Urgenza del Dionisiaco e aspirazione all’Apollineo nell’ultima opera di Rossini

Guglielmo Tell. Produzione di Luca Ronconi. Teatro alla Scala 1988

Verdi rimprovera a Rossini di non comporre sempre buona musica perché “le melodie non si fanno né con le scale, né con i trilli, né con i gruppetti” (lettera a Opprandino Arrivabene del 1871). A sua volta Rossini accusa i profeti della “musica dell’avvenire” di ricercare una “melopea declamatoria” che porta irrimediabilmente alla “morte della melodia” (colloquio con Wagner riferito da Edmund Michotte). Wagner, nella stessa occasione, si difende protestando di riconoscere anch’egli alla melodia una funzione essenziale, ma che questa deve essere ”diversa a quella che, confinata negli stretti limiti dei processi convenzionali, subisce il gioco dei periodi simmetrici, dei ritmi ostinati, delle progressioni armoniche prevedute e delle cadenze obbligatorie”. Insomma “una melodia libera, indipendente, senza pastoie: una melodia che, nelle sue linee caratteristiche determini non solo ogni personaggio per modo che non sia confuso con nessun altro, ma anche quel dato fatto e quel dato episodio inerenti alla contestura del dramma”.

È evidente che la scelta della vocalità, i carattere da attribuire alla “melodia” che deve rivestire le parole del testo letterario, costituisce il problema centrale per il compositore d’opera lirica. Ciò è tanto più vero per Rossini: l’opzione belcantistica, che poggia la sua specificità sui canto virtuosistico (dove il termine va però recepito nella radice primaria di virtù, privato da quel leggero senso di fastidio e di sufficienza che ha acquistato presso gli interpreti romantici), marcò indelebilmente l’estetica del suo teatro, favorendone dapprima il clamoroso successo, ma trasformandosi alla fine nella gabbia dorata che gli impedì di varcare la soglia del melodramma romantico, costretto alla frustrazione di veder uscire di scena, lui vivente, le sue opere.

Tutte tranne due: II barbiere di Siviglia, al quale un geniale libretto “non rossiniano” conferì connotazioni realistiche e una sorta di psicologismo da opera comica moderna, e il Guglielmo Tell, al quale il fraintendimento della sua vocalità (soprattutto per quanto riguarda il ruolo di Arnoldo), l’attenuazione del contestato “rossinismo” e delle sue formule di maniera, l’assunto libertario del soggetto rispondente alle richieste di un pubblico sensibile ai moti della società, la trama strumentale sontuosa e ricercata, il taglio grand opéra avevano consentito di assumere camuffamenti d’opera romantica.

II credo estetico che aveva guidato Rossini al teatro lirico era sicuramente di natura apollinea, giacché egli rifuggiva dall’inseguire un realismo la cui trasposizione in palcoscenico gli sembrava banale quando non inutile. A suo parere l’artista doveva creare una realtà immaginaria, situata nel regno del Bello Ideale, che la forza evocatrice della poesia giungesse a far apparire più vera del vero, collocata comunque in un “altrove” al riparo dalla violenza delle passioni e dei sentimenti quotidiani.

Appare quindi naturale la preferenza accordata a un canto affidato alle figurazioni anodine del linguaggio strumentale – scale, arpeggi quartine in rapida e simmetrica successione, bruschi salti ascendenti e discendenti – asemantiche per antonomasia, disposte in quella ben calcolata simmetria tanto invisa a Wagner. Ovvio che tali figurazioni si organizzassero in linguaggio compiuto, da non scambiare per elemento accessorio e ornamentale. II giro armonico semplice e lineare, basato sul rapporto elementare tonica-dominante, l’assenza di lunghe frasi melodiche, sinuose ed emotivamente significanti lo affranca dall’avventurarsi in percorsi tonali inquieti e lontani, in modulazioni complesse e imprevedibili.

La pulsione ritmica si esprime in brevi accensioni di straordinaria carica propulsiva. Tanto il suo canto è proteso alle raffinate sfumature belcantistiche, allo stupore del meraviglioso di matrice barocca, quanto la sua ritmica eccita moti di prepotente vitalità che invitano al dionisiaco. Affonda qui le radici quel secondo filone della sua musa che per tutto il cammino di compositore si scontrerà con il precedente, determinando contrasti e lacerazioni.

