrebbe cogliere quella verità filologica che i manoscritti lasciano intravedere.
Sinfonie e Ritornelli
Abbiamo detto che la realizzazione del basso obbligato di Sinfonie e Ritornelli è diversa nei due manoscritti. La differenza non si limita all’elaborazione a tre o a quattro parti: diverso è anche l’atteggiamento creativo. Nel manoscritto veneziano i brani strumentali sono brillanti e comunicativi, e talvolta richiamano andamenti popolareschi e di danza; in quello napoletano sono severi, ossequienti alle regole del punctum contra punctum, cioè di un contrappunto poco fiorito, essenziale e scarno, talvolta duro e dissonante. Entrambi i manoscritti non precisano la natura degli strumenti che li devono eseguire, ma le chiavi dell’armatura e la scrittura lasciano ritenere che le parti fossero pensate per un quartetto d’archi: due violini, violetta e violone, soli o raddoppiati.
Non si può escludere tuttavia che a questi strumenti potessero sostituirsene o aggiungersene altri d’uso corrente, come flauti, oboi, dulciane, cornetti, clarine, bombarde, tromboni.
Scelte strumentali
I problemi affrontati dalla presente realizzazione strumentale della Poppea sono di ordine musicologico prima ancora che di prassi esecutiva. La partitura può essere indifferentemente interpretata con strumenti antichi o moderni: la scelta dipende dal gusto del direttore e dalle circostanze che determinano i modi e i luoghi delle rappresentazioni.
Un moderno teatro d’opera che vuol mettere in repertorio Monteverdi deve servirsi dei suoi complessi stabili e non può ricorrere a formazioni specialistiche esterne. Del resto, lo strumento corrente è in grado di rendere con proprietà ed efficacia una corretta traduzione del suono originale. Dipende dall’esecutore: si può suonare uno strumento moderno in ottimo stile antico o, al contrario, suonare incongruamente uno strumento d’epoca.
Importante è che l’opera di Monteverdi possa entrare nei normali teatri lirici e arrivare al pubblico degli appassionati. Non si tratta solo di recuperare alla coscienza popolare capolavori impareggiabili: la richiesta di mercato porterà i giovani che affrontano la carriera lirica a praticare un repertorio che inciderà positivamente sulla loro formazione e diverrà esperienza insostituibile per coniugare la parola in musica, coltivare la libertà del fraseggio, scandire il recitativo drammatico, ampliare la ricerca stilistica ed espressiva.
Una diffusa pratica monteverdiana condurrà a un miglioramento del gusto, aiutando la battaglia di quanti lottano per un teatro lirico moderno e colto che parta dal rispetto della volontà dell’autore per arrivare a restituire correttamente un ampio spettro di capolavori d’ogni epoca.
In queste rappresentazioni vengono impiegati strumenti che sono i diretti discendenti, il frutto della fisiologica evoluzione di quelli che Monteverdi utilizzava nella sua orchestra della Cappella Marciana: 2 flauti e ottavini, 2 oboi e corno inglese, 1 fagotto, 2 trombe, 3 tromboni, 2 clavicembali, organo portativo, arpa e archi.
Sinfonie e Ritornelli agli archi alternano legni e ottoni; molti brani vocali aggiungono al continuo una strumentazione sobria, imperniata principalmente su interventi solistici che dialogano in contrappunto a tre o a quattro voci con il canto e il basso obbligato. Archi e fiati scambiano i loro timbri, mai sommandosi fra loro, mai raddoppiando la linea del canto, lontani da ogni possibile riferimento all’orchestra sette-ottocentesca.
Costante è stata la preoccupazione di non creare fratture tra il fluire del recitativo accompagnato dal continuo (anche questo limitato agli strumenti base: 2 clavicembali, organo portativo, arpa, violoncello, contrabbasso, fagotto e trombone) e i brani strumentali.
Altra preoccupazione dominante è stata quella di frapporre fra il canto e il basso solo un trasparentissimo velo di sonorità strumentale, così da non penalizzare la percezione del testo né l’esigenza di recitarlo con la più grande libertà espressiva. Si aggiunga che la vocalità di Monteverdi, e la tessitura di molti ruoli, limitata al registro medio-grave, mai consentono un canto di forza e raramente il canto sfogato, pur ricorrendo frequentemente allo stile concitato. D’altronde è rispettando l’impianto tonale originario che si può apprezzare sino in fondo la stupefacente capacità di variare all’infinito le inflessioni di una melodia che si svolge generalmente nel ristretto ambito di una ottava e mezza.
