È motivo d’orgoglio, ma anche di responsabilità, il privilegio di includere nella programmazione di questo Festival la prima esecuzione della versione per orchestra della Petite messe solennelle nell’edizione critica recentemente data alle stampe dalla Fondazione Rossini. La partitura è corredata da un ricco apparato critico che accanto alle note riservate alle specifiche scelte testuali del revisore accosta gran quantità di informazione documentaria e di riflessioni musicologiche. Si tratta, com’è noto, della rielaborazione per grande orchestra di quella stessa Petite messe solennelle eseguita nel 1863 per pochi eletti spettatori nella dimora del committente e amico, il banchiere Conte Alexis Pillet-Will, concepita per un piccolo organico di dodici cantori (quattro voci soliste e otto di ripieno), due pianoforti e armonium. L’armonium ha la funzione di ammorbidire le scarne scansioni del pianoforte, oltreché di fornire un colore sacrale a pagine che tendono a sconfinare nel profano per scelte ritmiche e timbriche che richiamano cadenze popolari della musica novecentesca, provvedendo all’accompagnamento della parte vocale il sostegno secco e puntillistico di tastiere innovativamente trattate come strumenti percussivi. L’organico è stato certo condizionato dalla destinazione della Messa, ma non è impossibile ipotizzare nell’elezione del compositore anche la consapevolezza di dar veste originale all’estremo appuntamento con la fede di un laico che ha mescolato le soddisfazioni più grandi con la disillusione del fraintendimento e il dramma del silenzio compositivo, non disposto a rinunciare fino in fondo al proprio spregiudicato scetticismo.
Le ragioni che in seguito hanno spinto Rossini a dare a questa composizione una veste strumentale diversa da quella d’origine, sì da alterarne radicalmente il risultato espressivo, sono motivo di infinite congetture, nessuna delle quali confortata da esauriente documentazione, anche se molte fonti inducono a credere che Rossini avesse presto maturato il proposito di redigerne una versione a grande orchestra. L’opportuna decisione della Fondazione Rossini di riunire in un unico cofanetto entrambe le versioni di questa criptica composizione consente al curatore dell’edizione, Davide Daolmi (e a noi), una serie di comparazioni deduttive che trovano immediato riscontro nelle pagine del testo pubblicato e nel volume di commento che l’accompagna. L’accurato esame genetico delle fonti attesta come il compositore sia ritornato più volte sul manoscritto della prima versione cameristica per ampliare il progetto originario e inserirvi le aggiunte introdotte nella fase di strumentazione dell’opera. Con questi ritocchi Rossini statuisce l’assetto definitivo dell’ultima lezione orchestrata, ma riportandoli accuratamente anche sul manoscritto della versione cameristica, viene a sminuire l’autonoma specificità della redazione primigenia, ridimensionata a una riduzione di quella sinfonica. Lo confermerebbero le parole da lui scritte in una lettera del 1866 all’amico Ferrucci per sollecitarlo, come in precedenza aveva fatto con Liszt, a intervenire presso Papa Pio IX affinché revocasse il divieto per le donne di cantare in chiesa. Nel corso di detta lettera il Maestro accenna a una “messa solenne” (omise “piccola”) con “accompagnamento provvisorio” di due pianoforti (omise “e harmonium”) che si sarebbe potuta eseguire quando uomini e donne avessero potuto prendervi parte congiuntamente. Sorprende la qualifica di “provvisorio” affibbiata a un organico che costituisce il tratto genialmente singolare di un’opera d’arte divenuta eccelsa forse a dispetto del suo autore.
