L’edizione critica del Barbiere di Siviglia, la prima di un’opera lirica del repertorio italiano del primo Ottocento, approda al Rossini Opera Festival dopo oltre vent’anni dalla sua presentazione.
L’avvenimento merita di essere sottolineato perché è con questa partitura, voluta e pubblicata da Casa Ricordi, che si è aperta l’era delle edizioni critiche di opere del grande repertorio italiano. Dopo la sua comparsa, le iniziative editoriali ad indirizzo critico si sono moltiplicate. Oggi sono in rigoglioso sviluppo imprese volte alla pubblicazione delle opere di grandi autori melodrammatici, fra cui Rossini, Verdi, Bellini, Donizetti.
L’impatto provocato dalla partitura critica del Barbiere su pubblico e musicologi di ogni paese è stato favorito dall’enorme popolarità di questo capolavoro, ancor oggi fra le opere più eseguite. La notorietà della musica ha consentito di cogliere immediatamente le differenze che corrono fra il testo rivisitato, così nitido ed essenziale nello scarno discorso di segno classico, e le versioni tradizionali, caricate di coloriti e appesantite nel discorso strumentale e vocale da incrostazioni di svariata provenienza.
Le novità sono apparse lampanti nelle recite scaligere del 1968, quando la partitura ripulita è stata presentata per la prima volta, grazie alla strepitosa direzione di Claudio Abbado, paladino convinto del novello spirito critico. L’opera ne è risultata rinfrescata, splendente di aristocratica brillantezza e cameristica levità. La sorpresa si è ripetuta analoga nelle successive proposte rossiniane di Abbado: La Cenerentola e L’Italiana in Algeri, entrambe presentate in edizione critica. Non vi è dubbio che il talento e l’entusiasmo di Abbado abbiano contribuito al successo di queste edizioni promosse da Casa Ricordi, come più tardi faranno le lucide scelte di Gianfranco Mariotti presentando adeguatamente sui palcoscenici del Rossini Opera Festival le partiture della Fondazione Rossini. Senza questi personaggi, l’affermazione del costume di rigore e approfondimento disceso dalla lezione delle edizioni critiche, avrebbe seguito un percorso ben più lento e tortuoso.
Dell’opportunità, anzi della necessità di edizioni critiche per le opere del repertorio lirico italiano si è sempre parlato e scritto: particolarmente di quelle precedenti la promulgazione della legge a tutela del diritto d’autore del 1866, legge che ha provocato il rapido moltiplicarsi di edizioni a stampa. Molte di queste edizioni riguardavano opere composte decenni prima, e il manoscritto su cui venivano basate sovente non era l’autografo, di cui si erano perse le tracce, ma una copia d’uso. É questa la situazione del Barbiere di Siviglia, composto nel 1816 e pubblicato da Ricordi intorno agli anni ’80, Rossini deceduto da anni, partendo dalla copia della partitura utilizzata nel Teatro alla Scala, giacché l’autografo, poi ricomparso alla Biblioteca del Conservatorio di Bologna (oggi Civico Museo Bibliografico Musicale), era in quel momento introvabile, legato alle vicende dell’eredità Bajetti, l’amico a cui Rossini l’aveva donato.
L’operazione partita dalla copia scaligera (i Ricordi prima di diventare editori erano i copisti ufficiali del Teatro alla Scala, i cui preziosi archivi dovevano più tardi rilevare) era allora la più seria possibile e non mancava di una certa legittimità poiché Rossini aveva probabilmente ascoltato senza sollevare obiezione quella versione alterata (con l’aggiunta di un secondo oboe, di un trombone e dei timpani; la scomparsa del secondo ottavino, della chitarra, sostituita dall’arpa, e dei sistri sostituiti dal triangolo; il rimaneggiamento dei legni per ridistribuire le parti originariamente affidate ai due ottavini in coppia; etc.) quando si trovava a Milano per la messa in scena della Gazza ladra nel 1817.
Innumerevoli saggi e convegni hanno trattato l’argomento delle edizioni critiche e le più svariate e strampalate proposte si sono accumulate sui tavoli degli editori musicali. Il problema di fondo era identificare una metodologia che assicurasse rigore scientifico alla trascrizione di testi, per loro stessa natura imprecisi e sommari, senza che venisse meno l’esigenza di chiarezza richiesta dalla loro utilizzazione nella pratica esecutiva.
