L’uomo latino è poco portato alla meditazione, alla riflessione introspettiva e paziente. Il suo modo di comunicare con il trascendente richiede la partecipazione attiva, il dialogo acceso, il confronto diretto. Gioie e dolori non si consumano nel raccoglimento del silenzio, ma si esprimono in gesti esteriori dettati dal bisogno di comunicare, nella ricerca di un coinvolgimento collettivo. I segni del lutto, il pianto delle prefiche, le processioni, i riti che accompagnano cerimonie religiose e feste popolari ne sono la logica manifestazione.
Non diverso è l’atteggiamento del musicista latino che si accosta al tema religioso. Dalle sacre rappresentazioni al madrigale, dagli inni liturgici alle messe, la tentazione di mescolare il sacro al profano, la protesta alla supplica, la ribellione alla sottomissione, l’irrisione sacrilega alla devozione ha costantemente fatto capolino nella musica sacra dei maestri italiani.
Il modo di intendere la sacralità ha risposto costantemente a un rapporto Uomo-Dio nutrito di amore, ma anche di orgoglio luciferino; di adorazione, ma anche di contestazione. Il dialogo con la divinità assume così prospettive terrene, umanamente sofferte: l’interlocutore è sincero nello slancio devozionale, ma non disposto ad annullarsi nella luce abbagliante di un pantocratore irraggiungibile.
Proprio il tema religioso, il difficile confronto con l’inconoscibile, spingono il compositore a ricercare una sincerità di linguaggio che porta alla commozione, all’espressione di sentimenti non scontati. É anche il caso di Gioachino Rossini. Il Maestro pesarese annovera nella sua produzione diverse composizioni di genere sacro, risalenti anche agli esordi (le Messe di Bologna, di Ravenna, di Rimini, a lui attribuite con qualche perplessità). Nel pieno dell’esperienza napoletana, apogeo della sua maturità d’artista, oltre alla potente espressione politico-popolare dell’opera-oratorio Mosè in Egitto, aveva composto una Messa di gloria di raggelata bellezza, oggi in corso di rivalutazione. Negli interminabili anni dell’esilio creativo, Rossini aveva rotto la consegna del silenzio proprio con due lavori sacri di vasto impegno, lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle, cui aveva aggiunto alcune pagine corali, La foi, l’esperance et la charité, il Tantum ergo, e l’ O salutaris hostia, di modesta rilevanza .
Nello Stabat Mater e nella Petite Messe si verifica un fenomeno straordinariamente interessante: nel segno dell’ispirazione religiosa Rossini rompe il riserbo e la pudicizia che hanno sempre frenato il manifestarsi dei sentimenti per abbandonarsi finalmente a un canto di grande tensione emotiva, di terrena passionalità. Il fatto non sorprende chi conosce la musica sacra dei compositori iitaliani. Senza ripercorrere il lungo tragitto che condurrà all’umanissimo e profano Requiem verdiano, basti pensare allo Stabat Mater di Pergolesi, il modello che Rossini reputava insuperabile. Con questo capolavoro Pergolesi non soltanto coglie un vertice espressivo capace di coinvolgere profondamente l’ascoltatore nel vibrante racconto di Jacopone da Todi, ma raggiunge un perfetto equilibrio formale ed espressivo fra i brani dedicati alla meditazione costernata e dolente delle sofferenze della Madre di Cristo e quelli riservati a un commento sereno e trasfigurato, pervasi da una gioiosa leggerezza.
Questa commistione venne giudicata riprovevole dai difensori della fede integralisti, sollevando le stesse insofferenze che avevano spinto i padri conciliari a limitare drasticamente la presenza della musica nei templi con le risoluzioni statuite nel Concilio di Trento. Al di là delle tendenze attitudinali della gente latina, una grande responsabilità nella desacralizzazione della musica religiosa dei nostri autori spetta anche a queste condanne conciliari che hanno creato una molesta diseguaglianza fra il musicista di fede protestante, affrancato dalle restrizioni del Concilio, e il musicista cattolico. L’Italia che fino a Palestrina e Monteverdi aveva prodotto la più alta qualità di musica destinata al culto passò rapidamente agli ultimi posti della graduatoria.
Il danno non fu solo per i musicisti militanti: le bolle trentine, scacciando la grande musica dalle chiese, privarono il popolo, tutto il popolo, della prima e più immediata fonte di educazione musicale. Mentre i fanciulli di Germania, Austria, Olanda, Inghilterra condotti dai genitori in chiesa acquistavano familiarità con la musica di Schütz, Bach, Händel e tanti altri grandi comunicatori dello spirito, anche partecipando direttamente nell’intonare i corali della liturgia, gli italiani dovevano accontentarsi di sottoprodotti diseducativi, poveri sostituti di quel potente mezzo di preghiera e meditazione che i vescovi del Concilio avevano valutato elemento profano di mondana distrazione.
Bandita dalle chiese, è naturale che la musica venisse ignorata dall’educazione formativa, per secoli appannaggio dei chierici, completando il ciclo negativo che ha condotto all’attuale diffusa ignoranza musicale anche in categorie sociali definite colte. Da ciò si può ben comprendere perché la produzione di musica religiosa nei paesi toccati dalla Controriforma abbia caratteristiche anomale.
Rossini, così laicamente razionale, così innamorato della vita, così ironicamente disincantato, non poteva fare eccezione. Nel suo caso specifico, tuttavia, l’ispirazione religiosa ha consentito alla poetica musicale di raggiungere un traguardo perseguito lungo tutto l’arco della carriera di compositore operistico: cogliere l’essenza della verità drammatica senza ricorrere all’ovvietà della descrizione realistica, alla banalità del gesto verista. Per coltivare l’utopia del bello assoluto, il compositore aveva congelato in formule idealizzate le lacrime della sofferenza e gli abbandoni della passione, per non immiserire i sentimenti con la contaminazione del quotidiano.