Il curatore dell’edizione critica pubblica su questo stesso programma di sala un pregevole saggio nel corso del quale invita a ripensare la cifra interpretativa della versione sinfonica della Petite messe, da meglio considerare “una composizione intima, da eseguirsi nell’alcova protetta e riverberante di una chiesa”. A suffragio di questa interpretazione stanno inequivocabili scelte del compositore, quali l’inclusione dell’organo fra gli strumenti dell’orchestra e la prescrizione ai quattro solisti di cantare in unione col coro. Impostare una esecuzione solo destinata a uno spazio propizio allo spiritualismo religioso condurrebbe alla scomparsa della Messa, dato che chitarre e batterie hanno scacciato dal tempio ogni sorta di musica sacra. Né potrebbero supplire luoghi concertistici dove è raro incontrare un grand’organo capace di assolvere le richieste timbriche pretese dal Prélude religieux, per tacere della difficoltà di unire al coro i quattro importanti solisti richiesti.Le vagheggiate scelte intimistiche si scontrerebbero con esigenze pratiche che vanno in direzione contraria a una visione raccolta dell’opera, dando origine a una serie di ardui problemi interpretativi, puntualmente rilevati da Daolmi, che concernono “il rapporto soli/coro, l’equilibrio fra le sezioni dell’orchestra, l’equilibrio fra orchestra e coro”. Quale mistico intimismo è possibile di fatto conferire a una compagine orchestrale che assembla la più ampia raccolta di strumenti mai impiegata da Rossini nella sua vasta produzione operistica? E che significato attribuire alle prescrizioni di ff, fff, Tutta forza che si incontrano frequentissime nella partitura della Messa? Colpiscono in particolare i fff, un colorito dinamico adoperato dal Maestro con estrema parsimonia.
Ritengo che la decisione di far cantare i solisti insieme al coro sia un riflesso condizionato derivato dalla prima stesura cameristica, pensata per dodici vocalisti, dove i quattro solisti non avrebbero difficoltà a riunirsi coi colleghi nei passi concertanti del “tutti”. Rossini, infatti, all’inizio della partitura che accoglie questa prima stesura scrive chiaramente “Les 4 voix Solo avec le Choeur”. Un po’ diversa la situazione prospettata dalla partitura della versione a grande orchestra, dove nell’elenco che statuisce la disposizione di voci e strumenti Rossini scrive all’inizio del Kyrie, del Gloria, del Cum sancto Spiritu e del Credo, in corrispondenza dei quattro pentagrammi assegnati alla parte vocale, “Choeur et Soli ensemble”, prescrizione che un ottimistico wishful thinking potrebbe leggere Le parti del Coro e dei Soli vengono inscritte sullo stesso pentagramma, lasciando alle successive indicazioni di Solie Tutti il compito di precisare quando deve cantare il coro e quando i solisti. Una lettura sicuramente forzata, che non nasce dall’ermeneutica linguistica, ma che corrisponderebbe alla prassi esecutiva sempre applicata a questa versione della Messa fin dalla sua prima apparizione. Da quella prima esecuzione a tutt’oggi i solisti vengono reclutati al di fuori del coro, ricercando voci e personalità di spicco che forzatamente verrebbero a confliggere con quelle dell’insieme corale. Sarebbe difficile conseguire che un solista di cartello cantasse ininterrottamente l’intera opera, affrontando senza riposi il difficile appuntamento dell’aria solistica. Sono convinto che Rossini, sollecitato dall’enorme consenso conseguito dalla Petite messe battezzata in casa Pillet-Will e consapevole del suo oggettivo valore, abbia subito accarezzato il proposito di assicurare alla sua ultima opera sacra un destino più alato di quello in genere riservato a una composizione cameristica. Da qui l’esigenza primaria di ingrandirne gli organici strumentali e vocali, un compito che Rossini portò avanti con ostinata meticolosità negli ultimi anni d’esistenza e che forse la morte interruppe prima del totale compimento. L’oggettiva risultanza di una strumentazione ricca e fragorosa attesta la volontà del Maestro di pensare in grande, ma perseguire un edificio musicale possente mantenendo inalterate la struttura minimale del progetto iniziale e le prescrizioni interpretative pensate per un’opera di francescana frugalità sembra decisione azzardata.