Trasposizioni e cambiamenti (di cui pure si trovano abbondanti tracce nei due manoscritti sopravvissuti) renderebbero precaria la comprensione di un discorso tonale condotto con logica serratissima.
Problemi testuali
Per quanto riguarda le scelte testuali, la natura particolare dei codici della Poppea ha indotto a non seguire il criterio oggi prevalente di non mescolare versioni che riflettano differenti esperienze esecutive. Data la comune provenienza da una terza fonte, i manoscritti pervenutici non possono venir ritenuti due versioni autonome.
I brani che si trovano nel codice napoletano e non in quello veneziano possono essere nel manoscritto perduto, considerato che la gran parte di essi utilizza versi che sono nel testo di Busenello pubblicato a Venezia.
Poiché entrambi i manoscritti sono stati usati nella pratica esecutiva, alcune differenze risalgono certo a esigenze contingenti, determinate soprattutto dai cantanti a disposizione, taluni dei quali, come avviene anche oggigiorno, interpretavano più ruoli.
Per Ritornelli e Sinfonie, che vengono sempre replicati più volte, si è partiti dalla lezione napoletana, fonte primaria, utilizzando la versione veneziana, condotta sull’identico basso monteverdiano, nelle ripetizioni, intesa come variazione della precedente. Poiché la pratica di variare i Ritornelli era luogo comune, nessuna variante sarà pertinente quanto quella dovuta a un musicista d’epoca.
La Sinfonia che apre l’opera è quella del codice napoletano. Poiché della Sinfonia iniziale non è prevista la ripetizione, quella del codice di Venezia, bellissima, tratta dall’opera Erismena di Francesco Cavalli, è stata spostata a introdurre il lungo Finale dell’opera, altro brano sicuramente non composto da Monteverdi.
I pochi inserti i cui versi non trovano riscontro nei libretti pubblicati (le uniche fonti a stampa del dramma di Giovan Francesco Busenello) sono nel manoscritto napoletano, tranne uno, comune a entrambe le fonti: il notissimo duetto Poppea-Nerone “Pur ti miro”, che conclude l’opera. Una sola scena (la quinta del secondo atto, Valletto-Damigella) risulta diversa nei due manoscritti: la lezione veneziana appare abbreviata (da Cavalli?) rispetto al testo dei libretti e rimaneggiata nella sostanza musicale, con inserti anche di pregio.
Molte pagine, anche comuni ai due manoscritti, sono di incerta attribuzione. Lo prova la discordante morfologia musicale, il diverso codice stilistico, l’ordine di grandezza dei valori. Taluni studiosi ritengono l’Incoronazione il lavoro collettivo di una “bottega monteverdiana” particolarmente fervida; altri avanzano ipotesi più circostanziate circa l’attribuzione di questo o quel brano. Monteverdi era vecchio, forse già malato: potrebbe avere avuto bisogno di aiuto e certo non gli sarebbero mancati allievi devoti, felici di lavorare accanto al più grande e acclamato compositore del tempo.
Colpisce particolarmente la storia del “Pur ti miro”, il bellissimo duetto che chiude l’opera. Come si è detto, il testo del duetto manca nei libretti a stampa della Poppea, mentre è stato ritrovato da Lorenzo Bianconi nel Finale dell’opera il pastor fido di Benedetto Ferrari, della quale si conserva il libretto, ma non la musica. Lo stesso testo riappare in un’opera di Filiberto Laurenzi, Il trionfo della fatica. Anche di questa conosciamo il libretto ma non la musica. Potrebbe darsi che il testo del Ferrari sia tanto piaciuto da indurre altri compositori (Laurenzi, ma forse anche Monteverdi) a rivestirlo di nuova musica.
L’esecuzione
L’opera viene presentata dalla Scala in versione pressoché integrale. Sono state espunte talune pagine del codice napoletano (la cui attribuzione a Monteverdi appare più che dubbia), non particolarmente felici dal punto di vista musicale e scarsamente significative sul piano letterario e drammaturgico. L’eccezionale lunghezza comporta qualche pericolo: la prevalenza di un “recitar cantando” che poggia principalmente sul sostegno del continuo (anche se di un continuo qui arricchito da timbri di archi e fiati), l’ambito tonale limitatissimo, il giro armonico ristretto e poche formule ricorrenti, la frequenza degli spunti ternari, il colore uniforme delle tante voci femminili sono elementi di rischio che la genialità creativa di una linea vocale di indicibile varietà e pregnanza riscatta. Una linea vocale che sostanzia il bellissimo ma arduo testo poetico – infarcito di immagini metaforiche difficili da cogliere al primo ascolto – con un gioco di rimandi espressivi che ne moltiplicano il senso.