Il dolore della Madre, il mistero radioso del Sacrificio gli devono essere sembrati eventi tanto grandi e lontani da essere di per sé affrancati dal pericolo del sentimentalismo. Sta di fatto che mai come nello Stabat e nella Petite Messe Rossini si è inoltrato sulla via dell’inveramento perseguito dai romantici, mai è sembrato tanto vicino al rifiutato linguaggio dei contemporanei che lo avevano spinto al silenzio.
Lo Stabat Mater che Rossini presentò in versione definitiva al pubblico di Parigi il 7 gennaio del 1842 (sei numeri dei dieci che lo completano erano stato composti anteriormente per incarico di Don Francisco Fernández de Varela ed eseguiti in Madrid il Venerdì Santo del 1833, con i quattro numeri mancanti aggiunti dal bolognese Giuseppe Tadolini) è entrato stabilmente in repertorio, quasi sempre ripetendo il successo delirante della prima rappresentazione. All’ascolto non si avvertono incongruenze stilistiche fra le parti composte nel 1831-33 e quelle del 1842-43, forse anche per la suggestiva intuizione di riprendere alla fine della fuga conclusiva l’episodio che aveva dato avvio all’Introduzione. I quattro pezzi di nuova composizione hanno certamente tratto vantaggio dalla lunga maturazione e da un più sereno processo creativo, acquietatesi le crisi neurologiche seguite alla traumatica decisione di uscire di scena. É soprattutto in queste pagine che si avvertono le influenze della drammaturgia musicale tardo-ottocentesca.
Il canto del Primo Soprano, N. 8 “Inflammatus ed accensus”, che si spinge a un do sopracuto di straordinaria efficacia, ha il vigore e la tensione del miglior Verdi; la conturbante alternanza di salti inusuali e di teneri moti congiunti in quello del Soprano Secondo, nel N.7 “Fac ut portem”, genera romantiche inquietudini.
Singolare, in questo Stabat rossiniano, la presenza di due brani riservati alle sole voci a cappella, senza accompagnamento strumentale, uno già presente nella prima versione, l’altro composto nel 1842: ulteriore elemento di saldatura stilistica tra le due redazioni. Nel primo, N.5 “Eja Mater”, il basso solista si alterna al coro in una sequenza responsoriale che rimanda al rito liturgico; il secondo, N. 9 “Quando corpus morietur”, pagina di alta commozione capace di trasformare il terrore della morte in paradisiaco stupore, è stato pensato da Rossini per quattro voci soliste: la difficoltà di mantenere una corretta intonazione, resa problematica da procedimenti cromatici ed enarmonici che si prolungano per intensi episodi, ha fatto tradizionalmente preferire l’impiego dell’intero coro, ideale per realizzare con la giusta espressione i colori dinamici fondamentalmente basati su piano e pianissimo. L’emozione intima e profonda di questo brano, probabilmente il culmine espressivo dell’opera, rende irrefrenabile l’esplosione della successiva fuga finale. Da sottolineare, in questi pezzi a cappella, la sapienza e il gusto con cui tratta la linea vocale un compositore che in tante opere, certo per ragioni pratiche, ha trattato il coro con scarsa fantasia, basandolo prevalentemente su elementari procedimenti omofonici e omortimici.
L’aria del Tenore, N. 2 “Cuius animam gementem”, è pagina celebre, anche per un difficile Re bemolle sovracuto nella cadenza terminale. La melodia, cattivante e non priva di retorica, si sviluppa al limite fra grandezza e ovvietà, come tante volte in Rossini, e impone ai suoi interpreti una difficile prova di gusto e classe per salvaguardarla dal rischio della banalitá.
L’aria del Basso, N. 4 “Pro peccatis suae gentis”, alterna un motivo di forte tensione drammatica con altro largamente espansivo e pretende una tessitura ampia che spazia dal registro di basso a quella del baritono. Nel duetto tra i Soprani Primo e Secondo, N. 3 “Quis est homo”, si colgono reminiscenze del virtuosismo espressivo che Rossini ha riservato a tanti indimenticabili duetti per voci femminili.
Il quartetto, N. 6 “Sancta Mater”, alterna e riunisce in grande varietà combinatoria le voci dei Soprani, del Tenore e del Basso. Il mestiere dell’operista eccelso fa sì che il motivo dominante, fortemente caratterizzato e ostinatamente riproposto, assuma caratteristiche sempre diverse, in una progressione espressiva che non consente fratture.
È certamente nel grande affresco introduttivo, N. 1 “Stabat Mater dolorosa”, che solisti e coro raggiungono un superbo equilibrio espressivo, dove Rossini stabilisce imperiosamente un codice destinato a impregnare l’intera composizione e a farne una
delle sue opere più amate.
Anche Rossini, come tutti i grandi compositori operistici e non (Mozart, Beethoven, Verdi…) ha sentito il bisogno, alla fine della traiettoria compositiva, di misurarsi con la lezione antica della polifonia, massima espressione della sapienza tecnica di un musicista. Lo fa nella conclusiva fuga corale, N. 10 “In sempiterna saecula”, una pagina che coniuga con rara felicità di risultato la severità dello stile imitativo con l’urgenza di un finale in grado di suscitare l’ebrezza dell’appagamento. Il coro sviluppa un ininterrotto ricamo di inebrianti melismi che ricordano l’antico canto gregoriano, ma non ignorano il legato dei madrigalisti barocchi.
Alberto Zedda