Il Festival di Fano, “A vagheggiare Orfeo”, si propone di esplorare gli eventi musicali che si succedono fra la fine del Rinascimento e il sorgere del Barocco, quando la modalità lascia il campo alla tonalità e la battuta si sostituisce al tactus, consentendo a voci e strumenti un più facile concomitare, utile a temperare la severità dell’imperante polifonia vocale coi timbri policromi di strumenti dialoganti.
Col Barocco inizia un processo di semplificazione che consentirà alla musica di raggiungere un pubblico tale da imporre l’apertura di una miriade di teatri e spazi musicali, gestiti dall’iniziativa privata oltre che dalla munificenza di principi e cardinali: l’astruso contrappunto dei fiamminghi che spezzando il millenario dominio della monodia aveva dato principio all’esaltante eccezione della musica occidentale cede il passo alla più semplice organizzazione del basso continuo; la polifonia si trasforma in un recitar cantando dove la parola è finalmente percepibile, schiudendo la strada alle fortune dell’opera lirica.
Tutto questo avviene nello spazio temporale di un secolo, il Seicento, in un Paese, l’Italia, crogiuolo di invenzioni da cui sorgeranno le scuole nazionali che daranno caratteri distinti a un’arte sinora accomunata da una koiné linguistica europea.
Del Seicento verrà preferita la produzione fiorita nel periodo e nel clima culturale cui ha dato segno forte il grande architetto fanese Giacomo Torelli, inventore della moderna scenografia teatrale. Per questo il Festival di Fano attingerà principalmente il suo repertorio dalla musica italiana di quel magico moderno.
L’opera romantica e verista hanno a tal punto assorbito l’interesse di pubblico e interpreti da distoglierli da forme d’arte che, per venire efficacemente restituite, pretendono vocalità e strumentalità diverse da quelle correnti. È avvenuto così che l’Italia, protagonista delle mutazioni seicentesche che hanno cambiato la storia della musica, sia rimasta fino a noi molti anni addietro l’unico Paese ad aver participato solo marginalmente, con la ricerca teorica e storiografica e con la pratica dello spettacolo e del concerto, al loro recupero. Monteverdi, Cavalli, Cesti, Legrenzi, Landi, e tanti altri compositori che forgiano la sintassi musicale sull’idioma e l’espressione della lingua italiana hanno trovato all’estero estimatori, studiosi e interpreti appassionati, non sempre in grado però di rispettare una prosodia determinante per la tornitura della frase vocale e la sua espressione.
Il festival di Fano circoscrive le scelte a melodrammi, oratori, cantate, intermedi, madrigali e dunque è eminentemente basato sul canto. Dal modo in cui vengono impostati e risolti i problemi della vocalità discendono i criteri dell’accompagnamento strumentale e, più in generale, quelli metodologici che presiedono alla restituzione dei testi.
Si è dunque partiti dalla specificità di un canto di natura belcantistica, ricco delle raffinatezze e preziosità del virtuoso, per ricercare una prassi esecutiva rispettosa delle peculiarità originarie, ma non spinta sino a rifiutare la corposità dell’emissione, il fervore del vibrato espressivo, la caratterizzazione drammatica dei ruoli, frutto di un’incessante evoluzione tecnica. Da questa vocalità discendono coerenti scelte strumentali: il ricorso allo strumento antico, ad esempio, non avrà carattere sistematico e obbligatorio.
Al melodramma protobarocco, ancora relegato alle sedi canoniche di istituzioni e festival specialistici e al collezionismo discografico, si vuol favorire una circolazione più larga che molto gioverebbe alla formazione del gusto di pubblico e interpreti. Quanto alla copiosa documentazione discografica, molte delle versioni di opere antiche che affascinano i cultori dell’high fidelity, trasposte alla normalità di un teatro si rivelerebbero insopportabilmente noiose per la poca varietà dei colori vocali, la precarietà della pronuncia italiana e l’esilità di interventi strumentali che solo l’artificiale supporto del microfono rende espressivi e sufficienti.
Per conseguire questi risultati il festival di Fano non può essere soltanto una rassegna di spettacoli: la necessità di rivisitare e trascrivere manoscritti inediti obbliga a un’operazione musicologia di grande respiro. Le scelte programmate daranno luogo a una fucina di idee e di proposte, anche polemiche, e promuoveranno un discorso di musicologia applicata che, partito da una rigorosa riconsiderazione dei codici ripensati alla luce di una filologia in linea con le mutate condizioni ambientali e culturali dell’ascoltatore d’oggi, approdi a una prassi esecutiva autoctona, coniugando musica e musicologia in modo sistematico e originale.