Stagione scaligera 1992-1993

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Concetto ispiratore della creatività di Gioachino Rossini è l’idealizzazione: ogni sentimento, contatto, azione dei suoi personaggi risponde a questo processo trasfigurante, affrancato dall’obbligo di rispettare le regole della logica. Rosina e Almaviva ci comunicano la bellezza dell’innamoramento, l’ebbrezza dell’amore arrivando al traguardo del matrimonio senza mai rivolgersi, da soli, una parola. La sintesi poetica impone il ricorso a immagini e concetti diversi da quelli che descrivono il quotidiano. Soccorre una vocalità artificiale e astratta, discesa dal florido belcantismo barocco, e condotta da Rossini al traguardo di un acrobatismo sublime, capace di generare un nuovo codice espressivo.

Virtuoso rossiniano non è colui che può cantare miriadi di note difficili a velocità vertiginosa, ma chi arriva a produrre anche un canto morbido e legato, impreziosito da una gamma infinita di colori; chi padroneggia artifici ornamentali eccitanti, quali il trillo, la messa di voce, il mordente; chi sa regolare l’emissione del fiato in modo da tenere lunghe frasi ininterrotte; chi sa controllare e rendere espressiva un’agilità, di forza o brillante; infine, chi sa trasformare in pregnanti gesti teatrali, in percepibili emozioni di gioia o di dolore, di sdegno o di tenerezza, anodine e asemantiche figurazioni quali scale, arpeggi, roulades, cromatismi e salti d’ogni genere.

Giunto a Parigi, Rossini soffre la contestazione dei teorici di un melodramma impegnato a trasferire sulla scena emozioni esplicitate da un canto esaltato, teso a ricercare realisticamente la traduzione del sentimento evocato. La fede riposta nell’astrazione incantata del belcantismo non viene meno, ma qualche incrinatura si avverte: i rifacimenti del Maometto II, divenuto Le Siège de Corinthe, e del Mosè in Egitto, divenuto Moïse et Pharaon, insieme col definitivo Guillaume Tell del quale appaiono i cartoni preparatori, contengono, rispetto alla versione d’origine, pagine inquinate da turbamenti meno casti e sublimati.

Arnoldo è l’ultimo tenore belcantista quando viene cantato da Nourrit, ma anche il primo tenore romantico quando interpretato da Duprez, il cui Do di petto, primo nella storia, accende d’entusiasmo il pubblico parigino, ma suscita l’astioso sdegno di Rossini. Sintomi di queste nuove tendenze ad accrescere la funzione espressiva del canto, sospinto a esasperazioni espressive che richiedono possanza oltre che finezza, sottolineatura esacerbata oltre che eleganza, sono ben avvertibili nel Moïse: Amenophi trasmette il conflitto lacerante di imperativi inconciliabili; Anaïde si confronta con impennate che rimandano al Verdi della maturità; Sinaïde mescola frasi da soprano drammatico a discese contraltili che rendono problematica l’assegnazione del ruolo. In quest’opera, difficile più d’ogni altra, gli aneliti del belcantismo metafisico si mescolano con le accensioni umanissime che renderanno popolare il melodramma tardo-romantico e verista.

La stagione scaligera di quest’anno appare concepita per raccontare con didascalica esemplificazione l’intera storia della vocalità melodrammatica con titoli emblematici e sovraesposti; una sfida che solo un grande teatro può permettersi di affrontare. Partendo dal belcantismo del suo Rossini (fu la Scala, nei primi anni settanta, a promuovere la rilettura filologica di questo autore, aprendo la strada a quella Rossini renaissance che ha condotto alla scoperta di tanti capolavori dimenticati), ci si inoltra, con regolare progressione, dal Bellini della Beatrice di Tenda, dove il canto si carica di emozioni e l’ibrido e immaginifico Hoffenbach di Les Contes d’Hofmann, dove il retaggio del belcanto si congiunge al canto popolare, transitando per il Verdi asciutto ed essenziale del Falstaff, il Bizet miracoloso di Carmen, e l’aristocratico eclettismo del Poulenc dei Dialogues des Carmelites, sino ai capisaldi del repertorio romantico e verista, con un crescendo che dalla lezione falstaffiana del Gianni Schicchi porta ai turbamenti di Butterfly, all’esasperazione di Turandot, agli intrighi di Fedora, al visonario errare dell’Olandese wagneriano.

Cantare oggi questo repertorio è più difficile: si pretendono colori e precisione del virtuoso belcantista e insieme lo scatto predatorio del tenore vincitore, il grido disperato dell’amante abbandonata, lo sdegno furibondo del baritono tradito, la roboante maledizione del padre disubbidito… I Cassius Clay capaci di inferire il colpo duro del peso massimo danzando sul ring con l’eleganza del leggero sono rari.

Alberto Zedda per Corriere della Sera

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