La donna del lago è opera bellissima, affascinante e misteriosa, fra le migliori di un compositore che non conosce la mediocrità. É percorsa da fremiti protoromantici cari ai cultori dello Sturm und Drang e fecondata da passioni affrancate dalla banalità. Presenta una straordinaria galleria di affetti, narrati e vissuti in modo traslato e metaforico. L’opera ribolle d’amore, ma l’incontro amoroso mai si realizza; è pervasa di furia guerriera, ma l’ira nasconde gelosia e rovello d’anime; è cosparsa di languide dolcezze, ma l’erotismo rimane inappagato e si veste di tristezza. L’amicizia, gli affetti familiari, il panteistico rapporto con la natura celano turbamenti profondi, inquietudini esistenziali. Dolore e morte vi compaiono con onirico distacco. Su tutto domina l’incomunicabilità, l’incapacità di capire se stessi e il prossimo, di leggere il messaggio dei sentimenti, di ordinare gli impulsi dei sensi.
Ancora una volta si ripete il miracolo di un’opera che per struttura formale, per la conduzione dei pezzi chiusi, per codice espressivo, per vocabolario semantico, per le scelte vocali sembra simile a tante altre di Rossini e che all’ascolto rivela invece un paesaggio sconosciuto, portatore di tematiche nuove. La sua scomparsa dal repertorio è spiegabile soltanto con la generale rimozione imposta al teatro rossiniano dai furori dell’inveramento romantico e verista.
Non è opera facile da recuperare neppure per l’uomo d’oggi, che pure ha familiarità con concetti quali ambiguità, astrazione, metafora. L’inestricabile intreccio di passato e futuro che avviluppa l’opera rossiniana rende difficile il compito di tradurne le emozioni, a noi come ai contemporanei, passati in poco più di un decennio dalle acclamazioni deliranti all’oblio. Ancora una volta Rossini si mostra autore elitario, che pretende continui rimandi alla letteratura, alla metafisica, alla psicoanalisi per essere penetrato a fondo, al di là dell’energia orgonica sprigionata dalla pulsione irrefrenabile della sua musica, in apparenza cosi tersa e solare.
Basti osservare il rilievo protagonistico che affida all’orchestra, diverso da quella degli operisti italiani che l’hanno preceduto, preoccupati soprattutto di provvedere un pratico sostegno alla voce, lontani dal farne un soggetto dialettico capace di autonome significazioni.
Ne La donna del lago l’orchestrazione allinea alle consuete preziosità tocchi originali, come il largo impiego dei corni da caccia dentro e fuori la scena (prima che Freischütz e Euryanthe venissero conosciuti!); la presenza massiva della banda, introdotta, non soltanto nei grandi pezzi d’ assieme, con precise intenzioni drammaturgiche; l’impiego dell’arpa, per suscitare suggestioni arcaiche nell’accompagnamento del canto ossianico richiamando alla memoria strumenti popolari scomparsi; la compagine strumentale singolare (quattro clarinetti, due fagotti, due corni e arpa) che nel canto di Uberto fuori scena, rievocante i momenti dell’amore, si contrappone alla banda nel Rondó conclusivo di Elena.
Tutto ciò contribuisce a creare un colore, una tinta sonora che basterebbe da sola a distinguere quest’opera dai capolavori che gli sono fioriti intorno nella straordinaria stagione compositiva degli anni trascorsi a Napoli.
Il testo letterario, ambizioso nei richiami ossianici che oltrepassano le mode walterscottiane, presenta personaggi evanescenti, scarni di manifestazioni emotive e di reazioni ad effetto. La musica di Rossini li accende di afflato poetico, li immerge nel turbamento della lontananza e li espande in dimensioni di forte rilievo. Leggerlo contestualmente alle immagini musicali che ha suscitato nel musicista può mutarne profondamente i significati.
Per entrare subito nel vivo della narrazione, Rossini rinuncia alla tradizionale sinfonia: una semplice cadenza di otto battute – dominante/tonica – simmetricamente ripetuta due volte, avverte che anche nell’accingersi a svolte drammaturgiche Rossini non rinnega vocaboli e formule del suo personalissimo bagaglio ideologico. Tre unisoni degli archi e tre accordi del tutti orchestrale, lentamente scanditi sui gradi canonici della cadenza perfetta, bastano a evocare risonanze arcane e insieme il silenzio e l’immobilità della foresta. Il senso panico destato da questi fugaci accenti permeerà l’intero sviluppo dell’opera immergendo costantemente i personaggi nel respiro della natura e conferendo alle loro azioni il distacco sacrale del mito.