Per questo mi piace immaginare che se la nuova versione della Messa fosse giunta al traguardo dell’esecuzione lui vivente, Rossini vi avrebbe apportato delle modifiche: eliminare l’ossimoro del titolo, togliendo l’aggettivo petite come nella sopracitata lettera a Ferrucci; strumentare per l’intera orchestra il Prélude religieux, rimasto assegnato all’organo solo, per aumentare la carica espressiva di una pagina sublime; sopprimere nella partitura la parte dell’organo, pleonastica quando non dannosa, perché inquina lo splendore di un ordito strumentale lussureggiante e ne accresce pericolosamente il volume; esplicitare l’opportuna prassi che sconsiglia ai solisti di raddoppiare le parti assegnate al Coro; ridurre, infine, drasticamente le prescrizioni di ff, fff, Tutta forza, sostituendole con altre più consone all’atmosfera evocata dal rito. Con la nota sapienza di strumentatore ardito e avanzatissimo, Rossini ha saputo dare all’orchestra il colore e il respiro congrui ai grandi oratori sacri, ma ha lasciato inalterate le parti vocali che aveva concepito per un gruppo limitato di vocalisti chiamati a interpretare l’opera in un piccolo ambiente, tanto diverso dagli spazi destinati ad accogliere la rinnovata Messe solennelle. La presenza dell’organo nella trama di una partitura tanto più fitta di quella di tante composizione sacre che l’hanno preceduta, oltre a ricercare una cifra ecclesiale al contesto, è logica conseguenza del suo impiego nel Prélude religieux, onde non sorprenda l’improvviso ascolto di un timbro così fortemente connotato. Tuttavia due argomentazioni pratiche ne sconsigliano l’inserimento in organico: la densità di legni e ottoni e la massa d’archi che essa comporta attenuano fortemente la percezione di questo timbro; la natura della parte assegnatagli, un puro e semplice raddoppio di quella degli strumenti a cui si accompagna (che Rossini significativamente colloca nei due ultimi pentagrammi inferiori, come si usa per il continuo), ne riducono la funzione a un pleonastico collante armonico fautore di un discutibile aumento di sonorità. Sono le ragioni che, dopo anni di esitazione, mi hanno indotto a strumentare questa superba meditazione spirituale. Il Prélude inizia con un tema fugato che la tradizione classica vorrebbe enunciato da un solo strumento: esclusi taluni archi, nessuno degli strumenti adoperati da Rossini nelle sue opere sarebbe stato in grado di esporre interamente questo tema, che dall’acuto al grave spazia per una estensione di insolita ampiezza. Se non fosse sopravvenuta la morte, il Maestro avrebbe probabilmente trovato il modo di ricorrere a qualche Corno di bassetto (o Clarinetto di bassetto) acconciati all’uopo. Oggi il Clarinetto basso (e il Saxofono tenore, che Rossini aveva da poco conosciuto visitando la fucina del suo inventore, Adolphe Sax) possono farlo egregiamente, fornendo il colore appropriato a questa pagina sublime.
Abbandonata l’astrazione del belcantismo, Rossini prima di congedarsi dal mondo dimostra di aver compreso e assimilato i postulati del canto romantico che l’aveva indotto a lasciare la scena teatrale, anche se continua a rifiutarsi di applicarli alle azioni dei suoi personaggi. Il testo latino della liturgia cattolica, simbolico e cifrato, lo mette al riparo dalla retorica sentimentale, consentendo libero sfogo all’emozione, come aveva fatto musicando l’intensissimo testo dello Stabat Mater, l’altro suo capolavoro sacro. La Petite messe solennelle risulta lo straordinario dialogo col trascendente di un agnostico che non accoglie la consolante rassicurazione della fede, ma che con la lucidità della ragione idealizzata dall’arte, arriva a dar conto di come la fede possa accendere soprassalti di amore e ribellione capaci di segnare il cammino dell’uomo verso l’ignoto, ma anche di aiutarlo a raggiungere un’atarassica serenità in questo mondo. L’aggettivo “piccolo” contrapposto impropriamente al “solenne” vuol significare che il “maestoso” tema della fede viene affrontato senza alterigia da un “piccolo” uomo che, rinunciando all’ebbrezza dell’astrazione mistica e senza previamente chinarsi a timoroso ossequio, cerca di stabilire con l’Essere un rapporto di fiducia e speranza, foriero di pace e di terrena felicità.
