Ramón Carnicer. Il dissoluto punito, ossia Don Giovanni Tenorio

Il dissoluto punito. Produzione Damiano Michieletto. Festival Mozart 2006

I curatori dell’edizione critica de Il dissoluto punito, ossia Don Giovanni Tenorio di Ramón Carnicer, Maria Encina Cortizo e Ramón Sobrino, in un documentato saggio pubblicato nella rivista Recerca Musicològica, XVI, 2006, (in parte ripreso anche nell’opuscolo informativo che accompagna la registrazione discografica dell’opera effettuata in occasione della sua esecuzione al Festival Mozart de La Coruña nel giugno del 2006) hanno stilato un’esauriente analisi dell’opera, sottolineandone le affinità con autori che ne sono stati gli intenzionali referenti, Mozart e Rossini per la musica, Bertati e Da Ponte per il testo letterario. Mi limiterò dunque ad alcune riflessioni scaturite dall’esperienza maturata concertando e dirigendo quest’opera nella sopracitata occasione della sua prima ripresa in epoca moderna.

La realizzazione del Dissoluto Punito ha presentato difficoltà superiori alle aspettative, tanto per quanto riguarda la parte strumentale che quella vocale, risolte conseguendo risultati che hanno comportato un giudizio largamente positivo sulla qualità della musica e sulla pregnanza dell’azione teatrale. La partitura presenta una scrittura composita, che recepisce e accosta stilemi assai diversi fra loro, in parte derivati dalla lezione ispiratrice di compositori che Carnicer frequentava e leggeva con profetica ammirazione e con assoluta consapevolezza, sorprendenti per un musicista nato e cresciuto in un Paese ancora non adusato alla frequentazione dell’opera lirica.

Carnicer, oltre che ferratissimo compositore e instancabile ricercatore di nuovi talenti, fu un importante gestore di teatri, impresario e viaggiatore curioso aperto ad ogni esperimento d’avanguardia che riguardasse il prediletto melodramma. La passione per le opere di Mozart e Rossini, stelle polari della suo credo d’artista, e più in generale per l’opera lirica italiana, è all’origine della fortuna e popolarità che il melodramma doveva registrare in terra iberica negli anni a venire.

Nella scrittura strumentale di questo autore si incontrano dotte combinazioni timbriche derivate della tradizione sinfonica codificata da Haydn e Mozart, che provvedono al canto doviziosi accompagnamenti dialoganti, mescolate a guizzi solistici provenienti dalla indocile fantasia rossiniana. Da fonti ispiratrici di così diversa natura nasce uno stile strumentale ibrido e personalissimo, non sempre omogeneo e razionale: passi strumentalmente ambiziosi e complicati si mischiano ad altri di candida semplicità che determinano andamenti ingenuamente rudimentali. Da questa commistione di vocaboli diseguali e stilisticamente discordanti deriva una scrittura strumentale insolita, non sempre di gradevole eufonia ed equilibrio e non sempre di adeguato sostegno alla voce a cui si accompagna. In alcune occasioni mi sono trovato d’accordo con i curatori dell’edizione critica nel ritoccare qualche passo strumentale, eliminando discutibili raddoppi o modificando impasti problematici. La scrittura vocale presenta analoghe asimmetrie: partendo da un impianto ideologico di indiscutibile natura belcantistica, essa alterna prodezze del virtuosismo acrobatico con spunti melodici di disarmante pochezza, impennate liriche pretenziose con motivi popolaregguanti di facile orecchiabilità. Ne risulta un curioso altalenare fra perorazioni di grande nobiltà, tese a ricercare il respiro del dramma tragico, e motivetti di epidermica gradevolezza che sfociano in risultati espressivi di disimpegnato edonismo. Nello stesso imprevedibile disordine si succedono melodie di ricercata fattura, debitrici della complessità del periodare mozartiano, e cellule liriche di stampo minimalista, tributarie del nitido comporre rossiniano. Alle prime manca però la ricchezza del percorso armonico, avaro di invenzioni e sorprese laddove nel modello mozartiano diviene apporto dominante; alle seconde manca la rigorosa struttura formale e il gioco dell’iterazione icastica che in Rossini sostituiscono lo sviluppo della frase melodica. Alle prime manca ancora il respiro ritmico a passo lungo che Mozart fornisce alle sue perorazioni liriche; alle seconde la pulsione ritmica di prepotente vitalità che rende incandescenti e trascinanti anche spunti di dubbia valenza espressiva.