All’interprete è consentito raramente, e quasi soltanto nelle cadenze, di alterare con variazioni e fiorettature un tracciato vocale che pur nella grande libertà agogica pretende un’esecuzione ritmicamente rispettosa delle multiformi figurazioni.
La vocalità
Le scelte vocali rispettano scrupolosamente l’indicazione della chiave che arma il pentagramma di ciascun personaggio, con una sola importante eccezione. Il ruolo di Nerone, in chiave di soprano, era presumibilmente destinato a un castrato. Oggi dovrebbe dunque venire assegnato a un soprano in grado di rendere gli istrionismi di un personaggio che trascolora da atteggiamenti caparbiamente infantili a grandezze regali, da meschine rivalse a fervidi e ispirati slanci d’amore.
Si è preferito invece, accogliendo il suggerimento di Nino Pirrotta, un tenore, sia pure con caratteristiche vocali molto particolari come quelle di William Matteuzzi.
In un importante e documentato saggio pubblicato in memoria di Fedele D’Amico nei Quaderni della “Rivista Italiana di Musicologia” (n. 25, Olschki, Firenze 1991) Pirrotta espone il suo convincimento che il ruolo di Nerone possa essere stato pensato per voce di tenore. L’ispirazione è partita dall'”aver ascoltato con diletto”, in una pregevole edizione fonografica dell’Incoronazione di Poppea, la scena dell’atto secondo in cui Nerone, tolto di mezzo con la morte di Seneca ogni ostacolo al suo volere, si abbandona estatico a cantare con Lucano il proprio amore per Poppea. L’ascolto gli ha richiamato la “predilezione monteverdiana per i duetti tenorili, così evidente nei madrigali degli ultimi due libri”. “Come possiamo pensare”, aggiunge Pirrotta, “che Monteverdi avesse ceduto già allora all’idolatria per le voci bianche dei cantori evirati che doveva poi caratterizzare la storia dell’opera fin quasi alle soglie dell’Ottocento?”. E più avanti: “Nerone è uomo fatto, imperatore e amante sensuale di Poppea; sarà mai possibile che Monteverdi, in contrasto con l’urgenza di verità e verisimiglianza che lo spingeva a portare per la prima volta sulla scena un soggetto storico, abbia voluto farlo imbelle ed effeminato, stranamente innovando in un tempo in cui i protagonisti maschili non conoscevano ancora eccezioni? È ben risaputo che la partitura dell’Incoronazione, nell’una e nell’altra delle versioni discordi che ne rimangono, subì notevoli alterazioni e intrusioni, una delle quali potrebbe essere stata l’innovazione di dare la parte di Nerone a un “primo uomo”. Non lo sapremo forse mai di sicuro, ma basta trasportare tutto il suo canto all’ottava bassa per restituirlo al registro di tenore con una tessitura di undecima, da re a sol, quale era più o meno quella degli altri protagonisti tenorili sulle scene veneziane di allora”.
Il ruolo del Valletto, come quello di Amore, è affidato a una voce femminile, invece che al fanciullo della tradizione, oggi così difficile da reperire: sarà più naturale la freschezza maliziosa di un approccio d’amore turbato e innocente che si oppone ai giochi complicati della calcolatrice Poppea. Ancora la tradizione attribuiva a voci maschili taluni ruoli femminili di carattere, come quelli di Arnalta e della Nutrice, per accentuarne gli aspetti caricaturali. Questa sottolineatura farsesca che fa torto al personaggio e nuoce alla nobiltà dello spettacolo è stata evitata.
Come affidare a un tenore buffo la sublime ninna-nanna che Arnalta sussurra a Poppea dormiente alla fine del secondo atto – una pagina di altissimo segno, fra le più belle dell’opera?
Gli altri ruoli seguono la tradizione, coincidente con la lezione delle fonti. Anche il Coro rispetta la prassi originaria che lo affidava unicamente ai solisti, come documenta lo Scenario con la trama e le indicazioni scenografiche e registiche stampato in Venezia nel 1643 in occasione della creazione dell’opera.
La tessitura delle voci dell’Incoronazione è incentrata in un registro medio-grave che crea qualche difficoltà sia nel canto di garbo, alla naturalezza del legato d’agilità, sia nel canto concitato, alla forza e all’accento dell’emissione. La ragione va cercata anche nel fatto che il diapason, all’epoca di Monteverdi a Venezia, era almeno un tono più alto di quello odierno (alcuni studiosi assicurano: oltre un tono e mezzo). Per ritrovare una situazione filologicamente corretta, di grande aiuto all’interprete vocale, bisognerebbe dunque eseguire tutta l’opera un tono più alto. Decisione non facile, anche per i problemi tecnici che pone.