Si tratta di produrre partiture che si trovino a bell’agio tanto negli scaffali di una biblioteca di consultazione quanto sui leggii degli esecutori, che rispondano dunque alle esigenze dei musicologi ricercatori e a quelle dei musicisti militanti; partiture non oscurate da quantità di segni accessori così massiccia da limitarne la leggibilità.
L’edizione critica del Barbiere di Siviglia ha proposto una metodologia elaborata su questi parametri: il punto nodale consiste nel ricorso all’estensione automatica per quei segni interpretativi che non comportino dubbi sull’opportunità della loro moltiplicazione. Questo criterio ha consentito di eliminare migliaia di inutili parentesi quadre e legature tratteggiate, riservando gli artifici grafici che contrassegnano le aggiunte del curatore a quelle indicazioni che comportino una precisa assunzione di responsabilità, una consapevole scelta fra più soluzioni possibili.
Nel caso specifico degli autografi rossiniani, le prescrizioni interpretative sono talora scarse, anche se quasi sempre sufficienti a precisare un modello dettagliato. La loro estensione è il più delle volte ovvia. Ricorrere a formule grafiche per evidenziare ciascuna di queste indicazioni sovvertirebbe la proporzione fra i segni originali e quelli introdotti dal revisore, sollevando dubbi sulla loro legittimità e appesantendo di simboli estranei la pagina musicale.
Questo principio ha molto semplificato la decifrabilità delle partiture senza porre in questione la serietà dei comportamenti musicologici, giungendo a sbloccare la situazione di stallo che si era determinata fra editoria musicale ed edizioni critiche proprio in ragione di come conciliare rigore e praticità. Il criterio dell’estensione automatica, pur temperata da ogni possibile cautela, è stato accolto da molte collane critiche, a partire da quella rossiniana pubblicata dalla Fondazione Rossini di Pesaro.
Il discorso dell’edizione critica non si esaurisce con la messa a punto di un testo ricostruito nel rispetto scrupoloso della lezione originaria, indispensabile strumento di lavoro per l’interprete esigente.
Poiché in ogni manoscritto mai mancano approssimazioni, lacune, contraddizioni, veri e propri errori, il curatore ha esercitato la funzione critica implicita nella definizione del suo lavoro, intervenendo a correggere, completare, eguagliare con l’ausilio anche di fondi secondarie, manoscritte e a stampa, restituendo ordine logico ove manchi e integrando indicazioni dinamiche e di articolazioni ove opportune. Sono gli interventi di questo tipo che distinguono una edizione critica da un’edizione diplomatica.
L’analitica esplorazione del linguaggio rossiniano imposta dalla ricerca critica, l’approfondimento del processo creativo, la collocazione dell’opera d’arte in un preciso contesto storico e culturale hanno influenzato gli aspetti interpretativi, obbligando a ripensare la prassi esecutiva. Non soltanto si è sceverato fra gli apporti di una tradizione composita, interrotta dall’esperienza romantica e verista, quanto ancora è da ritenersi valido da quanto appare inesorabilmente datato e legato a una visione impropria o distorta del messaggio rossiniano, ma si è risaliti alle radici ideologiche di una drammaturgia per ricercare una chiave di lettura consona a rendere il senso di capolavori tanto complessi e singolari.
L’aspetto vocale ha trovato una congrua soluzione nel recupero dell’esperienza belcantistica, espressa in un virtuosismo d’alto segno, capace di dar vita e immagini a un canto idealizzato e aristocratico. L’aspetto strumentale ha identificato nella trasparenza e nel brillio di un’orchestra impreziosita dall’apporto solistico dei legni e vivacizzata dagli staccati scoppiettanti degli archi il risultato di un dinamismo agonico irresistibile. L’aspetto drammaturgico ha localizzato nel rifiuto del gesto realistico e della situazione scontata la strada per risalire alla matrice del sentimento e raggiungere l’assoluto.