Il Kyrie che apre la Petite messe è permeato da una quieta allegrezza che predispone all’esultanza del Gloria e alla maestà del Credo. L’andamento processionale impresso da una scansione ritmica rossinianamente insistita, leggera e insieme carica d’energia, gli conferisce subito un’aura popolare, moderna e profana, una cordialità estranea alla paludata tradizione della musica religiosa, per regola tesa a tracciare un solco fra umano e divino. Anche il Christe che separa i due spezzoni dell’inno evita ambiziosi messaggi: Rossini rinuncia a comporlo e ne adatta le parole a un breve, intenso coro a cappella di un collega, Louis Niedermeyer, amicale postumo omaggio reso pubblico nel giorno del primo anniversario della morte. Al grido esultante del “Gloria in excelsis Deo”, innalzato dal coro solo e marcato dal giubilo perentorio degli ottoni, segue la supplica dell’ “Et in terra pax hominibus”, motivo fondante che, divenuto protesta nel drammatico Agnus Dei, concluderà la Messa tramutando l’ossequio in desolato interrogativo. Per affermare la duplice natura del suo atto di fede, all’abbagliante esplosione del Gloria Rossini fa seguire uno straordinario episodio, dove sopra l’opaco mormorio dell’intera orchestra in pianissimo si levano, senza un ordine apparente, le straniate esclamazioni dei fedeli “Adoramus te”, “Benedicimus te”. La sopita ispirazione teatrale riemerge quando decide di sospendere, subito dopo le prime parole del Gloria, la voce collettiva del coro (che tornerà soltanto nella chiusa dell’inno sacro) per inanellare una serie di brani solistici (un terzetto, un duetto e due lunghe arie) di natura inequivocabilmente lirica, a conferma di una religiosità dove la transumanazione mistica lascia spazio a emozioni e sentimenti quotidiani. I personaggi si rivolgono alla divinità con immediatezza e il canto genera confidenza, giocondità, fiducia: vien da pensare alla pagana complicità dell’innamorato che invoca Venere, del contadino che supplica Cerere, dello studente che si affida a Minerva, del guerriero che si appella a Marte… Solo quando la riflessione torna collettiva, col rientro del coro nel Cum sancto Spiritu, il discorso torna alto, nobilitato dalla maestà del contrappunto polifonico e dalla sapienza dello sviluppo fugato; dottrina e ispirazione si fondano per plasmare il capolavoro. Vi si avverte un segnale misterioso e inusitato: Rossini, così devoto al periodare classico delle quattro, otto, dodici battute regolari, propone per l’esposizione fugata di questo architrave conclusivo un tema asimmetrico di sette battute, esattamente come avverrà più avanti, alla fine del Credo nell’ “Et vitam venturi saeculi”, altro possente intervento corale impiantato sul medesimo schema formale. Entrambi gli episodi sono animati da uno swing ritmico eccitato e leggero che induce a una gioiosa esaltazione, cifra precipua di questa messa, lontana dalla severità luterana quanto dall’algido formalismo del rito cattolico.
Il “Credo in unum Deum” riconduce il discorso al cuore dei ragionamenti sulla fede. L’anonima collettività del coro non ha dubbi nel proclamare l’incrollabile adesione al dettato escatologico del Simbolo niceno: ogni paragrafo del testo viene suggellato dall’esclamazione Credo, scandita dal coro e dall’orchestra con la stessa bruciante figurazione ripetuta innumerevoli volte, una soluzione musicale di straordinaria efficacia che scolpisce l’assoluto di una fede senza fessure. Quando però il soggetto dell’inno affronta il nodo scabroso dell’ “Et Verbum caro factum est”, il coro, portatore di certezze, ammutolisce e la parola passa ai solisti, ai quali Rossini assegna un percorso melodico di incerta definizione tonale, gravida di scontri dissonanti che rendono difficile l’intonazione e l’ascolto, chiaramente volto a esprimere il disagio della ragione a sottoscrivere l’identità divina del figlio di Maria. All’evocazione del sacrificio di Cristo lo scetticismo cede il passo alla pietà, e Rossini affida all’arioso del soprano “Crucifixus etiam pro nobis” palpiti di commozione, risvegliando l’antica sapienza di cogliere senza lacrime il dolore universale. Tocca al coro e alla sua adamantina certezza rassicurare il dubbioso e riaccendere la fiamma della fede proclamando il dogma dell’ “Unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam” per guidare l’adepto alla speranza di una “Vitam venturi saeculi”.