La scelta di cantanti non particolarmente specializzati nel repertorio barocco ha significato il netto rifiuto di un canto a suoni fissi, senza vibrato, ritenuto sovente quello stilisticamente appropriato alla vocalità monteverdiana.
Rodolfo Celletti, in un saggio pubblicato nel progranna di sala che accompagnava una rappresentazione dell’Incoronazione di Poppea al Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, che è stata l’antesignana della presente edizione, ha magistralmente dimostrato, con dovizia di citazioni e documenti, la falsità di questi convincimenti. Scrive Celletti: “È ferma convinzione di alcuni studiosi del periodo barocco e di diversi direttori stranieri che curano le esecuzioni monteverdiane che la tecnica di formazione e di emissione del suono fosse, nel Sei-Settecento, diversa da quella entrata nell’uso nel primo Ottocento” e che prima di Rossini e dei protoromantici “sarebbe prevalsa un’emissione che rendeva il suono fisso e ne limitava la portata e lo squillo, curando che fosse dolce”.
Al contrario, “esistono molte testimonianze che nel tardo Seicento la scuola vocale italiana aveva già acquisito suoni potenti e squillanti per tutti i tipi di voce”, testimonianze che Celletti cita e commenta. E più avanti: “La voce fissa, vanto degli esecutori del falso barocco, è viceversa, per dirla con parole del Perrucci, ottusa (cioè stimbrata), vitrea e spesso stonata… affogata nelle fauci (cioè nella gola), evitando l’intervento amplificatorio della cavità superiore di risonanza… Altre falsificazioni riguardano il canto d’agilità: il Mancini, la cui educazione vocale risale al 1720 circa (scuola bolognese del Bernacchi), raccomandava, nei passaggi vocalizzati, suoni graniti e vibrati (altro che fissi e flosci!) emessi in modo che ognuno avesse un nitido spicco, ma senza che venisse meno il legato tra l’uno e l’altro”.
C’è invece chi preferisce “la cosiddetta agilità aspirata, tipica d’altronde di chi non sa cantare d’agilità.
Secondo il Tosi (1723), questo è il modo più ridicolo di eseguire un passaggio vocalizzato giacché l’effetto “è come se si cantasse ga, ga, ga o ghe, ghe, ghe… Secondo il Mancini, questo tipo di vocalizzazione era definito sgallinacciare. Secondo il Metodo del Conservatorio di Parigi (1804), la definizione era chevrottement, cioè imitare il belato di una capra”.
Si è rinunciato all’impiego del contratenore che molte volte viene proposto per i ruoli previsti originariamente per il castrato. Scrive sempre Celletti: “Coloro che abusivamente si sono appropriati la qualifica di contratenore non hanno nulla a che vedere né con il contratenor della polifonia del XIV secolo né con il contertenor o hautecontre, termine che designava tenori che cantavano con voce piena e squillante, salvo ad emettere in falsettone gli estremi acuti. Sono semplicemente l’equivalente di quei falsettisti (detti falsettisti artificiali) che nel Quattrocento e Cinquecento cantavano con voce bianca a causa del divieto alle donne di esibirsi nelle chiese.
Quando comparvero i castrati, ovvero i falsettisti naturali, i falsettisti artificiali – cioè coloro che oggi si sono autonominati contratenori – furono estromessi in massa dalle cantorie delle chiese o basiliche più importanti d’Italia, a cominciare dalle cappelle papali…
Il pretesto con il quale i falsettisti artificiali sono stati da qualche lustro introdotti nelle opere del Sei-Settecento è quello che le loro voci sarebbero le più idonee a sostituire i castrati. Non è minimamente vero. La voce del castrato conservava molte caratteristiche infantili, compreso il suono pieno e brillante (voce detta di petto) delle note centrali. Gli odierni falsettisti artificiali, invece, proprio perché usano il falsetto, hanno note centrali debolissime…
Mai nel Sei-Settecento i falsettisti artificiali furono ammessi a eseguire opere: in mancanza dei castrati, subentrarono donne in abiti maschili”
Nell’esecuzione scaligera la voce calda e vibrante del contralto canterà la malinconia di Ottone, le pene di un amore incancellabile che oscilla dall’odio assassino all’esaltazione sublime, dal desiderio struggente al sarcasmo volgare.
Più in generale, dalle rappresentazioni di questa Poppea si potrà giudicare se e quanto sia consentito a un cantare moderno coltivato e disciplinato di piegarsi a uno stile tutto da reinventare.
Alberto Zedda