Il risultato dell’operazione Rossini consegna all’ascoltatore d’oggi un compositore elitario e difficile (inaspettatamente difficile se si considera l’apparente semplicità dell’approccio), conservatore nella forma e rivoluzionario nella sostanza, in bilico fra un passato che si rifà al distacco oggettivo dei classici e un futuro che, saltando a piè pari l’esperienza romantica, ricorre a figure della cultura contemporanea quali ambiguità, astrazione, metafora cosparse del sale dell’ironia, agitate dal vento della follia. Sulla scia delle edizioni critiche rossiniane si è diffusa una disciplina, la filologia musicale, che in Italia contava pochi adepti giacché il melodramma, basato su partiture aleatorie pronte ad adattarsi alle esperienze più disparate, sembra refrattario alle esigenze puntigliose dell’ordinatore di testi.
La filologia musicale raccoglie lodi e consensi, ma anche diffidenze e rifiuti: soprattutto da parte di musicisti che temono che il rigore scientifico riduca la libertà dell’interprete, costretto al rispetto di un testo appiattito dall’ossequio alla lezione primigenia.
Chi ha consuetudine con gli autografi dei grandi maestri sa invece che l’abitudine a decifrare i segni dettati dall’ansia febbrile della creazione artistica, punto di partenza della ricerca filologica, porta alla tolleranza e alla discussione, conseguendone un senso di libertà e di autonomia del tutto inattese.
La frequentazione dei manoscritti insegna che il testo che si cerca di restituire al dettato originario esprime soltanto una parte della volontà del compositore, egli stesso prigioniero di convenzioni grafiche incapaci di rendere appieno la folgorazione dell’intuito. La filologia dimostra che il manoscritto non trasmette messaggi conclusivi, da conservare e riprodurre immutabili nei secoli. L’immaginazione dei grandi oltrepassa segni convenzionali che risentono di pratiche esecutive, di atteggiamenti estetici, di consuetudini consacrate dalle mode. La capacità di intuire il futuro, la prerogativa di parlare un linguaggio sempre contemporaneo, familiare anche alle generazioni a venire, fanno sì che nelle pieghe delle frasi musicali tracciate dall’inchiostro si possano cogliere intenzioni, novità, intuizioni impossibili da tradurre in simboli tipografici.
Nei manoscritti del genio si colgono invenzioni grafiche, nuovi codici espressivi, colori strumentali mai uditi, soluzioni tecniche che anticipano e stimolano l’evoluzione: elementi che le edizioni critiche più avvertite cercano di conservare e porre in rilievo. Lungi dal costringere lo sguardo al passato, il manoscritto suggerisce all’interprete aperture per rinnovare tradizioni obsolete e promuovere avventure stimolanti, capaci di rendere meglio comprensibile all’ascoltatore il messaggio di capolavori lontani nel tempo.
La pratica della filologia, l’esame del documento, lo sforzo di ripercorrere in intima comunione con l’autore il tormentoso processo della creazione conquistano all’interprete una serenità di giudizio, un rispettoso distacco dal tracciato di un testo solo parzialmente in grado di rendere la complessità dell’intuizione, che si traducono in una fresca ricerca di traguardi espressivi. La certezza che al di là dei segni convenzionali sia possibile intravedere nei codici immagini non traducibili, spinge il musicista-filologo a rifiutare un pedissequo rispetto al testo per arrischiarsi nel dominio del probabile. Certe proposte, che, a prima vista, possono apparire discutibili, confortate dall’approfondimento filologico si rivelano soluzione giusta per calarsi più a fondo nel pensiero dell’autore e riportarlo alla luce oltrepassando il limite delle convenzioni.
Il termine ultimo della filologia non è dunque quello di restituire un testo rigido e intoccabile nella sua garantita genuinità. Il musicista deve partire dalle certezze di una lezione autentica per ricavarvi quei suggerimenti, quelle sollecitazioni che portino al superamento della lettera per cogliere l’essenziale. E’ ancora al filologo che tocca andare oltre il testo da lui stesso pazientemente disposto per provvedere gli incentivi che portino al suo superamento, consentendo nuove proposte interpretative, favorendo l’evoluzione del gusto e della tecnica. Lui solo avrà la prudenza e la costanza per ridurre il rischio dell’arbitrio, la tentazione dell’illecito. La lunga convivenza col manoscritto, dove un rapporto d’amore viene a sommarsi all’iniziale rispetto, garantisce le indispensabili cautela e serietà.