Dopo riflessioni così inquietanti si impone la pausa del Prélude religieux, una pagina pianistica precedentemente inclusa fra i Péchés de vieillesse che trova qui collocazione ideale, anche per concedere un riposo al coro duramente impegnato nel precedente Credo e nel successivo Sanctus, a ennesima riprova che gli autoimprestiti di Rossini nascono dalla convinzione che nella nuova collocazione i brani trasposti meglio arrivino a liberare la carica espressiva racchiusavi. Questa inquietante pagina, che anticipa il cromatismo di César Franck, invita a un iniziatico viaggio alla ricerca di una verità inafferrabile e prepara la celestiale parentesi del Sanctus, affidato alle sole voci “a cappella”, dove coro e solisti, non più fra loro disputanti, raggiungono lo stato di grazia che l’abbandono alla contemplazione della bellezza assicura a tutti gli esseri umani, credenti e non credenti. L’aspirazione alla pace, indispensabile per dar senso alla condizione umana, trasforma la supplica in grido di ribellione e di rifiuto: sono le donne ad innalzarlo, con l’autorità di chi ha il compito di forgiare la vita; dapprima il soprano, che nell’appassionato O salutaris hostiachiede aiuto per allontanare i bellici clangori che si avvicinano; poi il contralto, che nel drammatico Agnus Dei, una delle più sconvolgenti pagine di Rossini, alternandosi al coro nell’invocazione del «Dona nobis pacem» abbandona il rispetto della supplica per trasformarla in disperata implorazione, in sfrontata rivendicazione di un diritto irrinunciabile.
La strumentazione a grande orchestra muta profondamente il sound della Petite messe, conferendogli una colorazione tardo-ottocentesca, ennesima dimostrazione della straordinaria capacità della sua musica di assumere sembianze e valenze molteplici anche solo modificandone aspetti complementari (qui il tessuto strumentale e lo spessore delle parti vocali d’insieme). L’accompagnamento a piena orchestra aggiunge respiro e potenza, sicché il canto si dilata in echi sacrali di grande solennità; le chiuse fugate degli “Amen” attingono grandiosità e splendore; l’accresciuta pompa esalta le immagini esoteriche del culto. Si attenua però irrimediabilmente quell’intimo e sommesso dialogo con la divinità, così confidenziale e autentico, franco e disinibito, che la dimensione cameristica favorisce e che costituisce il dato straordinario di quest’opera senza eguali. Alcuni brani risultano valorizzati, derivando dalla nuova strumentazione espansione e magniloquenza: è il caso delle arie per tenore, “Domine Deus”; per basso, “Quoniam tu solus sanctus”; e per contralto, “Agnus Dei”, dove il canto fonde stilemi di varia natura, accostando pallide reminiscenze del canto virtuosistico a slanci melodici di pregnante emotività, testimoni di un’attenzione alle istanze del romanticismo trionfante che la spiritualità del soggetto sacro salvaguarda dal rischio di turbare sentimenti idealizzati. Le perentorie affermazioni del Gloria e del Credo acquistano dal tutti orchestrale la giusta possanza e le campate conclusive degli “Amen” una proiezione stellare, anche se nel Kyrie d’inizio violoncelli, contrabbassi e fagotto non restituiscono l’asciutta secchezza delle ottave del pianoforte. Non sono soltanto le pagine di forte carica retorica ad avvantaggiarsi dei mille colori dell’orchestra rossiniana: anche quelle tenere e sommesse trovano nella morbidezza degli archi e nella saporosità dei legni soluzioni espressive cattivanti. La scrittura pianistica della versione cameristica condiziona a volte la trama orchestrale, come nel duetto “Qui tollis peccata mundi” del soprano e contralto, dove due arpe riprendono alternatamente gli arpeggi del pianoforte con l’appoggio tetico degli archi pizzicati mentre clarinetti e fagotti riproducono, con pari dolcezza, i suoni tenuti dell’armonium; o nel “Crucifixus etiam pro nobis” del soprano, dove l’espressivo e costante disegno