La Semiramide, come la maggior parte delle opere di Rossini, particolarmente quelle di genere “serio”, scomparve dai repertori operistici quando il suo autore ancor si trovava nel pieno dell’esistenza perché gli interpreti vocali non erano più capaci di trasformare in emozioni palpitanti gli acrobatismi di un virtuosismo sublime, sostituito ormai da un canto passionale e realistico; e il pubblico, assetato di sentimenti forti in cui riconoscere le proprie storie, non era più capace di abbandonarsi all’edonismo raffinato e intellettuale di un canto artificiale basato su figure musicali astratte quali scale, arpeggi, roulades, di per sé incapaci di suggerire un percorso psicologico facilmente comprensibile. Le poche sporadiche riprese non ne restituivano che una pallida immagine, giacché venivano affidate ai medesimi interpreti del repertorio in auge, incapaci di adeguarsi a esigenze stilistiche tanto diverse. Poiché la monocultura del canto di forza e del gesto esasperato non consentiva di restituire degnamente i passi virtuosistici di agilità, essi venivano tagliati o spianati, cosí come venivano senza scrupolo tagliati i da capo, le ripetizioni, i brani giudicati drammaturgicamente poco interessanti, per permettere a un cantante privo di strumenti tecnici adeguati di arrivare alla fine del ruolo senza soccombere. Ne conseguiva che quelle opere, mutilate nella forma, tradite nella interpretazione, trasformate nella sostanza non arrivavano a trasmettere un messaggio apprezzabile, a consentire una corretta valutazione di merito. Da quelle esecuzioni era impossibile comprendere come Semiramide fosse uno dei massimi raggiungimenti del teatro musicale, una testimonianza nella quale Rossini aveva voluto orgogliosamente riassumere e riaffermare le ragioni della sua arte nel momento stesso in cui la trionfante estetica del realismo romantico e verista la metteva fuori corso. Semiramide, Arsace, Assur costruiscono in ore di laceranti tensioni, scandite da arie e duetti di smisurata carica emotiva, l’appuntamento con la catarsi purificatrice che si dipana alfine in poche, precipitate battute di recitativo strumentato: l’obiettivo di Rossini non è quello di raccontare una storia, ma quello di farci partecipi di uno scontro epico fra la volontà di potenza della creatura umana, per il bene o per il male, e le forze soprannaturali che le si oppongono, simboleggianti la fatalità del destino.
L’attuale fortuna di Semiramide parte da una registrazione fonografica realizzata negli anni settanta del XX secolo, protagoniste due interpreti straordinarie nei ruoli di Semiramide e Arsace: Johan Sutherland e Marylin Horne. Quei dischi, nonostante una vistosa insufficienza dei ruoli maschili e la soppressione di quasi due ore di musica, rivelarono al mondo la suggestione del canto rossiniano, il fascino astratto delle cabalette, l’indicibile bellezza dei duetti col travesti richiamanti il mondo leggendario e turbante dei castrati, il valore del virtuosismo acrobatico posto al servizio dell’espressione musicale. Ne seguí una produzione, con regia di Pier Luigi Pizzi, che incantò il pubblico di molte capitali europee. Io stesso ebbi occasione di dirigere quello spettacolo a Genova e Torino con Katia Ricciarelli e Lucia Valentini Terrani, con Lella Cuberli e Martine Dupuy. Fu in quella occasione che mi resi conto dell’assurdità dei tagli introdotti, tagli che avevo dovuto subire perché non esisteva altro materiale d’orchestra utilizzabile. Non solo erano stati soppressi i da capo: vi mancavano intere arie di Idreno, estese introduzioni strumentali, brani corali, fra cui il Coro con l’importante intervento solistico di Oroe; gli splendidi Recitativi strumentati, modello ispiratore della scena che nelle opere dei successori di Rossini porrà fine alla forma chiusa e alla contestata alternanza fra recitativo secco e pezzo chiuso, erano stati ridotti a monconi informi.
Certo le arie di Idreno hanno funzione drammatica marginale rispetto all’azione principale, come del resto i ruoli di Azema e dello stesso Oroe, ma chi ritiene che siano state composte per compiacere al tenore di turno o al pubblico non ha capito la fondamentale importanza di introdurre nel discorso musicale momenti di distensione che valgono a interrompere l’insostenibile tensione emotiva generata dagli scontri fra Semiramide, Arsace e Assur.