La ritmica che movimenta il discorso musicale di Carnicer non ha caratteristiche specifiche catalogabili e risulta poco energetica, spesso governata da occasionale casualità piuttosto che animata da volontà ordinatrice sistematica. Il discorso lirico procede così a singhiozzo, alternando momenti di grande tensione ad altri di rilassata normalità.

Anche la qualità dell’invenzione melodica è organicamente disomogenea: applicando le formule rossiniane impostate sulla caleidoscopica inventiva di spunti brevi e cangianti, le microcellule del melos dovrebbero appartenere a una stessa natura astratta e asemantica, per venir trasformate in gesti teatrali coerenti. In molti casi invece si trovano frammenti melodici aperti a ricevere senso e luce dalla situazione indotta dal testo e dalla fantasia dell’interprete, tipici del comporre rossiniano, mescolati ad altri prosaicamente orientati a traguardi espressivi di modesta levatura. Non mancano episodi che tengono lo spettatore col fiato sospeso suscitando forti tensioni emozionali, ma molti di essi esauriscono la carica espressiva prima di arrivare al climax perché la povertà di procedimenti armonici basati sul troppo insistito ricorso all’ovvietà dell’alternanza tonica – dominante e dei pedali tonali determina una stagnazione che genera uniformità e monotonia. Lo scarno sviluppo dei percorsi armonici traccia il limite riduttivo di un compositore altrimenti capace di fornire efficaci soluzioni musicali, anche quando non di natura trascendentale, alle tante aspettative prospettate dal melodramma. Si ha troppe volte la sensazione che l’autore si accontenti di una mimesi imitativa propiziata da una ispirazione facile ed esuberante, alla quale gioverebbe la disciplina di scelte meditate e opportunamente motivate.

Il canto, generoso anche se a volte incomodo, rivela competenza ed esime valori tecnici e artistici di alto segno, impegnando l’interprete in pagine che richiedono eminente professionalità e non comuni doti di resistenza. Una sperimentata esperienza esecutiva avrebbe consigliato di evitare inutili complicazioni tecniche e di inserire pause in grado di alleviare la fatica di tirate di forza declinate senza respiro. Colpiscono positivamente i grandi pezzi concertanti di solisti e coro, conclusi da fulminanti strette, degni dei modelli rossiniani a cui si rifanno e dai quali li distingue soltanto la lamentata stagnazione tonale. Va poi ammirata la qualità del recitativo secco, certo favorita dalla decisione di plagiare testi letterari di riconosciuta eccellenza. Vi si apprezza una discorsività fluida e musicalmente gustosa che rende il dialogo piacevole all’ascolto. Il recitativo secco di Carnicer non sfigura al confronto con quello supremo di Mozart neppure quando ricalca le medesime frasi pronunciate da Don Giovanni e Leporello nell’incomparabile capolavoro omologo.