del pianoforte passa ai soli archi, che lo continuano inalterato per tutto il pezzo, mentre i legni riprendono le lunghe note dell’armonium; o ancora nell’O salutaris hostia, sempre del soprano, dove il pianoforte è ora reso dagli archi con sordina che conseguono soavità e morbidezza impareggiabili. Sorprende, invece, la decisione di affidare l’ineffabile Prélude réligieux al solo organo, dato che questo lungo interludio affrancato dal compito di accompagnare il canto sembrerebbe particolarmente adatto a recepire un discorso strumentale che armonizzi il rapporto fonico con i pezzi che precedono e seguono. La scelta di Rossini viene infatti a determinare un radicale e imbarazzante contrasto di sonorità: per gli otto minuti del Prélude religieuxe per i quattro minuti del successivo Sanctus, destinato alle sole voci del coro a cappella, i professori d’orchestra depongono gli strumenti, che riprendono soltanto per gli ultimi due numeri, O salutaris hostiae Agnus Dei, lontani dagli scatenamenti sonori dei precedenti Gloria e Credo. Ne deriva uno scompenso talmente macroscopico da compromettere l’intero equilibrio dell’opera, lasciando nell’interprete e nell’ascoltatore un vago senso di incompiutezza, a dispetto dell’incandescente fiammata del conclusivo “Dona nobis pacem”.
La versione a grande orchestra è stata salutata al suo apparire da altisonanti elogi, ma non sono mancate analisi critiche severe, alcune delle quali contribuiscono a spiegare le ragioni per le quali questa composizione, emblematica per la sua singolarità novatrice e per la ricchezza del messaggio, stenti ancor oggi a circolare. In un momento in cui i musicisti francesi si ribellavano alla pratica diffusa delle parafrasi operistiche utilizzate per accompagnare il canto devozionale, il linguaggio composito di Rossini, non esente da profani richiami melodrammatici, urtò più di una suscettibilità. Qualche perplessità sollevò anche l’orchestrazione, accusata di non aver ritrovato la dovizia di colori e di scoppiettanti invenzioni del compositore che aveva coniato un inedito dialogo fra voci e strumenti, quasi che la musica religiosa fosse tenuta a inseguire le bizzarrie del palcoscenico. Non mancarono accuse di opacità e staticità, dimenticando che il testo liturgico non fornisce frequenti occasioni per introdurre numeri veloci e brillanti: quando ciò è possibile, come nelle trascinanti fughe che concludono il Gloria e il Credo, non mancano impasti rutilanti e slanci ritmici irresistibili. Quanto al pericolo che la sontuosa trama orchestrale arrivi a soverchiare un coro al quale la prevalente collocazione nella zona centrale del registro vocale impedisce di liberare sonorità maiuscole, già alla presentazione dell’opera a New York, nell’aprile del 1869, un critico annotava, con qualche esagerazione: “Il coro enumerava soltanto cinquanta elementi. Ne sarebbero occorsi almeno duecento, non solo per fornire la giusta espressione alla musica, ma per bilanciare un’orchestra formata da una cinquantina di esecutori”. In ultima analisi, la Petite messe risente, nel discorso musicale quanto nella costruzione formale, della provenienza spuria di molte sue pagine create per tutt’altra incombenza. Certi pezzi derivati dai Péchés de vieillesse (certamente il Prélude religieux e l’O salutaris hostia, probabilmente i Gratias, Domine, Qui tollis e Quoniam) erano stati concepiti per vivere una vita autonoma in contesti totalmente estranei al rito liturgico. Antecedente alla progettazione di quest’opera è anche il Kyrie; mentre il Christe è addirittura la parodia di una composizione di altro autore. La disuguale struttura di questi numeri, alcuni assai estesi, compromette quell’equilibrio formale che è una delle virtù precipue del comporre rossiniano e evidenzia un plurilinguismo che qui, diversamente che in altri capolavori, non sempre riesce a fondersi in sorprendente unità di linguaggio.
Alberto Zedda