L’argomento del nostro incontro comporta alcune domande: cos’è il comico?, cosa significa tale lemma? La seguente domanda sarà: cos’è il comico per Giuseppe Verdi? Che posto occupa il comico nella sua produzione operistica?
“Comico” è quell’aspetto dell’espressione umana che induce al riso o al sorriso. Fra queste due reazioni esiste però una differenza sostanziale: il riso è una reazione corporale meccanica e automatica, che non implica un preventivo giudizio della coscienza e della ragione, una reazione provocata in genere da situazioni buffe pesanti, qualche volta volgari, con immagini legate al sesso, al cibo, alla morte, sbeffeggiata per esorcizzarla. Si ride ancora alla sottolineatura satirica di difetti e disgrazie, all’esibizione di handicaps e di comportamenti inusuali. Nel teatro di prosa questo tipo di comicità è in genere confinata all’avanspettacolo e a manifestazioni popolaresche e fracassone, ma ha saputo anche attingere dignità con la Commedia dell’Arte, codificata in rituali di alto valore simbolico e sociale, per tacere delle tracce ravvisabili anche nella grande tradizione classica aristofanea e plautina.
Il sorriso è riservato a una comicità sofisticata e surreale, con implicazioni filosofiche che toccano i significati del vivere e spesso comportano una visione pessimistica del mondo, intrisa di tristezza e di malinconia. La comicità del sorriso è di estrazione cerebrale, passa per il filtro dell’intelligenza e si nutre dei succhi della cultura e dell’arte. Terreno preferenziale è la commedia di carattere, discesa dalla lezione di Moliére e Goldoni, ma si può incontrare in ogni momento dell’esistenza dove intervenga una riflessione critica sui condizionamenti che regolano la vita umana.
Il comico ha sempre interessato anche il teatro musicale, sin da quando esso si manifestava in rappresentazioni popolari spontanee, ignare ancora delle codificazioni elaborate dai dotti frequentatori di Casa Bardi. Ma la comicità assunta dal teatro musicale mai è ascrivibile a quella grassa e plebea che induce alla risata incontrollata, grazie al filtro esercitato dal suono organizzato.
Già la prima grande opera lirica, quella Incoronazione di Poppea monteverdiana che anticipa e riassume tutti i temi trattati poi dal melodramma europeo, inframmezza scene di alto spessore etico e morale con i giochi amorosi del Valletto e della Damigella e con le paradossali riflessioni di Arnalta, rinfrescandole di un soffio di leggerezza e insegnando che una rappresentazione del vivere che si pretenda veritiera deve necessariamente comprendere l’alternanza di dramma e commedia, di lacrime e sorrisi, per determinarne il ritmo veritiero. L’immensurabile repertorio barocco secentesco dei Cavalli, Stradella, Melani, Cesti, Rossi, Sartori, è farcito di splendidi spaccati giocosi, ricchi di umori colti e raffinati, che sono la delizia di ogni ascoltatore esigente.
Il settecento, il secolo illuminato, promosse gli aspetti razionali del vivere e del sapere e, confidando senza riserve nella ragione, sembrò fornire all’individuo la chiave per risolvere gli interrogativi del vivere. La ragione, divinità incontrastata, avviò la filosofia all’idealismo kantiano e favorì la nascita di artisti, pensatori, scienziati che concentrarono sulla personalità di singoli individui la funzione di orientare il pensiero della società, sostituendosi a scuole e movimenti collettivi. Anche la musica risentì di questo processo e Corelli, Vivaldi, Haendel, Bach prepararono le conquiste formali di Haydn e con esse la nascita di nuovi giganti: Mozart riassunse e portò a compimento ogni esperienza del passato, aggiungendovi l’afflato del divino; Beethoven, sorretto da una volontà di potere senza eguali, spinse la musica a cercare significati e risposte proprie dell’etica, della metafisica, della religione, aprendo un capitolo di storia ancora in atto. Sollecitati da tali sfide, i romantici dello Sturm und Drang esaltarono il linguaggio della musica come l’unico in grado di svelare il segreto dell’esistenza, il solo capace di echeggiare miti e leggende racchiuse nei recessi dell’inconscio prenatale.