Veniamo ora a una rapida disanima dei brani che compongono l’opera, anch’essi ripensati alla luce di un’esperienza esecutiva specifica che prescinde da considerazioni d’ordine meramente storicistico e musicologico. Le quattordici scene che compongono l’opera Il dissoluto punito, ossia Don Giovanni Tenorio di Ramòn Carnicer si articolano in due atti: otto nell’Atto Primo e sei nel Secondo. Ricavata pressoché letteralmente dai libretti approntati da Giovanni Bertati per il Don Giovanni, o sia il convitato di pietra di Giuseppe Gazzaniga e da Lorenzo Da Ponte per Il dissoluto punito, o sia Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, la narrazione si rifà al Dramma semiserio musicato da Gazzaniga piuttosto che al Dramma giocoso musicato da Wolfgang Amadeus Mozart. Carnicer ignora infatti le saporose vicende intercalate da Masetto, Zerlina e compagni per concentrare l’azione sui personaggi seri del dramma: Don Giovani (con l’alter ego Leporello), Donna Anna, Il Commendatore, Don Ottavio, Donna Elvira. La trama si limita a focalizzare l’azione sullo stupro tentato da Don Giovanni nei confronti di Donna Anna e sventato dal padre di lei a prezzo della vita e si conclude con la punizione del reprobo, tratto all’inferno dalla statua del Commendatore assassinato, sprezzantemente invitata a cena. Don Ottavio e Donna Elvira vi compaiono marginalmente, per affermare la nefandezza di Don Giovani e per motivare la festa nuziale organizzata nel suo palazzo al fine di attrarvi la preda concupita.

Atto Primo

Sinfonia
L’ impetuoso scatto dell’orchestra parodiante il solenne tema iniziale del Don Giovanni mozartiano esplicita l’omaggio dedicatorio al genio di riferimento e avverte che la sua ombra aleggerà costantemente sugli sviluppi dell’opera. L’Allegro che segue abbandona però i corruschi cieli mozartiani per planare su più terrene pianure e strizzare l’occhio all’altro nume tutelare, Gioachino Rossini; subito si avverte la leggerezza di temi scanzonati adatti alla frivolità di Don Giovanni e alla plebea contentezza di Leporello, che ne rimprovera gli eccessi invidiandolo.

Scena Prima
Leporello e il coro accendono la giusta aspettativa per l’entrata del protagonista, che subito enuncia il credo che guida i suoi atti “le donne vanno prima, senza lor non si può star” giacché “breve è la vita, passa e non torna” in un madrigale che rimanda al rinascimentale “chi vuol esser lieto sia, del diman non v’è certezza”. La voce tenorile fornisce la tinta ideale a un’aria che possiede il rossiniano pregio dell’ambiguità, risultando insieme frivola e profonda, banale e supponente. Il proclama del “viva le donne” è riferito al godimento erotico, ma ne viene adombrata anche una lettura meno superficiale che allude a un’inquietante necessità etica. L’inventiva musicale raggiunge il necessario equilibrio fra edonistica piacevolezza e sottinteso significante e attinge spessore sufficiente a esacerbare il contrasto con l’apparizione del Commendatore, padre di Donna Anna, l’eburneo giglio non ancora stroncato dalla voracità del libertino. L’inventiva soffre soltanto di scarsa mobilità tonale, preludio di infeconda staticità. Sono posti in evidenza i punti cardinali dell’opera e i loro padri spirituali: il dramma serio cercherà nella lezione mozartiana afflato e nobiltà; Rossini insegnerà a temperarlo con la levità dell’ironia per rischiarare col sorriso il buio della ragione. Quando Leporello e il coro concludono la scena, in pagine da annoverarsi fra le meglio riuscite, la ostentata citazione mozartiana del “non più andrai farfallone amoroso” avverte dell’importanza di questo personaggio, cui viene affidato il compito di esplicitare ricorrendo al paradosso negativo la turpitudine che Don Giovanni nasconde sotto la protervia del ribelle. I bellissimi recitativi secchi che collegano gli episodi musicali mostrano un’esemplare scorrevolezza discorsiva favorita da un ritmo prosodico impeccabile, da una fresca vena melodica e da una mobilità tonale che sorprende in un autore spesso accusato di scarsa sensibilità armonica.