Semiramide si ascrive fra le opere appartenenti al filone apollineo di Rossini, nate dalla stilizzata geometria del Tancredi, dove le classiche strutture della forma chiusa – Arie tripartite, con da capo da variare e sezione centrale con pertichini o coro; Duetti, con ripetizione di periodi paralleli – prevalgono largamente sul libero sviluppo dei concertati. La struttura di queste arie e duetti viene dilatata a dimensioni abnormi che concorrono a creare un’aurea monumentalità riempita di musica ispirata e pregnante: introdurvi tagli ha effetti devastanti. Dovendo programmare Semiramide al Festival della Valle D’Itria a Martina Franca, convinsi l’editore milanese Ricordi ad apprestare una nuova edizione integrale, che trascrissi dalla bella riproduzione anastatica dell’autografo pubblicata dalla Garland a cura di Philip Gossett. Purtroppo quella riproduzione riguardava soltanto il corpo principale della partitura: mancavano gli spartitini che raccolgono quegli strumenti che nei grandi pezzi d’insieme non trovavano posto nella partitura affollata di personaggi e coro. Non essendosi allora ritrovati quelli autografi, solo più tardi identificati da Mauro Bucarelli – collaboratore della Fondazione Rossini – tra le parti originali conservate nell’Archivio del Teatro La Fenice, Gossett vi aveva allegato quelle di una fonte secondaria, l’edizione a stampa di Ratti e Cencetti, non sempre coincidenti con la lezione autentica.
L’ edizione critica recentemente data alle stampe dalla Fondazione Rossini, raccoglie le esperienze di quel mio primo lavoro e gli ulteriori apporti di Philip Gossett, che si è fatto carico anche della ricognizione delle fonti secondarie, della loro descrizione analitica, della stesura della prefazione e della trascrizione di schizzi autografi per la Semiramide che Paolo Fabbri aveva trovato e riprodotto nel catalogo delle raccolte Piancastelli di Forlí (Lucca, 2001). Completa l’edizione una ricostruzione della banda adoperata nell’occasione della prima esecuzione veneziana della Semiramide, tratta da Gossett dalle parti originali. Rossini, come tutti i compositori operistici dell’epoca, non si curava di precisare una strumentazione definita per la banda, limitandosi a una traccia sommaria stesa su un solo pentagramma della partitura e a qualche indicazione complementare, per lasciare ogni teatro libero di utilizzare l’organico che meglio convenisse. La partitura allegata all’edizione critica non obbliga il teatro e l’interprete a rispettarne l’organico: è peró una testimonianza da cui trarre utili indicazioni di prassi esecutiva.
Esiste un problema, riguardante la messa in scena dell’opera, che l’edizione critica ha potuto soltanto adombrare. Nel tempo in cui Rossini componeva le sue opere la voce di basso non contemplava le distinzioni alle quali siamo abituati oggi. I ruoli di basso si dividevano sommariamente fra quelli per il basso nobile, o cantante, e quelli per il basso buffo, o caricato. La figura del baritono non esisteva, inglobata in tessiture che oggi si possono definire genericamente di basso-baritono e che spaziavano invariabilmente dall’estremo registro acuto al profondo grave, con pochi gradi di differenza fra ruolo e ruolo. Quando nella stessa opera figurano due ruoli di basso, più frequentemente nelle opere buffe (Don Magnifico-Dandini; Selim-Don Geronio; Mustafá-Taddeo…), ma anche in quelle serie e semiserie (Mosè-Faraone; Fernando-Podestá…), i due personaggi risultano vocalmente intercambiabili, pur se si possano preferire voci più gravi per gli uni e baritoneggianti per gli altri. Questa indeterminatezza di registro è probabilmente l’origine di anomalie che si riscontrano in diverse partiture autografe rossiniane: quando concomitano due ruoli per basso, non sempre il personaggio che gli corrisponde viene a occupare coerentemente lo stesso pentagramma. Nell’ Introduzione di Semiramide, ad esempio, la parte di Oroe viene dapprima inscritta sul pentagramma inferiore