Sotto la spinta di questi entusiasmi, la musica strumentale, sinfonica e da camera, parve la più adatta a perseguire i nuovi ambiziosi traguardi e guadagnò favore e dignità nei confronti del melodramma, non più dominatore assoluto. Quando l’operista settecentesco, anche per servire l’orgoglio di divi cantori idolatrati, si illuse di aggiungere rigore e serietà al melodramma espungendone la componente giocosa, la monotonia derivante della gravità saccente delle storie spinse a creare uno spettacolo parallelo, un intermezzo esclusivamente buffo da rappresentarsi fra un atto e l’altro. Questi brevi intermezzi senza pretese, pensati per procurare un momento d’evasione, ebbero la fortuna di incontrare la grazia melodica di un Pergolesi, il sapido umorismo partenopeo di un Paisiello, il macchiettiamo garbato di un Piccinni. La presenza della musica, l’incantesimo del suono sposato alla parola, il fascino della voce cantata, preservarono tali intermezzi, pur mirati alla franca risata, dai lazzi che appesantivano le maschere della Commedia dell’Arte e il favore che li accolse fu tale da dar luogo alla nascita di un genere operistico di nuovo conio, incentrato su soggetti esclusivamente dedicati a storie giocose. L’opera comica conobbe una vita autonoma e felice, contribuendo più d’ogni altra forma musicale a diffondere la musica in luoghi remoti, fuori dalle corti e dai cenacoli dove essa veniva praticata e goduta soltanto da chierici e potenti, conquistandole definitivamente un pubblico borghese e popolare. Centri di produzione animatissimi, come quelli di Napoli e Venezia, divennero scuole di alto prestigio, capaci di attrarre ed esportare talenti d’ogni provenienza. Ma, per reagire alla severità pedante dell’opera seria, quel melodramma si accontentò di perseguire un divertimento generico e superficiale, rinunciando a considerare il comico come una categoria dello spirito per nulla minore, l’altra faccia del tragico, strumento indispensabile per indagare l’animo umano, come avevano insegnato i teatranti dell’antica Grecia, che sempre accostavano la maschera del riso a quella del pianto.
I maggiori compositori intuirono presto il disagio di questa innaturale separatezza fra serio e comico: anche quelli che dapprima avevano praticato separatamente i due generi con risultati esaltanti, come Mozart e Rossini, si indussero presto a riunirli, mescolandoli in quei drammi giocosi che per Mozart si chiamarono Don Giovanni, Nozze di Figaro, Così fan tutte, Flauto Magico e per Rossini Barbiere di Siviglia, Cenerentola, Gazza ladra, Viaggio a Reims. In questi melodrammi l’elemento comico non era limitato all’intromissione di episodi estranei alla storia narrata (che procedeva del tutto autonomamente, per nulla da essi influenzata), ma veniva a costituire un diretto contributo allo svolgersi della vicenda, con pari importanza e dignità, contribuendo sostanzialmente a determinare la cifra stilistica dello spettacolo e la definizione psicologica dei personaggi. La produzione puramente comica di Mozart (La finta semplice, La finta Giardiniera) rimase legata allo spirito disimpegnato e generico del melodramma comico settecentesco, laddove quella di Rossini (le farse veneziane, L’italiana in Algeri) aveva saputo raggiungere le stesse vertiginose alture dei drammi seri e semiseri ricorrendo all’astrazione del comique absolu , aggiungendovi il gioco raffinato dell’ironia e dell’ambiguità, e, soprattutto, imprimendovi la frenetica accelerazione di un vortice ritmico impetuoso racchiuso in inesorabile quadratura formale. Dove nel primo Mozart le colorature acrobatiche, gli abbellimenti vocali sono ancora il riflesso di un settecentesco virtuosismo asemantico, di estrazione strumentale, in Rossini questi elementi diventano l’arabesco dei sogni, il respiro della bellezza, il fascino del nonsense che assume significato grazie alla rigorosa organizzazione di simmetrie libere e sapienti. Quella di applicare all’opera seria le strutture formali, l’ardore immaginativo e la licenza inventiva che caratterizzano il teatro giocoso fu l’idea che fece di Rossini il demiurgo che rivoluzionò il melodramma, spalancandogli le porte del futuro. Ciò che lo rende attuale è l’audacia impareggiabile di sovvertire le leggi della credibilità, la capacità sorprendente di render logico l’illogico, di spacciare l’assurdo come vero, di smontare noiose certezze.