Queste nuove frontiere richiedono l’impegno a superare l’ambito mentale del musicologo puro per entrare in quello assai meno governabile dalla ragione del musicista.
Il filologo dovrà rompere gli argini della razionalità e della erudizione per addentrarsi, anch’egli come l’autore, nel campo minato dell’intuizione e della fantasia.
Per incidere positivamente sul costume esecutivo, la filologia musicale dovrà essere, oltreché una scienza esatta e una disciplina rigorosa, una sonda introdotta nel mondo misterioso e indefinibile dell’artista. Dovrà farsi carico del recupero di lezioni autentiche e di prassi esecutive legate alla storia dell’opera riproposta e insieme identificare e suggerire gli strumenti idonei per una sua appropriata traduzione ai contemporanei.
I compositori stessi prevedevano per le loro opere un ampio spettro di aleatorietà. Il barbiere di Siviglia ne è buon testimone. Rossini non si è certo scandalizzato che la protagonista femminile, Rosina, mutasse il ruolo vocale sin dalle prime riprese dell’opera, trasformandosi da mezzosoprano in soprano (con relativi rimaneggiamenti per adattarsi alla nuova tessitura); né che alcune arie venissero sostituite con altre composte da chissà chi (vedi l’aria di Bartolo “A un dottor della mia sorte” spesso rimpiazzata con “Manca un foglio” di Pietro Romani); o cantate da personaggi diversi da quelli cui erano destinati (l’aria finale di Almaviva “Cessa di più resistere” che Philip Gossett informa esser passata alla Righetti-Giorgi, prima interprete di Rosina, dopo essere stata abbassata di quattro toni!).
Per quanto riguarda i ritocchi alla strumentazione subiti dalla partitura del Barbiere, passata da un organico cameristico trasparente a una compagine tardo ottocentesca con tromboni e timpani, si è già detto.
Il compositore metteva tutto questo in conto alle consuetudini correnti, che obbligavano a adattare l’opera lirica a situazioni obiettivamente molto diverse fra teatro e teatro, fra pubblico e pubblico. Cambiavano gli organici orchestrali e corali, ma soprattutto cambiavano le caratteristiche degli artisti scritturati cui venivano affidati ruoli concepiti per cantanti di diversa vocalità. Le compagnie di canto non venivano scritturate in base al repertorio da rappresentare ma, al contrario, erano le opere prescelte che dovevano essere “accomodate” alle possibilità degli interpreti vocali. Per tacere di altre più fatue servitù, quali richieste di impresari e committenti, capricci di Dive e Divi di turno.
La storia che Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais ha immaginato e che Wolfgang Amadeus Mozart e Gioachino Rossini hanno consegnato all’immortalità è ambientata a Siviglia, città senza tempo dove una straordinaria civiltà architettonica riverbera bagliori di incanto sul vicolo più modesto, animandolo di vita. L’attività domestica, come in tante città dell’assolato meridione, si proietta nelle strade e nelle piazze dove ricchi e poveri, colti e analfabeti, si mescolano senza pregiudizi e senza barriere. Personaggi che respirano il futuro (Figaro, Rosina, Almaviva) si scontrano ogni giorno con le pigrizie di ieri (Bartolo, Basilio, Berta). Tra i luoghi canonici di incontro, dove prendono avvio conoscenze e amicizie, dove si scambiano notizie e pettegolezzi e si tessono trame, la bottega del barbiere è certamente osservatorio privilegiato. Un personaggio irrequieto come Figaro trova occasioni per maturare progetti ambiziosi.
Figaro è un barbiere molto particolare. Anche se Cesare Sterbini, il librettista di Rossini, non ne fa cenno, Beaumarchais ci dice dei suoi trascorsi di letterato e commediografo. L’insuccesso lo induce a ritirarsi a Siviglia e a ridimensionare le ambizioni. Ma l’intraprendente giovanotto scorda presto la frustrazione e si afferma protagonista: mediatore di sponsali, consolatore di fanciulle e vedovelle, «barbiere, parrucchier, chirurgo, botanico, spezial, veterinario», cerusico, faccendiere…
Nella celebre cavatina di sortita (un uragano di facelle ritmiche e vocali che deve aver sconvolto lo spettatore della “prima” abituato alla grazia sentimentale di Paisiello), Figaro non esalta il benessere che il solerte e intelligente attivismo gli ha meritato, bensì l’ingegnosità e lo spirito di iniziativa che l’hanno elevato a una posizione sociale sconosciuta alla sua classe.
