Nel teatro di Rossini si incontrano testi dove l’assunto principale, non sostenuto da uno sviluppo logico articolato, viene prevaricato da intuizioni musicali che rispondono a criteri diversi da quelli suggeriti dalle azioni prospettate, avare di sfumature psicologiche e sbilanciate fra lunghi momenti statici e folgoranti scioglimenti improvvisi.
Tancredi ne costituisce un esempio paradigmatico. La passione d’amore che inebria i giovani protagonisti è tanto smisurata e totalizzante da impedir loro comportamenti di normale sensatezza. L’ostinazione di Tancredi nel dubitare della fedeltà di Amenaide è più assurda della cecità di Otello; l’incapacità di Amenaide di difendersi è ancor meno credibile dell’ingenuità di Desdemona. Ma è proprio questa insensatezza a farci capire la incommensurabilità di sentimenti sospinti oltre i confini della ragione. Da questa macroscopica deformazione nasce la funerea poesia di un rapporto sublime e distruttivo, che accende l’illusione di una felicità paradisiaca nel momento stesso che in cui nega la possibilità di realizzarla. I dialoghi del Tancredi hanno sapore amaro e desolato e turbano quanto quelli del crepuscolare Pélleas et Melisande. Tancredi e Amenaide vivono una storia distaccata da quella degli altri personaggi e sono mossi da una logica che contrasta con la realtà che li circonda.
Quando Luigi Lechi convince Rossini a concludere l’opera con la morte del protagonista, come nel Tancréde di Voltaire da cui il soggetto deriva, in quel leggendario finale tragico eseguito una sola volta nelle recite ferraresi del 1810, egli compie un’operazione intellettualmente ineccepibile, ma con quel gesto sensato contraddice il senso recondito di un sogno, e ne turba il fascino morboso. Rossini risponde all’invito da par suo, e in una pagina di astrale lontananza coglie come meglio non si potrebbe il silenzio della morte. Con l’infallibile senso del teatrante egli avverte però che questa immagine concreta, questa logica conclusione viene a scontrarsi con l’alone misterioso che confonde l’agire dei suoi innamorati; e a posteriori la rifiuta per ritornare a quel finale lieto che, proprio per l’evidente assurdità, suona come il rasserenante risveglio da un incubo. Contravvenendo alla gelosa abitudine di conservare per sé gli autografi delle sue opere, egli lascia nella mani del Conte Lechi il manoscritto di quel suo diafano finale tragico, rinunciando così a riutilizzarlo nelle innumerevoli rappresentazioni del Tancredi che seguiranno e impedendo che altri potessero farlo in sua vece.
Stregato dall’incanto musicale, l’ascoltatore non stupisce che Amenaide e Tancredi trascurino l’occasione di due lunghi duetti per chiarire l’equivoco che li condurrà a perdersi, perché il fascino del loro amore risiede proprio nella malinconia della sua tragica impossibilità. Nella tragedia di Voltaire (una semplice casualità che la prima opera seria e l’ultima composta in Italia, Semiramide, provengano dalla stessa fonte ispiratrice?) questa assurdità non si verifica, perché Amenaide e Tancredi non hanno effettivamente l’occasione di incontrarsi da soli.
Abbiamo più volte ribadito quanto quest’opera sia cara ai rossiniani di pura fede per la qualità sublime degli affetti che vi albergano, espressi con “candore verginale” (Stendhal) da un Rossini che aveva raggiunto un miracoloso equilibrio fra l’urgenza dionisiaca dell’ispirazione e l’apollinea compostezza di una trasognata atarassia; fra l’abbandono ai romantici influssi della natura e il distaccato controllo dei sentimenti; fra la conquista di una struttura formale di calcolata articolazione e l’aerea leggerezza delle forme che la compongono; fra una vocalità virtuosistica di alto contenuto edonistico e un melodizzare semplice, capace di teneri abbandoni; fra l’ossequio a un neoclassicismo appreso dall’ammirato Tasso della Gerusalemme liberata e l’aprirsi a umori di intensa sensualità.
Tancredi ha posto le fondamenta di un nuovo melodramma capace di liberare sentimenti e comportamenti dalla costrizione della logica e della coerenza per caricarli di nuovi, alti significati. I personaggi si muovono in un universo fittizio creato dalla potenza della fantasia: un Rossini poco più che ventenne li osserva, saggio e distaccato, assaporandone gli insondabili esiti con la divertita ironia del sommo autore d’opera buffa.
Alberto Zedda
Divagazioni Rossiniane (Ricordi 2012)