Il teatro comico operistico trova ancora grande spazio nell’opera di Gaetano Donizetti, compositore dotato di felicità inventiva disciplinata in compiuta unità stilistica: ispirato dall’esperienza rossiniana, Donizetti si cimentò tanto nella farsa surreale (Rita, Betly, Il campanello dello speziale) quanto nella commedia giocosa (Elisir d’amore, Don Pasquale, Fille du Régiment), sempre però collocando le sue storie dentro la realtà del tempo e dello spazio e, nei drammi giocosi, ammantandole di un tocco di sincera umanità che le rende capaci di commozione. In queste opere Donizetti asseconda le attese di un pubblico che cerca divertita evasione nella reiterazione di gesti e comportamenti abitudinari, senza l’ambizione di turbare le coscienze o di aprire nuovi orizzonti all’intelletto e alla fantasia, e tuttavia capace di accendere i bagliori di “Una furtiva lacrima” o di “Me ne andrò in lontana terra”.
Verdi fu il genio che volle conquistare al melodramma il potere di sublimare le umane passioni, affidando alla musica il compito di congiungere il viver pratico e il viver spirituale, per arrivare a comprendere e giudicare, contendendo alla religione il diritto di appropriarsi in esclusiva del divino e del sacro. Questa nuova religiosità laica, che già Beethoven aveva introdotto nella musica strumentale, permise a Verdi di far palpitare storie antiche e lontane, quanto di commuovere con squarci di cruda attualità. Ma queste grandezze non si ritrovano nelle non molte pagine da lui dedicate al genere giocoso, se non nell’estremo capolavoro, Falstaff, opera che peraltro risulta improprio qualificare comica.
Nell’accingersi a comporre Il finto Stanislao, ovvero Un giorno di regno, Verdi sembra ritenere che l’opera comica sia ancora quella che aveva conosciuto nella sua giovinezza, collocata in un paradiso affrancato dal dovere di reagire al fuoco della vita reale, dall’obbligo di registrare sovvertimenti sociali e rivoluzioni culturali di natura extramusicale. I modelli a cui si rifà sono ancora le scintillanti e popolari partiture del Rossini comico, ma nel Giorno di regno, come nel Don Pasquale o nella Fille du Régiment di Donizetti, il rossinismo smarrisce la sua celeste astrazione per diluirsi in casalinga e umana quotidianità.
Nel Giorno di regno Verdi non si pone problemi di rinnovamento sintattico o formale, ignora le accresciute esigenze di movimento scenico ed elude la domanda di nesso e continuità narrativi che egli stesso risolverà con perentoria genialità nelle opere a venire. La scialba vicenda si articola in una serie di piacevoli quadretti, richiamantesi all’antica commedia degli affetti, intercalati dal tradizionale recitativo secco, dove si concentra il procedere della storia ambientata in una improbabile Polonia, ancora in moda per le libertarie e condivise sollevazioni dei polacchi contro i russi, come lo era stata la Grecia per le rivolte dei greci contro i turchi al tempo del rossiniano Siége de Corinthe. Nella Milano occupata dagli austriaci, in quel 1840 cominciavano a soffiare i primi venti patriottici, e forse il larvato richiamo risorgimentale non giovò allo spettacolo, anche per la vaghezza superficiale della vicenda narrata.
Il finto Stanislao ovvero Il giorno di regno fu accolto e recensito assai negativamente all’epoca: “La musica è leggera e priva affatto di originalità, e ad ogni passo v’incontrate in un motivo che sapete a memoria e quando abbiate avuto la pazienza di ascoltarlo fino alla fine vi trovate più che altro annoiati”, scrisse il critico del giornale “Glissons, n’appuyons pas” del 9 settembre. Verdi ammise che “vi ebbe certo una parte di colpa la musica, ma una parte vi ebbe pure l’esecuzione” e il critico sopracitato lo ribadisce, ammettendo che buona parte dell’insuccesso si dovette anche alla circostanza che i cantanti, in specie la signora Marini e il Salvi (il soprano e il tenore) non s’impegnarono gran che e “il basso Ferlotti parve oppresso dal peso della sua enorme parrucca”. Anche la valutazione dei musicologi del nostro tempo si mostra perplessa e severa, ma la prova del palcoscenico non conferma questo giudizio. Quando l’opera venne riproposta, per la prima volta dopo il fiasco scaligero di quel 5 novembre 1840 (nel 1963, da me diretta al Teatro Comunale di Parma in occasione delle solenni celebrazioni dedicate al centocinquantenario della nascita di Verdi), il successo di pubblico e di critica fu grande, tanto da venir presto ripresa, in un nuovo allestimento e sempre con la mia direzione, al Teatro Sociale di Como, dove meritò una entusiastica recensione di Lele D’Amico, il più influente e geniale scrittore di cose musicali che contava allora l’Italia. Il finto Stanislao incontrò buon successo anche in Spagna, dove fu presentato al Festival Mozart de La Coruña nel 2001, forse anche perché il pubblico odierno non ha più modo di riconoscervi quei “motivi saputi a memoria” che tanto disturbavano il recensore della prima rappresentazione milanese. Per la cronaca va ricordato che negli stessi giorni della composizione di quest’opera Verdi perdette la seconda figlia e la prima moglie, eventi che certo non propiziavano umori sereni.