Scena II
L’orchestra a pieno organico, in una delle pagine meglio strumentate e più elaborate, sottolinea l’entrata di Donna Anna, una prima donna assoluta che ambisce competere da pari a pari con il leggendario protagonista maschile. All’uso delle grandi arie d’opera seria mozartiane e rossiniane, questa cavatina di sortita si articola in più segmenti, dove la voce accende continui dialoghi con gli strumenti esibendo ogni sorta di artificio vocale, dal canto spianato all’agilità espressiva e di forza. La cabaletta “Pietoso rendimi il caro bene” (che ricalca quella di Ninetta nella Gazza ladra) accentua ulteriormente l’evidente matrice rossiniana.

Scena III
Il Recitativo Strumentato che accompagna l’entrata in scena del Commendatore esibisce le frasi più ispirate assegnate al personaggio, padre amorevole e ricco d’umanità assai più del compassato correlativo mozartiano; anche l’aria che segue, intensa e contenuta, dispiega un canto amplio e fervido, impreziosito da lampi di agilità espressiva. Il lungo Duetto con la figlia Anna si svolge alla maniera rossiniana con spunti melodici sempre rinnovati che eludono stagnazione e ravvivano il farraginoso dialogo di Bertati, dove si richiama il maleficio di una profezia che avverte del destino mortale che attende il padre quando consentisse ad Anna di convolare a nozze. Dal momento che il padre decide di sfidare l’infausto vaticinio per assicurare felicità a una figlia innamorata, non si comprende quale ragione lo induca a offuscarne il giubilo col sicuro rimorso, svelandole le tragiche conseguenze del suo consenso, né quale motivo lo muova a prefigurare verbalmente l’evento nefasto al quale il pubblico assisterà di lì a poco. Qualche inconsueta modulazione aiuta a evitare la monotonia di un procedere armonico scarso di sorprese; anche la vocalità, variata e funzionale, contribuisce a vivificare un dialogo che conferisce al personaggio del Commendatore un rilievo decisamente superiore a quello proposto a Mozart dal suo librettista Da Ponte, che lo toglie presto di scena situando all’inizio dell’opera la contesa mortale con Don Giovanni. Nella cabaletta conclusiva si ristabilisce un sereno equilibrio fra il turbamento sollevato dall’infausto presagio e la sofferta decisione di sfidarlo: la stretta (ancora un lampante riferimento al fremente confronto padre-figlia in Gazza ladra) rimanda senza riserve alle perentorie chiuse rossiniane. Per tutta la Scena resta alta la tensione dell’ascolto, con musica di pregio oltre che efficace, e con una linea vocale che offre a entrambi i personaggi occasioni di pregevole belcantismo, pronte a trasformarsi in emozioni cogenti.

Scena IV
La scena si apre con un divertente Coro nuziale, banalizzato da un percorso armonico scontato. La perfida proposta di celebrare nel suo palazzo le nozze degli “amici” Don Ottavio e Donna Anna, pretesto per attirarvi la giovane donna e sottoporla a scellerata violenza, è preceduta da una elaborata introduzione strumentale e sviluppata con impegno nel corso del ponderoso Terzetto, uno dei brani più complessi dell’opera, tanto per quanto riguarda l’assunto orchestrale quanto quello vocale. La staticità armonica viene temperata da un canto di inesauribile varietà, grato all’ascolto.

Scena V
La musica ben traduce la falsità di Don Giovanni: l’entrata di Donna Elvira sprigiona un’atmosfera malata e incerta che intorbida ulteriormente il gioco del libertino e accresce la tensione dello spettatore. L’afflato creativo richiama l’abissale astrazione rossiniana, capace di esprimere congiuntamente sentimenti inconciliabili, sottolineati con eguale evidenza, creando un turbamento che accende aspettative inquietanti. Si incontrano qui pagine che aumentano il pregio dell’opera, splendidamente integrate da un canto originale e pertinente all’aristocratico codice belcantistico. La stretta finale, di pura matrice rossiniana, arricchita da una partecipazione corale degna di menzione, chiude con irruenza una scena di non comune forza drammatica.