a quello assegnato ad Assur, il che nella pratica esecutiva sottintenderebbe che a Oroe debba toccare la tessitura più grave delle voci in reparto. Nel prosieguo della partitura, però, si verifica frequentemente il contrario, sicché il direttore editoriale della Fondazione Rossini ha preferito uniformare la grafia dei due ruoli recependo il modello grafico più numeroso e destinando sempre ad Assur il pentagramma inferiore a quello di Oroe. Questa decisione può dar luogo a qualche fraintendimento. Analizzando i ruoli della Semiramide e tenendo in conto anche l’apporto della tradizione che orienta le nostre scelte interpretative, è facile constatare come quello di Assur richiami la voce possente e duttile del baritono verdiano, del quale si coglie una inequivocabile anticipazione nella gigantesca Scena e Aria del secondo atto, uno dei punti di forza dell’opera, dove si prefigura il delirio di Nabucco e di Macbetto. All’opposto, il ruolo di Oroe, tipico Gran Sacerdote cui è devoluto il compito di esercitare il contropotere col conclamato sostegno degli Dei, richiama prepotentemente quello dei bassi profondi che danno voce ai ruoli di Zaccaria, Ramfis, Oroveso e dei tanti Grandi Inquisitori della scena lirica. Scendendo sul terreno della pratica esecutiva, è consigliabile rispettare la lezione autografa solo quando si possa contare per il ruolo di Assur su un basso provvisto di un’estensione di registro completa nell’acuto e nel grave. Preferendo una voce baritonale per Assur e una di basso profondo per Oroe, gioverà che i due personaggi scambino la parte in tutte quelle sezioni dove si trovano a cantare insieme.
Il lavoro del filologo e del musicologo sull’autografo di Semiramide è stato meno arduo e complesso che in altre opere perché Rossini ha tracciato una partitura curatissima, ricca di indicazioni interpretative, con pochissime correzioni e ripensamenti. Purtuttavia, non sempre dal manoscritto si evince con sicurezza se una parte sia destinata al Flauto o all’Ottavino e se questi strumenti debbano suonare da soli o in coppia. Al tempo di Rossini due soli strumentisti assolvevano i ruoli destinati ai Flauti e agli Ottavini, passando da uno strumento all’altro. Dato che nell’orchestra moderna gli esecutori in organico per tali strumenti sono almeno tre (giacché raramente il Primo Flauto ha l’obbligo di passare all’Ottavino), può essere oggi opportuno raddoppiare la parte del Flauto nei brani dove la strumentazione appare nutrita. Poiché rispetto al collega ottocentesco il Flauto attuale non ha aumentato la sonorità quanto altre sezioni strumentali (per esempio gli Ottoni e le Percussioni), raddoppiarne la parte nei brani di grande sonorità può migliorare l’equilibrio fonico complessivo. Anche in quest’opera la parte delle percussioni rientra nella generica classificazione di Gran Cassa e richiede l’intervento del concertatore per articolare razionalmente l’impiego di Cassa, Piatti e Triangolo.
La quantità dei passi ripetuti identici e l’ampiezza inusitata dei Da Capo rendono quanto mai d’obbligo, in quest’opera, il ricorso a cadenze, fioriture e variazioni. L’edizione critica ne riproduce una gran quantità, tratte da Gossett da fonti secondarie, talune autorevoli, come le particelle adoperate per lo studio dei primi interpreti della Semiramide. Poiché le variazioni hanno una preminente funzione espressiva, la loro formulazione dovrebbe corrispondere alla cifra stilistica prescelta dagli interpreti d’oggigiorno e riflettere il loro gusto e sensibilità piuttosto che quello dei loro antenati. Anche per le variazioni vocali perseguire traguardi di tipo storicistico appare limitativo e penalizzante: in molti casi è preferibile riscrivere cadenze con meno fronzoli e svolazzi, rispettando la figurazione ritmica originale, dentro la quale ricercare nuove soluzioni espressive secondo canoni che lo stesso Rossini ha abbondantemente esemplificato in modelli disseminati fra le opere della sua ricca produzione.