Il soggetto, del celebratissimo Felice Romani, presenta, senza troppe finezze psicologiche, la situazione parallela di due coppie d’amanti vittime d’equivoci paradossali. Non mancano trovate divertenti, come quelle che accompagnano il duello fra il Barone e il Tesoriere, dove l’arma scelta per battersi è il cannone:
Barone Tutte l’arme si può prendere
de’due mondi e vecchio e nuovo,
me lo bevo come un ovo,
me lo voglio digerir.
Tesoriere Ciarle, ciarle: pria di scendere
al fatal combattimento
lasci detto in testamento
dove s’abbia a seppellir.
Questi versi danno origine a un classico topos dell’opera buffa condotto da Rossini all’iperbole dell’eccellenza, il duetto fra bassi, che Verdi (come già Donizetti nei duetti fra Don Pasquale e Malatesta) saprà emulare al meglio, raggiungendo temperie comica di sicura presa.
L’impianto vocale dell’opera, ancorato a scelte di tipo belcantistico in allora obsolete (aria tripartita e cabaletta), non era tale da propiziargli il favore di un pubblico ormai proteso alla conquista di quelle emozioni forti che pochi anni dopo riconoscerà appannaggio precipuo di quello stesso Verdi che stava contestando. Lo spettatore odierno, grazie alla frequentazione di repertori che trovano nel belcanto l’obbligata chiave di lettura (Haendel, Vivaldi, Mozart, Rossini) ha riscoperto il piacere ineffabile del virtuosismo canoro e recepisce con ben diverso godimento gli acrobatismi vocali dei personaggi. Con un approccio di rigorosa impostazione belcantistica, Il giorno di regno rivela umori e significati impossibili da cogliere per lo spettatore del suo tempo e finalmente validi per quello di oggi.
La Sinfonia che apre il primo atto, pur nella rozzezza di una strumentazione di tipo bandistico, mostra il piglio e il vigore di un compositore destinato a fornire nuova linfa al teatro lirico e predispone a un ascolto vivace, anche perché si avvale di temi musicali ripresi dal contesto dell’opera. La carenza di approfondimento psicologico dei personaggi, abituale nell’opera comica convenzionale, suggerisce di cercare nell’edonismo di un canto non banale le sollecitazioni del divertimento, piuttosto che negli sviluppi di una trama povera d’ambizioni. I personaggi visti con umana simpatia, e dunque destinati a raccogliere predilezione, sono quelli dei due bassi, il Barone e il Tesoriere, retaggio di una grande tradizione, mentre il protagonista Cavalier Belfiore raramente riesce a staccarsi dalla fissità dello stereotipo. Se il tenore di grazia in poche occasioni supera il livello della convenzione, le due donne, anche a ragione di un canto prezioso e ricercato e di un succoso accompagnamento strumentale, danno origine a momenti di intrigante piacevolezza.