Re Giacomo, cui la preoccupazione di difendere il trono insidiato da principi ribelli non impedisce di rincorrere i sogni, finge di perdersi nel bosco inseguendo una cerva. In realtà ha seminato i compagni di caccia per ritrovarsi solo sulle sponde di un lago dove la voce popolare vuole che ogni giorno all’alba compaia una fanciulla di straordinaria bellezza. La scorge, infatti, e ne resta abbagliato. Illuminata dai pensieri amorosi rivolti al suo Malcolm, Elena si presenta con una canzonetta semplice e cattivante, “Oh mattutini albori”, lontana dal trionfalismo delle sortite divistiche, ma pervasa da un erotismo sfuggente e sottile. Senza rivelarle l’identità, Giacomo chiede aiuto per ritrovare la via smarrita. Con disinibita naturalezza Elena non esita a traghettarlo sulla sua barca e a ospitarlo in casa, circondandolo di attenzioni cortesi. Il discorrere è piano e gentile, il comportamento casto e amicale, ma la musica carica questo incontro di dolce incantamento, di morbosa tensione, sicché nessuno si sorprende che nel cuore di Giacomo sbocci prepotente l’amore.
Dagli stemmi che ornano le pareti e le armi, Giacomo apprende di essere in una dimora ostile: Elena infatti è la figlia di Douglas, un tempo amato precettore e ora capo delle fazioni ribelli. Dalle donzelle che la festeggiano conosce che la giovane è promessa sposa a un Rodrigo ch’ella non ama, prescelto dal padre per averlo potente alleato nella lotta contro il re. Giacomo deve fuggire, ma l’ansioso languore che la sua presenza ha destato nell’acerba femminilità di Elena gli lascia una speranza.
Elena attribuisce il turbamento che prova alla nostalgia per Malcolm e, mascherata d’innocenza, esercita inconsciamente una seduzione fatale. Il duetto fra i due giovani che chiude la scena è uno dei più bei dialoghi amorosi di Rossini, certo il più sensuale, il più carico di passione. Liberato dall’obbligo di un confronto diretto fra innamorati, giacché l’estasi di Elena è volta a Malcolm non a Giacomo, Rossini allenta il freno del riserbo.
Giunge Malcolm, giovane guerriero che, per amore di Elena piuttosto che per fede politica, ha tradito il suo re e disertato le sue schiere unendosi ai ribelli per esserle vicino. Nell’aria di sortita “Mura felici”, intrisa di malinconia che invano le ansie amorose cercano di camuffare, racconta la malia che l’ha stregato. La simpatia che suscita il suo fresco entusiasmo avverte oscuramente di un destino non felice. Benché il suo canto promani dalla tradizione dei personaggi androgini legati al rimpianto per il castrato, Malcolm appartiene alla cultura del romanticismo. La sua bravura d’interprete dovrà caricare d’emozioni e presagi una cabaletta, caratterizzata da un tema melodico che può sconfinare nella banalità. Malcolm dispiega una sensibilità non manierata che si sposa a una nobile fierezza, e si configura eroe in negativo, destinato a conferire spessore all’incertezza di Elena e magnanimità alla rinuncia di Giacomo.
Con l’entrata di Douglas assistiamo all’usato scontro fra dovere e sentimento, fra il cuore e l’interesse. Elena deve cedere alla ragion di stato: Rodrigo otterrà l’assenso alle nozze, ma comprende che non ne avrà mai il cuore di Elena e intuisce il legame che la lega ad altro uomo. II drammatico scontro, fulcro del prossimo Finale Primo, non deflagrerà perché interrotto dal richiamo della battaglia. Il tenero duettino che segue l’uscita di Douglas vibra di dolente commozione, ma stupisce che Elena trovi per il suo amante toni ben diversamente fascinosi di quelli riservati allo straniero, laddove Malcolm tempera l’eroicità del travesti col lirismo sincero dell’amoroso.