Scena VI
Sempre molto bello il recitativo secco che apre la Scena VI, davvero classificabile fra i migliori dell’intero repertorio lirico. Il divertente catalogo delle conquiste di Don Giovanni, sciorinato da Leporello con briosa comicità, ha il solo torto di misurarsi col mitico precedente mozartiano, impietosamente richiamato da un testo ripreso pressoché alla lettera; del modello preclaro l’Aria ricalca anche la struttura e la cadenza idiomatica, marcata da analoghe scelte prosodiche. Va comunque reso l’onore delle armi a Carnicer per aver sostenuto con apprezzabile risultato l’imbarazzante confronto.

Scena VII
Lo scontro furibondo fra Don Giovanni e Donna Anna, climax d’una vicenda impostata sul loro feroce antagonismo, esplode presto in iperboli di perversa volontà. Carnicer attinge qui un possente respiro tragico e consegue l’autenticità necessaria per innalzare un libertino immorale a prototipo categoriale di una malvagità tanto enorme da meritare l’estremo castigo, e con esso dimensione d’immortalità. Il duetto fra i due protagonisti dell’opera acquista toni foscamente nobili, propiziati da una vocalità che chiede nello stesso tempo forza e virtuosità.

Scena VIII
Donna Anna deve possedere le qualità del soprano drammatico di coloratura auspicato da Rossini per i suoi capolavori e incarnato da Isabella Colbran; e Don Giovanni una cospicua consistenza vocale da accoppiare al tecnicismo preteso dall’agilità acrobatica. La scena conclusiva del primo atto, con l’uccisione del padre nell’impari duello, cattura lo spettatore con violenza. La frenetica stretta, tracciata con maestria musicale e drammaturgica di grande levatura, omaggia ancora una volta l’ammirato Rossini, evocato nella dimensione stellare ed emblematica dei suoi massimi raggiungimenti.

Atto secondo

Scena I
Bell’inizio d’atto, melodicamente fresco e strumentato con saporose alternanze di archi e fiati.
Leporello e il coro accendono la giusta aspettativa per l’entrata del protagonista, rifugiato in luogo sicuro per sfuggire al castigo della nefandezza compiuta, ma deciso ad abbandonarlo per recarsi a casa di Donna Anna e ritentare l’impresa scellerata.

Scena II
Don Giovanni entra in scena accompagnato dalla melodia di un flauto, leggera ed effimera come il suo stato d’animo ebbro di non saziato erotismo. Nelle belcantistiche variazioni dei Da Capo, il tenore gareggia col flauto, aggiungendo il brillo del virtuosismo ai modesti contenuti di un’Aria impaginata nell’insolito tracciato di aria tripartita con doppia cabaletta. La qualità dell’invenzione melodica risente della povertà dei percorsi armonici, ma la vocalità intrepida e conquistatrice conviene egregiamente al personaggio del predatore e gli conferisce la patente di indomito lottatore.

Scena III
La grande scena di Donna Anna, caratterizzata dalla presenza dialogica di un meditativo Corno Inglese opposto alla volubilità garbata del Flauto ascoltato nella scena precedente, conferisce al ruolo della deuteragonista un rilevo atto a inscriverla fra le grandi eroine del melodramma. Anche nel successivo Recitativo Strumentato, ravvivato dalla presenza di Don Ottavio e del coro, si avverte l’efficacia di un’atmosfera drammatica conseguita da spunti melodici indovinati. L’inventiva musicale raggiungerebbe il traguardo assoluto se questi spunti non soffrissero di uno sviluppo asfittico e di un accompagnamento strumentale sbiadito, insufficiente a compensare la lussureggiante vocalità. Nel toccante cantabile che sostanzia le parole “Invano fu estinto di tua vita il nume” si incontrano momenti di accesa ispirazione, opportunamente sottolineati dal Corno Inglese e benissimo resi da un canto tenero ed espressivo. Don Ottavio entra in scena sottotono, forse per determinare un palese contrasto col dolore di Anna. La cabaletta della protagonista, modello di preclaro virtuosismo, conclude la scena con un ennesimo belcantistico omaggio a Rossini, relegando Don Ottavio e il coro alla funzione di pertichini, importanti, ma di contorno.