Il ritrovamento più interessante, dal punto di vista del musicologo, riguarda la celebre Aria di sortita della protagonista, “Bel raggio lusinghier”, della quale si puó ancora ricostruire dal manoscritto una prima stesura priva della cabaletta e con una diversa conclusione. Gossett, nella prefazione all’edizione critica, avalla la mia vecchia ipotesi che sia stata la moglie Isabella Colbran, interprete designata del ruolo, a indurlo ad aggiungere la cabaletta di bravura, avendo giudicato il solo Andante Grazioso inadeguato alla sua fama di prima donna assoluta. Diversa, eppure credibile, è l’ipotesi avanzata da Reto Müller (Bollettino della Deutsche Rossini Gesellshaft) che la versione ridotta possa essere stata richiesta dalla stessa Colbran, conscia dello stato d’usura di una voce ormai alla frutta (come confermeranno le imbarazzate recensioni delle rappresentazioni veneziane e viennesi): Rossini l’avrebbe dapprima accontentata, ritornando poi sulla sua decisione quanto il prosieguo della composizione aveva dato luogo a una serie di pezzi chiusi di dimensioni gigantesche, al confronto dei quali la versione originale della cavatina sarebbe risultata del tutto inadeguata. Concorre a condividere questa tesi la constatazione che Rossini, contro ogni consuetudine, fa apparire in scena Semiramide già nell’Introduzione, quasi a voler attenuare l’impatto di una successiva cavatina di sortita pensata in formato ridotto.
Oggi “Bel raggio lusinghier” è diventata un pezzo di bravura favorito dai soprani d’ogni sorta, molti di essi soprani leggeri, creando non pochi equivoci sulla natura del ruolo di Semiramide: che non è affatto un ruolo per soprano di coloratura, ma l’esempio paradigmatico dell’ideale soprano drammatico d’agilità richiesto da tanti ruoli rossiniani della produzione seria, specie quelli composti per Isabella Colbran nella folgorante stagione creativa napoletana. La vera difficoltá della cabaletta conclusiva non sta nel cantarla quanto più brillantemente possibile, ma , al contrario, nel controllare la velocità dei passi virtuosistici per renderli espressivi e caricarli di un erotismo denso d’attesa e di speranza. In quest’aria Semiramide abbandona le sembianze di regina crudele e assetata di potere per assumere la fragilità della donna innamorata, la stessa che riprenderà nel mirabile duetto del secondo atto, “Giorno d’orrore!… e di contento!”, quando nello sposo auspicato riconosce il figlio sottrattole bambino e amaramente rimpianto, ritrovato nel momento stesso in cui egli la scopre complice dell’assassinio del padre. Il miscuglio di amore e odio che genera questo incontro, il radicale contrasto fra orrore e contento, dà origine a una delle più toccanti e geniali pagine di Rossini che da sola basterebbe a illustrare la pregnanza della sua estetica teatrale.
La Semiramide ha proporzioni smisuratamente dilatate rispetto alle consorelle: il primo atto brucia 140 minuti di musica contro una media di 70-90; il secondo 120 in luogo dei consueti 50-70. Un disegno architettonico di tale grandiosità non può essere fortuito, considerato anche che la struttura dell’opera non si discosta dai canoni di una convenzione da Rossini stesso innalzata ad archetipo. Il primo atto allinea sette pezzi – Sinfonia, Introduzione, Aria di Arsace, Duetto Arsace-Assur, Aria di Idreno, Aria di Semiramide, Duetto Semiramide-Arsace, Finale Primo – e sei il secondo –Duetto Semiramide-Assur, Coro e Aria di Arsace, Aria di Ideno, Duetto Semiramide-Arsace, Aria di Assur, Finale Secondo – all’incirca lo stesso numero che dal Tancredial Barbiere di Siviglia, dal Mosè in Egitto al Maometto II scandiscono i ritmi dei suoi melodrammi precedenti. Rispetto a molte sue opere si registra, oltretutto, una totale assenza di terzetti, quartetti, quintetti, sestetti, occasioni di grandi affreschi musicali. Non è dunque con l’inserimento di un maggior numero di brani che viene attinta la dimensione inconsueta, ma con la dilatazione di ogni singolo elemento – l’introduzione strumentale e corale all’aria; la parte di mezzo di collegamento alla cabaletta; le cadenze conclusive; i recitativi strumentati – sviluppato con una sapienza e una tenuta d’ispirazione da non dare mai la sensazione di formule ipertrofiche.