Nel primo atto risalta il duetto fra tenore e baritono, dove il patetico e il comico si confrontano in sapiente equilibrio, con ottimo risultato espressivo: giacché Verdi non sa vivere il comico allo stato puro come il Rossini dell’Italiana in Algeri, la commistione di generi diversi, come avviene in questo duetto, gli consente di affermare una dialettica di notevole originalità. Ancora nel primo atto, il Quintetto (dove le fresche melodie del tenore e del soprano vengono esaltate dal borbottare delle voci gravi maschili), anticipa i concertati del Falstaff, laddove Fenton e Nannetta, dimentichi del mondo, amoreggiano nascosti mentre gli uomini che danno la caccia al grassone risaltano il loro dolce melodiare contrappuntandolo con un sottofondo sordo e minaccioso. Come nel Falstaff, la situazione viene ripetuta due volte: qui e nel successivo Sestetto, che con l’aggiunta del personaggio della Marchesa chiude praticamente l’Atto Primo.
Il secondo atto senza aggiungere novità e sorprese di rilievo, conserva coerentemente la cifra comica del primo e fornisce nuove occasioni di canto brillante e elaborato, culminanti nel già segnalato Duetto dei bassi.
Difficile indovinare le ragioni che spinsero Verdi a non comporre altre opere comiche per oltre cinquant’anni, fino all’inaspettato congedo del Falstaff. I pochi spaccati burleschi che si incontrano nelle sue opere fanno chiaramente intendere che il genere buffo non lo interessava come fenomeno culturale a sé stante: lo provano non tanto la rarità di pagine classificabili come comiche, quanto la genericità e la mancanza di preciso orientamento estetico che esse rivelano. E difficile credere tuttavia che un indagatore dell’animo umano tanto acuto e profondo non sapesse valutare e cogliere i risvolti rasserenanti del sorriso. Val meglio pensare che Verdi ritenesse il suo linguaggio musicale, tanto carico di emozione, meglio indicato a sondare lo struggimento del dolore e l’inaccessibilità dell’amore. Le pagine brillanti che si incontrano nella Traviata (I e III atto), nel Rigoletto (molta parte del Duca), Trovatore (l’accampamento degli zingari), Ballo in maschera (Oscar, il sarcasmo dei congiurati, la visita alla maga), Otello (la scena fra Jago e Cassio) non consentono una catalogazione di genere. Nella Forza del destino, dove si incontra il lascito comico più consistente, i personaggi di Melitone e Preziosilla non vengono creati per introdurre un liberatorio sorriso nella cupa foschia del dramma, ma per provvedere una cornice popolare con marcate sottolineature etniche, utili a rendere evidenti e riconoscibili gli spostamenti di luogo e di tempo che la storia, lontana dai consueti ritmi aristotelici, prevede.
Per cinquant’anni Verdi aveva cercato la sua personale risposta al knose sé autón dei greci mettendo a nudo vizi e virtù: la solitudine del potere, il morso della gelosia, lo strazio della paternità oltraggiata, il rovello dell’amore impossibile e l’orrore di quello avvelenato, la fedeltà, l’amicizia, l’onore, l’eroismo, il tradimento e il delitto, il paradiso della felicità e l’inferno del nulla. Certo, il drammaturgo che tanto aveva pianto e fatto piangere non ignora che nel fondo delle coscienze rivoltate alberga il conforto del sorriso, la speranza dell’evasione; ma non cessa di essere una scelta sorprendente quella di affidare alla voce di un buffone la sua ultima parola sul destino degli uomini. Alla soglia della morte, carico d’anni e di umanità, Verdi attesta il suo credo, in una sintesi geniale dove il comico, ritrovato il posto che gli spetta di diritto accanto al tragico, offre occasione per una creazione, Falstaff, che non ha eguali né confronti.
Il Falstaff non è un’opera comica (come potrebbe esser comica un’opera che conclude con l’amarissima confessione del tutto nel mondo è burla?); il Falstaff non è neppure una vera e propria opera, nel senso letterale del termine, giacché nel suo contesto convivono due spettacoli di opposto significato, uno di segno realistico e di matrice buffa (svolto nel primo e secondo atto) e uno di segno onirico e di matrice seria (nel terzo atto); due spettacoli distinti tenuti insieme da un collante fascinoso: la dolcissima e triste malinconia dell’esistenza.
