Reduce da settimane di lavoro con eminenti revisori italiani e stranieri quali Philip Gossett, Azio Corghi, Marvin Tartak, Colin Slimm, avevo pensato a un intervento specialistico, incentrato su uno dei tanti casi interessanti emersi nello studio delle opere rossiniane poste in cantiere dalla Fondazione Rossini. L’onore della prolusione mi obbliga invece a introdurre i temi del convegno rimandando eventuali interventi specifici nel corso dei prossimi incontri.
Può sorprendere che le edizioni critiche in Italia siano ancora oggetto di convegni, tavole rotonde, discussioni, quando in altri paesi esse sono ormai prassi corrente. Mentre quasi tutta l’opera dei grandi maestri stranieri è reperibile in pubblicazioni filologicamente irreprensibili e talvolta in più di una edizione, dei nostri autori, anche massimi, si trovano pubblicate soltanto le opere più note e sfruttate e non sempre in lezioni adeguate. Ciononostante le edizioni critiche sono a volte ancora sogguardate con malcelato sospetto, quando non con fastidio quasi avessero ormai fatto il loro tempo, il che tocca l’assurdo quando si pensi che di tutto l’immenso repertorio melodrammatico dell’Ottocento italiano circola stampata la versione critica di una sola opera: Il barbiere di Siviglia, vecchia di ben nove anni.
L’atteggiamento è perfettamente in linea con certo provincialismo snobistico che liquida i fenomeni culturali ancor prima di averli non si dice assimilati ma neppur sufficientemente conosciuti.
Vi sono operatori culturali che diffidano delle edizioni critiche, quando non le osteggiano, perché in esse vedono precipuamente una operazione commerciale.
Ancora più sorprendente l’atteggiamento di certi musicisti, primi beneficiari di edizioni che vengono ad orientare nel modo più consono le scelte interpretative. Un noto direttore ha rifiutato l’edizione critica del Barbiere di Siviglia dichiarando che lui intendeva dirigere quello di Rossini, non quello di Zedda. C’è dunque chi ignora che Rossini non ha probabilmente mai ascoltato la vecchia versione Ricordi che rifletteva le consuetudini esecutive del Teatro alla Scala di cui Ricordi stesso era stato il copista ufficiale e il fornitore di parti e partiture prima di diventare il celebrato editore che conosciamo. Del resto un grande direttore, per di più giovane, non si è peritato di rifiutare un’edizione critica confessando in una intervista la sua diffidenza per operazioni a suo dire intellettualistiche e condotte con lo sterile bilancino del musicologo dato che lui la musica “la fa col cuore”.
Né sono mancati cantanti celeberrimi che si sono rifiutati di cambiare certi passi che dall’autografo risultavano diversi e migliori accampando l’argomento che “avevano cantato decine di volte quell’opera, anche con maestri importanti, senza che nessuno trovasse alcunché da ridire”.
Eppure un raffronto anche frettoloso fra autografi e note edizioni a stampa accende interrogativi che non è più possibile ignorare. Ciò non si verifica soltanto con opere remote: la mia recente revisione dell’Otello verdiano, estremo lavoro di un musicista coscienzioso ed esigente come pochi, è stata un’esperienza imprevedibile: tante e tali sono le differenze fra il segno verdiano e la sua traduzione grafica. La ragione è chiara quando si sappia che l’Otello è stata la prima partitura di Verdi stampata, se si eccettua una Traviata dall’incerta storia editoriale. Né l’editore né l’autore si erano confrontati prima d’allora coi problemi della traduzione grafica per la stampa.
Chi conosce la storia del melodramma italiano sa poi che l’autografo rappresenta un aspetto soltanto, anche se il più importante, di una figura dalle molte facce. Ogni opera ha subito trasformazioni, aggiunte, manomissioni, interventi a più mani e a più voci che l’edizione critica si preoccupa di ricostruire accanto al testo originario, sceverando quelli dovuti all’interessamento diretto o indiretto dell’autore da quelli introdotti da impresari ed editori corsari. Le varie versioni “autentiche” vengono riportate in appendice e nel commento critico è documentata la loro relazione con l’opera. Sarà così possibile utilizzare tanto la stesura primigenia quanto quelle che l’opera è venuta assumendo nel corso della sua storia, scegliendo la più idonea agli orientamenti interpretativi e ai mezzi a disposizione.
L’edizione critica non esaurisce il suo compito con la ricerca puntigliosa e scientificamente condotta della lezione originaria: essa ha come inevitabile traguardo la revisione anche radicale di una prassi interpretativa in gran parte responsabile di quelle incrostazioni fuorvianti che intende mondare. Il testo critico conduce infatti a una miglior individuazione delle caratteristiche strutturali di un’opera e quindi a una messa a punto dei suoi valori espressivi, introducendo una problematica esecutiva che, opportunamente integrata dalla conoscenza delle consuetudini dell’epoca, contribuisce a fornire all’interprete la chiave per una più sicura definizione stilistica. Se le edizioni critiche dovessero limitarsi a sostituire qualche nota o qualche strumento, a precisare un colorito o un fraseggio, se l’operazione filologica fosse fine a se stessa e non venisse posta al servizio della musica, le fatiche, i costi che si devono affrontare non sempre troverebbero sufficienti giustificazioni. La certezza di un testo autentico consente invece l’esame approfondito di macro e microstrutture, delineate nella loro esatta configurazione.