La trama dell’opera racchiude importanti archetipi del teatro classico. Nell’antefatto, Semiramide, Regina di Babilonia, ha ucciso il marito Nino per impossessarsi del trono, in combutta col principe Assur, che a sua volta ha fatto scomparire il di lei figlio Ninia, per assicurarsi la successione sposando la principessa ereditaria Azema, promessagli da Semiramide. Nella gigantesca Introduzione dell’opera, la Regina decide di richiamare a corte un giovane comandante militare di cui si è invaghita per farne, sposandolo, il nuovo Re, rinnegando la promessa fatta all’amante e colpisce Assur. Le nozze vengono apprestate nonostante l’opposizione del Gran Sacerdote, Oroe, e il funesto presagio di minacciosi segni celesti. Nel Finale Primo sará la stessa ombra di Nino a comparire in scena per esprimere sdegno e invocare vendetta da Arsace, prostrato dall’obbligazione di sposare Semiramide invece dell’amata Azema, la fanciulla cui ha salvato la vita. Nel secondo atto Arsace si scoprirà figlio di Nino e la situazione edipica troverà violenta conclusione nel matricidio involontario, quando il giovane scende nella tomba del padre per vendicarlo uccidendo Assur.
Nella Semiramide Rossini reintegra la Sinfonia iniziale, una pratica che aveva abbandonato nelle opere composte a Napoli, dove, favorito dal fervore culturale della città, si apriva a inconsuete sperimentazioni. Non si tratta però dell’ennesima brillante pagina strumentale pronta a cambiare titolo e genere a seconda delle convenienze: i temi principali di questa Sinfonia ritorneranno nel corso dell’opera e ne marcheranno il significato. Il celebre corale dei soli corni e fagotti che compare nell’Andantino iniziale accompagnerà il giuramento di fedeltà a Semiramide, clou del Finale Primo; il palpitante tema dei violini nell’Allegro aprirà il lungo Finale Secondo, preludio alla catarsi conclusiva che sopraggiungerà dopo una dolente Preghiera di Semiramide e un etereo Terzetto dei protagonisti, sospeso in un angolo di paradiso prima di rovinare nell’inferno più nero. A parte i tre menzionati pezzi d’assieme caratterizzati dagli interventi soprannaturali– l’ Introduzione e i due Finali – solo Arie (sei) e Duetti (quattro) completano il corpus di quest’opera singolare. Il coro ha una funzione importante, con una scrittura più elaborata del solito, anche se si limita a commentare l’azione piuttosto che prendervi parte.
Poiché le avvisaglie della crisi che spingeranno Rossini al silenzio si manifestano proprio nel periodo di composizione della Semiramide, non è da escludere che con quest’opera, l’ultima composta per un teatro italiano, egli abbia inteso accomiatarsi dal mondo musicale lasciando una testimonianza esaustiva della sua controversa figura di compositore. Nella sua musica il passato rivive nella incondizionata adesione alla poetica degli affetti, calati dentro formule strutturali di maniera e nell’assunzione di una vocalità contraria a ogni logica di realismo, accentuata dal ricorso al travesti; il futuro, avvertibile già in un scrittura strumentale che guarda Oltralpe e stabilisce un dialogo fra canto e orchestra che non ha precedenti nella tradizione italiana, anticipa aspetti graditi alla sensibilità dei post-romantici nel ricorrere a immagini metaforiche e ambigue, immerse in un giuoco intelligente di divertita ironia e di disincantata follia.
L’imprevista esperienza parigina, che pone Rossini a contatto con l’humus che alimenterà protagonisti della musica dell’avvenire quali Wagner e Berlioz, ha riacceso in Lui la volontà di rientrare nell’agone sviluppando l’altro filone della sua vena compositiva, quello dionisiaco, coltivato nella fucina illuminata di Napoli. Ogni elemento del lessico musicale è stato ripensato: l’armonia, abbandonata la disarmante semplicità della cadenza perfetta, ha cercato modulazioni inattese; la frase strumentale ha liberato emozioni toccanti; il ritmo ha trovato epiche scansioni, le strutture hanno sfumato i contorni della forma chiusa. Solo la vocalità non ha saputo o voluto abbandonare i Campi Elisi del belcanto, rinunciare all’ebbrezza del virtuosismo, farsi melodia seducente.
Alberto Zedda
De Divagazione rossiniane