L’arrivo di Rodrigo, ultima pedina di questa drammatica partita, dà l’avvio al gigantesco Finale Primo. La sua durezza, la franca lealtà introducono una nota di concretezza in tanto smarrimento delle coscienze. Con lui ricompare il coro maschile, che già all’inizio dell’opera aveva recato un contributo sostanzioso alla definizione psicologica dell’ambiente silvestre. L’entrata a ondate successive dei clan ribelli, accompagnati da banda, tamburi e bandiere, è trovata magistrale e porta a una chiusa d’atto di trascinante irruenza. Una pausa distensiva, nel magma incandescente di questo finale, è introdotta dal coro dei bardi con arpa obbligata, un topos sacrale che il Bellini di Norma terrà presente.
Giacomo, sotto le spoglie di Uberto di Snowdon, torna a cercare Elena per rivelarle il suo amore. La aria che intona “Oh fiamma soave”, oltre a essere un manifesto di vocalità assoluta dove vengono tradotte in emozioni le sottigliezze del più puro virtuosismo belcantistico, è una professione di sublime nobiltà, di intensa sincerità. Con questo messaggio Giacomo-Uberto diventa prototipo dell’eroe romantico, come Werther generoso nella rinuncia alla felicità per non turbare quella dell’amata, disperato nel desolato allontanarsi solitario.
Elena è sconvolta da questa confessione amorosa, ignara di aver suscitato la passione con atteggiamenti che il giovane le rammenta fra rimprovero e nostalgia. Quando Uberto si accinge a lasciarla, accogliendo le sue suppliche, Elena, confondendo ogni logica, gli chiede smarrita: “Ten vai?…”.
Sopraggiunge Rodrigo e l’incontro fra i due, rivali in amore prima ancora che irriducibili nemici, accende i bagliori della tragedia. Tentando di interrompere il furibondo duello, condotto a suon di do sovracuti, Elena leva un grido di tale intensità, di tale suprema ispirazione: “Io son la misera che morte attende”, che tradisce un coinvolgimento emotivo impossibile da indirizzare a un estraneo, come vorrebbe Uberto, o a un nemico della sua felicità, come Rodrigo. Questo terzetto, culmine dell’opera, è una vetta della drammaturgia musicale non soltanto rossiniana.
Con Rodrigo cade la prima vittima di una creatura che sembra mescolare un destino di sventura al fascino di una insondabile femminilità che ci riporta a quella di Isotta, di Carmen, di Melisande.
La successiva aria di Malcolm annuncia la rovina del secondo pretendente, che va a perdersi in una battaglia senza speranza nel tentativo di salvarla, risultandone prigioniero come Douglas. Quando nel finale dell’opera Elena, seguendo il suggerimento di Uberto, si rivolge a un re che crede di non conoscere per ottenere salva la vita del padre e di Malcolm, il lieto fine d’obbligo adombra una diversa verità. Douglas, liberato, non ottiene parole di comprensione: Rossini il presunto conservatore, non dedica una nota a questo padre-padrone e lo fa uscire di scena nella più imbarazzata indifferenza. Malcolm riceve da suo re l’attestazione di stima che la buona fede dei suoi comportamenti merita, ma non una parola da Elena, che intona per suo conto una cavatina risuonante di una gioia, che dopo l’uscita di Giacomo rimane difficile comprendere.
Giunto alla parola “felicità”, Rossini prescrive al canto una sospensione, una pausa sul tempo forte che suona come innaturale esitazione. L’impressione che se ne ricava è che, nel momento di pronunciare la magica parola che sigla il suo futuro, Elena avverta, con la divinazione del presentimento, che il suo destino felice si è irrimediabilmente dissolto con Uberto. Per un gioco del caso, comunque difficile da giustificare con la ragione, la parola che il libretto assegna al coro e che Rossini fa risuonare in concomitanza col “felicità” di Elena è “avversità”.
V’è ancora un indizio inquietante. La cabaletta registra l’insolita presenza della banda. Col doppio piano sonoro – quello dell’orchestra e quello della banda – Rossini sembra invitarci a cercare una doppia verità: quella pretesa dal lieto fine e quella suggerita da una musica che ha gettato ombre fra le chiare parole del testo.
Alberto Zedda