In Rossini ad esempio l’esame delle strutture riconsiderate senza le mutilazioni cui eravamo stati abituati dalle cosiddette “tradizioni”, ha consentito di trarre sostanziali ripensamenti in rapporto alla questione dei tagli. L’adesione incondizionata alla forma chiusa conduce Rossini a strutture architettoniche di classica compiutezza, portate alle conseguenze estreme di una vera ritualità. Perfetto risultato di calcolatissime simmetrie, esse non si possono manomettere. Si osservi lo stretto rapporto che intercorre tra le cadenze e le strutture cui si riferiscono: a grandi costruzioni fanno seguito cadenze estesissime, veri e propri pilastri su cui poggia l’architrave portante della composizione. Similmente calibrata appare la parte centrale di collegamento fra un’aria e il suo “da capo”, correlata alle dimensioni dei brani. L’esatta percezione di queste forme, tessere di un mosaico in cui si delinea il racconto drammatico, aiuta a cogliere il respiro dell’azione. Tagliare le formule di cadenze, ridurre gli elementi esornativi che incorniciano i pezzi chiusi in splendide volute barocche è come tagliare i fregi dei capitelli greci per restituire slancio alle colonne; tagliare i “da capo” di cabalette e duetti è come smantellare un’ala del Campidoglio per dar spazio al piazzale che vi è racchiuso.
Gli unici tagli possibili in Rossini riguardano forse la soppressione di pezzi interi, laddove l’azione teatrale lo consenta, mai la mutilazione di singole strutture. Certo il procedere per pezzi chiusi diluisce il ritmo drammatico, non più affidato alla rapida battuta del dialogo bensì alla contrapposizione di blocchi a ciascuno dei quali è affidata una precisa definizione espressiva. Nasce così un problema di “tempo generale”, tempo che talvolta sembra fuori misura alle impazienze dell’uomo moderno mentre per chi sa ricreare la giusta sintonia il discorso rossiniano acquista l’eleganza, la chiarezza e la razionalità delle meditazioni di Cartesio.
La frase rossiniana, dove la melodia raramente si dispiega in volute espressive capaci di piegarsi al pathos, si articola in microcellule brevi e concise, basate sulla scomposizione di accordi semplici, spesso arpeggi perfetti, o su scale diatoniche. Equivalenti di un’arte non figurativa, richiamano le astratte e purissime geometrie di Klee o di Mondrian. La modulazione, sempre sobria, avviene fuori dal giro melodico, a frase conclusa e separa un frammento dall’altro, accentuando la nettezza dei contorni. Prevalgono le cadenze perfette o evitate; l’armonizzazione della scala verte sulla cifratura base, con accordi fondamentali e semplici.
Questa solare semplicità, questa elementarità di struttura si salda con andamenti ritmici altrettanto essenziali e limpidi creando facilità di comunicazione e immediatezza di coinvolgimenti. Una musica ecologica, pulita e schietta, tutta sbalzi netti, dove le ombre sono attenuate e i tormenti banditi. Una musica che piace tanto ai giovani, anche per l’uso iterativo di formule ripetute infinite volte, come gesto rituale. In questa ripetitività di cellule musicali, sequenza di atti uguali e potenzialmente meccanici e grotteschi, si volle cogliere il senso della vis comica rossiniana.
Il senso dell’iterazione rossiniana va però ricercato altrove, dal momento che essa non si registra soltanto nelle opere comiche o semiserie bensì, tale e quale, anche in quelle serie e drammatiche. Essa è parte intrinseca di un discorso musicale personalissimo e schiude all’interprete il capitolo fondamentale degli artifici belcantistici da introdurre: variazioni, cadenze, fioriture.
Gli abbellimenti (note di volta superiori e inferiori; rapide scivolate per gradi di congiunti su intervalli di terza, quarta, quinta; grandi salti ascendenti e discendenti; roulades di scale che collegano note facenti parte dell’accordo, e via dicendo, sono vocaboli essenziali del discorso musicale rossiniano e diventano elementi espressivi. Molte arie celeberrime, sfrondate da questi artifici, si riducono a schemi di una elementarità sbalorditiva, quasi sempre imperniata sulla primordiale successione dominante-tonica. Le doverose interpolazioni belcantistiche non possono prescindere dalla funzione preminente di questi artifizi; il loro studio è condizione preliminare per non uscire da un ambito stilistico delimitato da un melodizzare poco mobile e poggiato sui pilastri elementari della tonalità. Sono questi dati di linguaggio che determinano l’ambiguità espressiva di tanti moduli vocali rossiniani, dove la variazione va intesa non tanto come “modifica” di una frase già di per sé polivalente, ma principalmente come “altro colore”, “diversa inflessione”, novità timbrica e ritmica che si risolve in ulteriore protrarsi del gioco sottile dell’artificio. La variazione rossiniana si presenta così fondamentalmente diversa da quella di altri maestri dello stile belcantistico.
Diversa da quella barocca e pur esornativa di Haendel: prevalentemente melodica quando si insinua nelle trame di note lunghe e rade delle grandi arie espressive controcantate dall’oboe o dalla traversiera; fitta e rigidamente contrappuntistica nelle arie di bravura. Diversa ancora da quelle di Donizetti, Bellini, Verdi, dove frasi melodiche di largo respiro e di inquiete volute modulanti impongono alla variazione un significato espressivo che non contrasti con quello perentoriamente affermato.
Alberto Zedda
Estratto da «Chigiana. Rassegna annuale di studi musicologici», Vol. XXXIV, Anno 1977, pp. 13-17. Firenze, Leo Olschki Editore, 1981