Ogni scritto di Rodolfo Celletti era un avvenimento da non perdere: steso in ottimo italiano, lucido e personalissimo, ornato con aggettivazione colta e fantasiosa, percorso da un’ironia intelligente e simpaticamente malefica… Il soggetto riguardava quasi sempre il canto, trattato con lo stesso ispirato fervore impiegato da Agostino per esaltare le virtù della grazia divina.
Celletti descriveva e teorizzava qualità e artifici vocali sconosciuti ai melomani che frequentavano allora i loggioni dell’universo mondo: trilli d’ogni sorta, di forza, di gorgia, toscani, semplici e rinforzati; messe di voce brevi o interminabili, di sola andata in crescendo o con ritorno al sussurro; canto passeggiato o sprezzato, di garbo o concitato; gruppetti, mordenti, puntature, roulades, salti abissali, passaggi d’agilità mozzafiato, nobili fraseggi sul fiato, legati morbidi e conturbanti, pianissimi e mezze voci seducenti come carezze notturne…
Molti pensavano che Celletti descrivesse un paradiso perduto, utopico e nutrito dello stesso struggente rimpianto con cui il poeta dipinge l’Eden dei progenitori. Stupiva che parlasse di canto con lo stesso convinto entusiasmo impiegato dai Trovatori per propagandare l’amor cortese. Certo, chiosavamo noi giovani, la passione di Don Chisciotte per Dulcinea estasiava e commoveva, però…
Poiché molti degli artisti che amavamo e che accendevano grandi emozioni cantando Verdi, Donizetti, Puccini, Wagner, non erano in grado di produrre i coloriti vocali da lui magnificati, il giudizio di Celletti a loro riguardo era duro e sprezzante, accusati di appartenere alla scuola del muggito, alla cultura rozza e primitiva dei picchiatori del ring. Questo un poco ci indignava, perché ci sembrava che anche in assenza delle prodezze auspicate, essi arrivassero a cogliere degnamente la sostanza delle partiture interpretate, ma si finiva sempre col perdonargli affettuosamente la temerarietà delle sentenze, come affettuosamente si tolleravano dall’amico sacerdote le accorate raccomandazioni alla sobrietà e alla castità…..
Tutto ciò accadeva quando la nostra cultura operistica era quasi esclusivamente incentrata sul repertorio tardo-romantico-verista, laddove eccessi iperbolici, passioni furibonde, odi insanabili erano sospinti al diapason dell’intensità emotiva, al confine della follia, e il canto di forza, il grido primordiale, il gesto enfatico, la sottolineatura retorica, l’acuto ginnico-erotico apparivano lessico appropriato per rendere e comunicare i sentimenti incandescenti evocati dalla musica.
Quando, ubriachi e stanchi di pseudo romanticismo viscerale, abbiamo cominciato a guardare oltre il repertorio di fine ottocento e primo novecento riscoprendo i tesori musicali di Monteverdi, Cavalli, Bach, Haendel, Vivaldi, Mozart, Rossini, Cherubini, Spontini, Bellini, Donizetti, abbiamo finalmente compreso l’importanza immensa della lezione cellettiana.
Per acquisire la nuova esperienza, hanno aiutato l’impeto tragico, classicamente composto e stilisticamente corretto, di Maria Callas; le regie colte e provocatorie di Luchino Visconti, Giorgio Strehler, Luca Ronconi; le letture musicali geniali e iconoclaste di Claudio Abbado; e l’inedito e massiccio travaso di un nuovo pubblico cultore della musica pura, sinfonica e concertistica, dalle ovattate sale da concerto ai tumultuosi luoghi della lirica, fino ad allora frequentati esclusivamente dai passionali amici dell’opera. Ha contribuito, ancora, la comparsa delle edizioni critiche di opere liriche, che hanno imposto a pubblico e interpreti una nuova prospettiva musicologica attenta ai valori della filologia e favorito la messa a punto di comportamenti interpretativi in linea con la cifra estetica delle opere riproposte.
Ma è stata la tenacia di Rodolfo Celletti e dei suoi seguaci a vincere definitivamente la partita. Le opere preromantiche o protoromantiche, dove il canto regna sovrano sovra ogni altra componente dello spettacolo, cantate seguendo i canoni del realismo verista (modello applicato anche quando di tanto in tanto venivano riproposte in tempi passati), suonavano deboli e lontane, estranee al gusto e alla cultura dell’ascoltatore, incapaci di trasmettere emozioni profonde. Solo quando si cominciò a recuperare la civiltà vocale di estrazione barocca e si fu in grado di ricreare l’alato virtuosismo dei divi del Belcanto, si poté apprezzarle e coglierne appieno il messaggio.
Fu chiaro, d’improvviso, che gli artifici necessari per piegare la voce alle nuove esigenze espressive erano quegli stessi descritti con tanta passione e competenza da Celletti, troppe volte accolti con sufficienza o sogguardati come manifestazioni di fanatismo snobistico. Senza la sua lezione, oggi finalmente diventata cultura corrente, non ci sarebbe stata la Rossini renaissance, né le opere di Mozart risuonerebbero con tanta frequenza e favore, né circolerebbero melodrammi barocchi e neoclassici, e neppure si potrebbero ascoltare con profitto i lavori del primo Verdi, del Bellini e Donizetti drammatico, dei tanti interessanti epigoni e precursori del rossinismo.
Non sono stati i musicologi a rendere possibile questa rivoluzione del gusto: sono stati i maestri e gli artisti che hanno compreso che gli insegnamenti di Rodolfo Celletti non erano nozioni settoriali e personalistiche, bensì il codice per accedere a un linguaggio capace di interpretare il nuovo corso: chi ha saputo metterli in pratica vive l’attualità e anticipa il futuro.
Alberto Zedda