Nell’opera comica i due elementi, apollineo e dionisiaco, convivono positivamente poiché la dichiarata astoricità della vicenda e dei personaggi, non tenuti a conseguire una verità celata nel linguaggio allusivo e paradossale della satira e dell’ironia, non pretende la definizione di una coerente cifra estetica. Quando l’opera buffa, da astratto divertimento, gioco metafisico fine a sé stesso, si avvia a diventare (anche attraverso l’esperienza del genere semiserio) l’altra faccia del tragico, complemento indispensabile per decifrare l’uomo nella sua interezza, il dissidio esplode con forza dirompente. Interessato ormai quasi esclusivamente al genere serio, Rossini porta avanti e sviluppa i due filoni senza mai la volontà o la forza di scegliere fra essi: quello apollineo, riconoscibile in tante opere da Tancredi a Bianca e Falliero, da Adelaide di Borgogna a Semiramide; e quello più tormentato delle opere di segno dionisiaco, quasi tutte legate all’esperienza napoletana, da La donna del lago a Ermione, da Mosè in Egitto a Maometo II.

L’urgenza dionisiaca si rivela insofferente atta costrizione delle forme chiuse scopertamente delimitate: da qui le nuove frontiere strutturali delle opere      napoletane, dove il pezzo chiuso confonde i suoi margini espandendosi in dimensioni e sviluppi fuor d’ogni misura conosciuta. Si rivelano insufficienti anche i moduli e le convenzioni del canto acrobatico, le formule di un vocalismo sostanzialmente gelido e negato ai moti dell’anima, che si affida all’abilità e al carisma dell’interprete per vivere palpiti espressivi, emozioni di sentimento. L’orchestra acquista spessore e colorazioni sempre più significanti; il gioco delle tonalità si articola in prospettive complesse e misteriose; l’armonia sperimenta nuove arditezze; il ritmo costruisce drammatiche scansioni; il canto cerca sfogo ed evasione in recitativi e ariosi carichi di futuro. Nelle arie, nei duetti, nei pezzi d’insieme si avverte sempre più il limite posto all’espressione dalla morfologia belcantistica, invano spinta all’esaltazione e al delirio, come nette surreali e vertiginose acrobazie di Semiramide, l’opera-testamento che chiude la carriera italiana. Si tratta pur sempre di un delirio della ragione, che solo per traslazione coinvolge i moti del cuore. Non a caso risalgono a quegli anni i primi propositi di abbandonare la composizione.

Viene poi l’esperienza francese del successo delirante che gli tributa Parigi, ma anche le critiche accese e intelligenti dei tanti che comprendono che il “rossinismo” ha concluso il suo ciclo. A queste critiche Rossini risponde con un supremo atto d’orgoglio, testimonianza di grandezza creativa atta a legittimare l’intera sua opera. Vi coglie, ancora, l’agognato il traguardo di pacificare il contrasto che l’ha tormentato per tutta la vita: riunire in coerente equilibrio le due componenti della sua vena di artista. Guglielmo Tell è un capolavoro che non schiude nuove vie, tant’è che Rossini troverà la forza di quella decisione a smettere di comporre tante volte rimandata. Esso raccoglie intera l’eredità del musicista, senza nulla rifiutare, ricomponendo in mirabile sintesi elementi che apparivano inconciliabili.

L’inconsueto linguaggio ha consentito interpretazioni illegittime e fuorvianti. Non è vero che la vocalità di Guglielmo getti le basi per una melodia dell’avvenire: ariosi come “Resta immobile” hanno precedenti, anche in opere del filone apollineo (si pensi al delirio di Assur, visionario e sconvolto, nel secondo atto di Semiramide). Vero è che nel Tell quelle frasi intensissime sono accompagnate da una veste strumentale di suprema pertinenza e felicità. Così non e vero che con Arnoldo Rossini avesse inteso creare il tenore eroico e romantico celebrato dal mito. L’interpretazione del Duprez, ben diversa da quella pensata da Rossini per Nourrit (tenore di grazia che risolveva in falsettone i passaggi stratosferici), è stata certamente arbitraria, ma ha colto un dato di fatto sotteso nel ruolo e nel personaggio che sarebbe limitativo ignorare e cancellare. Oggi nessuno vorrebbe rinunciare all’emissione di petto per tornare al falsettone: si tratta però di non forzare l’eccellente intuizione di Duprez spingendo il ruolo di Arnoldo in una direzione contrastante con la mai rinnegata civiltà rossiniana.