Scena IV
Il recitativo secco, esemplare ed efficace come sempre in quest’opera, precede gli accordi di strumenti a fiato che una tradizione secolare pretende necessari per evocare l’oltretomba: gli accordi, duri e inconsueti, raggiungono la funzione espressiva programmata. La parola sepolcrale del Commendatore, declamata su poche note insistite, non insegue l’euritmia del bello, ma consegue l’efficace straniamento richiesto dalla situazione descritta nell’impegnativo terzetto. L’Allegro conclusivo allenta la tensione del contesto con frivolezza forse eccessiva, ma quando Leporello, costretto dall’arroganza blasfema del padrone, si rivolge al defunto “O statua gentilissima” la musica ritrova il respiro del dramma e inanella idee di pregio, finalmente mosse da una fantasia armonica appropriata ed esaltate da una cupa tinta orchestrale incentrata sulla sonorità del trombone. Conclude la scena un vorticoso Allegro di stampo rossiniano, imperniato su cellule tematiche generiche, ma reso intenso e risolutivo dalla pregnanza del canto.

Scena V
Don Ottavio promette di vendicare il dolore della promessa sposa in un’aria impostata su melodie di ingenua semplicità che suonano poco sincere, seguita da una cabaletta tipologicamente affine a quelle che Rossini affida ai personaggi secondari delle sue opere; anche l’accompagnamento strumentale risulta modesto, pur se la vocalità è idonea a tratteggiare il classico “amoroso” della tradizione. È palese l’intenzione dell’autore di marcare una netta differenza di importanza fra i due ruoli tenorili di Don Giovanni e Don Ottavio.

Scena VI (Finale)
Rivenendo al modello mozartiano di riferimento, la scena si apre con un lungo, brillante, piacevolissimo episodio strumentale, caratterizzato dall’impiego di fiati chiamati a sostenere difficili passi solistici, ma anche a stabilire un proficuo dialogo col canto. Si tratta certamente di una scena fra le migliori, anche se una maggior cura degli sviluppi armonici avrebbe potuto renderla ancora più efficace. La comparsa della statua del Commendatore è accolta da Leporello con intrigante mescolanza di serio e di comico, aumentando per contrasto la desolazione della catastrofica conclusione.

Scena ultima
Anche se Mozart viene sfrontatamente evocato, la scena non manca di grandezza propria e di autentico afflato tragico. La presenza minacciosa del coro, il ricorso agli strumenti gravi della paletta orchestrale, l’ostinato rifiuto di Don Giovanni a implorare il salvifico perdono parodiano con efficacia l’originale mozartiano e, pur senza la vertigine del sublime, concludono l’opera con appagante grandiosità. La scelta di non musicare l’ultima, rasserenante Scena di Da Ponte, una scelta che seguiranno molti interpreti che preferiscono terminare il Don Giovanni mozartiano con la dannazione dell’eroe maledetto, implica un giudizio di condanna senza appello. Solo ai grandi spiriti come Mozart e Rossini è dato addentrarsi negli oscuri labirinti della psiche e della coscienza, dove l’uomo comune smarrisce la ragione, e trarne un giudizio serenamente positivo: una morale consolatoria che l’etica non può condividere, ma che l’arcana magia della bellezza estetica approva sorridendo. Per questo opere inquietanti, quali Don Giovanni o Così fan tutte, La gazza ladra o Cenerentola, possono sensatamente definirsi “dramma giocoso”.

Alberto Zedda

© Zedda-Vázquez