Quale autore drammatico avrebbe potuto sensatamente ripetere due volte la stessa storia nel medesimo contesto? Nel primo e secondo atto si racconta come viene frustrato da un marito geloso il proposito di Falstaff di conquistare il favore di una bella dama che abita la contrada. La vicenda è arricchita di un contorno saporoso fornito dagli accoliti del seduttore e dalle amiche dell’oggetto desiato (una delle quali è fatta oggetto delle medesime brame), oltre che da una fresca trama collaterale agita da due adolescenti innamorati. A parte questo profluvio di sapide notazioni, il meccanismo della storia narrata non è diverso da quello che si ritrova negli innumerevoli soggetti di farse che mettono in berlina i pruriti erotici di pretendenti scaduti, dal Bartolo di Paisiello, al Conte delle mozartiane Nozze di Figaro, dal Ser Marcantonio di Pavesi al Don Pasquale di Donizetti. Né molto diversa da quella dei suoi predecessori è la cifra della comicità prescelta dal musicista, pur se il talento del compositore determina la distinzione fra macchiette senz’anima e persone del nostro intorno. Ciò che fa diverso e immensurabilmente grande il messaggio verdiano rispetto a quello dei predecessori è la straordinaria quantità di immagini distillate in ogni parola musicata, in ogni gesto compiuto. A questa mirabile ricapitolazione di comportamenti tesi alla gioiosità dell’erotismo contribuisce un libretto cui l’estensore, Arrigo Boito, ha saputo conservare l’afflato del suo ispiratore, William Shakespeare. L’intelligenza, la sensibilità, la fantasia con cui Verdi ha retto il passo di questa prosa elaborata e caleidoscopica sono la prova inequivocabile di quanta sapienza, cultura, civiltà albergassero in un autore che gli sprovveduti si ostinano a ritenere condizionato dalle umili origini contadine. Questa bellissima opera buffa in due atti e quattro quadri non comporta istanze di ordine morale, giudizi sui valori fondanti dell’uomo. Quando Falstaff si distende al sole bevendo una coppa di vino ristoratore, psicologicamente disposto a cedere nuovamente alle lusinghe ingannevoli di Quickly, appare chiaro che l’uomo non ha tratto alcuna lezione dall’infortunio subito: un episodio passeggero e sfortunato, presto obliterato dal presentarsi di un’altra occasione. Nessuna massima, nessun giudizio morale, nessuna deduzione etica è discesa da quell’avventura, la cui ragion d’essere si esaurisce nell’edonistico piacere del divertimento intelligente.
Componendola, riconfrontandosi con quel genere comico che aveva così a lungo accantonato, Verdi deve però aver intuito che proprio l’assurdo di impulsi insensatamente gioiosi, incongrui per esseri umani condannati dalla nascita alla cognizione della morte, poteva arrivare a spiegare il significato ultimo dell’esistenza. Posto di fronte a un terzo atto dove si ripete con poche varianti il rito della burla, duplicando situazioni che nessun autore drammatico avrebbe voluto ripetere nello stesso contesto, Verdi vi colse, con intuizione davvero shakespeariana, la possibilità di arrivare a una sentenza definitiva e solenne nel processo di conoscenza dell’amino umano. Di fatto, il terzo atto di Falstaff non è episodio da opera buffa, bensì un potente squarcio d’opera seria, l’esito tragico definitivo raggiunto dal suo teatro drammatico, che afferma il nessun senso del vivere. Per caricarlo di questi blasfemi significati, Verdi ricorre a quel comique absolu così familiare a Rossini, ambientando i suoi personaggi, trasformati in fate, folletti, elfi, divinità silvestri, in un altrove fantastico dove i confini fra il mondo reale e quello onirico si confondono come quelli che separano il mondo consapevole dell’ego dal mondo ignoto dell’es. Quel panorama sovrannaturale viene evocato da una musica del tutto nuova, dove dolcissimi timbri di arpe e archi flautati propiziano rarefatte emozioni che trasformano la squallida domanda erotica di Falstaff in aspirazione a una conquista di assoluto, nel momento stesso in cui l’annullano con la disperante visione del nulla. Nella parte gioiosa della commedia il fallimento risibile di un’intrapresa reale viene presto cancellato dalla speranza di una nuova avventura; nella seconda parte il fallimento di un’avventura sognata, idealizzata e proiettata nel sublime porta alla conclusione disperante del “Tutto nel mondo è burla”. Solo la musica può compiere il miracolo di trasformare la maledizione di quella tragica sentenza in superba affermazione di grandezza, sicché l’animo umano, anziché uscirne schiantato, come Falstaff possa riprendere a sperare: “va, vecchio John, per la tua via”…
Alberto Zedda