La dimensione interpretativa attinta oggi da Chris Merritt garantisce proprio questa straordinaria capacità di restare tenore rossiniano anche nel momento di porsi nella scia del Duprez, aggiungendo al canto incandescente nitore, leggerezza, morbidezza, ampiezza di respirazione del belcantista. Così la tenerezza malinconica e la novità delle lunghe frasi melodiche inanellate senza respiro nell’Aria di Matilde, “Selva opaca”, non devono far dimenticare che altrove è pur sempre opportuna la voce del prediletto soprano drammatico d’agilità (vedi l’aria del terzo atto “Pel nostro amore non v’ha più speme”).

Ancora una vota ricorrendo a un libretto dai contorni scarsamente definiti (che ha scolorito l’infiammata materia del testo schilleriano), Rossini ha evitato il pericolo insito in una vocalità incapace di scolpire i grandi temi del dramma riducendo drasticamente la presenza protagonistica dei singoli personaggi, immessi in un più vasto e inusitato contesto.

Arnoldo non spicca per qualità di amante ideale né si mostra campione di libertà; Matilde non è donna di rinunce sublimi o di passioni travolgenti che possano annoverarla fra le grandi figure del melodramma; Guglielmo è padre prima che rivoluzionario capopopolo; Gessler, scialbo tiranno, Leutoldo e compagni soltanto stereotipi. La loro parte non è stata usurpata dal Coro (che pure gioca un ruolo di eccezionale ampiezza), dal popolo (che si esprime anche nelle tante splendide danze e negli echi di motivi paesani) o dalla natura (presente in tante suggestioni onomatopeiche): questi elementi concorrono in egual misura a comporre il mirabile racconto. Ma il canto non è più protagonista assoluto, giacché non gli si conferisce in esclusiva il compito di mimare le passioni, di interpretare i sentimenti, di dar voce agli accadimenti. La continua presenza della natura stende un respiro poetico senza tempo che involge ogni cosa e ogni persona, buona e cattiva, generosa e crudele, amante e indifferente in un’aura di panico incantamento.

Pur reclamando grandi interpreti, il Tell richiede soprattutto un grande direttore d’orchestra, capace di cogliere il respiro delle architetture e comporre in quadro unitario le molteplici figure del gigantesco affresco. Se poi il direttore ha il coraggio di non rifiutare a priori i “rossinismi” e i legami con un passato che non può venire rimosso e la cultura per trasformarli in una opera volta al futuro, allora si ha il raro esempio dell’esecuzione storica: come la presente di Riccardo Muti, direttore dionisiaco che sa piegarsi alla tenera elegia di fremiti apollinei.

Le ultime pagine operistiche di Verdi e Rossini paiono testamenti d’arte e preludono al silenzio, che per il primo è il disperato essicarsi d’ogni vena vitale e per l’altro la volontaria rinuncia a proseguire un discorso compiuto.

Falstaff intona “Tutto nel mondo è burla”, amara risata che suona sfiducia nell’uomo e nel suo destino; Guglielmo, al contrario canta “Tout change et grandit en ces lieux”, grido d’esultanza che la musica alza sino al cielo, riunendo in un abbraccio di speranza uomini e angeli. Per questo estremo messaggio Verdi, profeta della verità, cultore del realismo drammatico, ricorre all’astrazione della fuga e alla voce di un personaggio buffo. Rossini, maestro d’opera comica, eleva in cerchi concentrici una serena melodia popolare, ripetuta simmetricamente secondo gli antichi canoni del rossinismo, trasfigurata dalla potenza fantastica del genio.

Alberto Zedda

In note di copertina al CD Guglielmo Tell, Philips Classics

 

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