Pronto a far tutto la notte e il giorno
Sempre d’intorno in giro sta…
Tutti mi chiedono
Tutti mi vogliono…
Pronto, prontissimo son come il fulmine,
Sono il factotum della città.
Con questa presentazione Rossini cancella il personaggio dal novero di quegli intriganti, anche ingegnosi, che mai mancano in una storia buffa e lo iscrive tra i protagonisti del moderno self-made man. Per lui dispone un canto perentorio e innovativo anche nel timbro e nella tessitura che sigla la nascita del baritono brillante, sostituto d’ora in avanti dell’eterno basso buffo. Il suo rapporto con il Conte Almaviva è rispettoso, mai servile; quello con Bartolo e Rosina è d’uomo libero, senza complessi, disposto a seguire con determinazione e astuzia le cause che lo entusiasmano.
In ciò diverso da Basilio, il contraltare al seguito di Bartolo, privo di dignità e ambizioni, interessato soltanto al denaro, e per esso disposto a sacrificare intuizioni geniali quali quella esposta nella paradossale lievitazione della Calunnia. Senza lo straordinario successo di quest’aria Basilio sarebbe personaggio di contorno, lontano dall’immensa popolarità che lo circonda.
Rosina, così diversa dalle ragazze del suo tempo, impastate d’ipocrisia e di falsi pudori, incarna una figura femminile sconosciuta ancora alle scene del melodramma. Non ha remore nel confessare all’ignoto corteggiatore il suo palpito d’amore, ma insieme pretende chiarezza e lealtà: “Le vostre assidue premure hanno eccitata la mia curiosità… Procurate di indicarmi… il nome, il vostro stato e le vostre intenzioni”. Anche per Rosina Rossini trova accenti capaci di sottrarla allo stereotipo della giovine perseguitata dal dispotico tutore, proponendola come donna volitiva e indipendente che alterna, per calcolo o per ingenuità, momenti di ribellione a gesti di sconforto, alzate d’orgoglio a lacrime indispettite, iniziative intraprendenti a disarmanti tenerezze. Pur sbiadita rispetto al protagonismo multiforme di Isabella, Clarice o Fiorilla, Rosina è lontana dalla manierata svenevolezza di tante innamorate dell’opera buffa e non sorprende che la sincerità di sentimenti e atteggiamenti lontani dal conformismo convincano il Conte Almaviva a trasformare l’ennesima avventura in un vero incontro d’amore.
Giunto in Siviglia per inseguire il capriccio, ne ripartirà avviato a un matrimonio fuor dalle regole: per la prima volta su un pubblico palcoscenico un grande di Spagna sposerà una non titolata, suscitando proteste dei benpensanti e della censura. L’effimera serenata con strumenti prezzolati “Ecco ridente in Cielo spunta la bella aurora”, tante volte declamata con successo nei corteggiamenti, lascia subito il posto a un canto commosso e sincero “Se il mio nome saper voi bramate”, improvvisato col semplice supporto della chitarra a sottolineare la spontaneità del sentire. Per rendere evidente e inequivocabile il cambiamento intervenuto nell’animo di Almaviva, Rossini ricorre all’espediente rarissimo di accostare in successione immediata due romanze per lo stesso interprete. Almaviva si stacca così dai tanti “amorosi” che nell’opera comica rivestivano ruoli secondari rispetto a quello dei canonici buffi. Favorito dalla disponibilità di un grande baritenore, Manuel Garcia, Almaviva non è più il sospiroso tenorino di grazia della tradizione e, sfoggiando voce e timbro virili, affronta un ruolo di prima grandezza che gli assicura rilievo congruo a vestire i panni impegnativi del Grande di Spagna. Nella prima rappresentazione romana del 1816 l’opera potrà così titolarsi “Almaviva, o sia L’inutile precauzione”, per attenuare il risentimento degli ammiratori di Paisiello, autore di un altro celebrato Barbiere di Siviglia. La presenza di Almaviva viene accentuata in queste rappresentazioni pesaresi dal reinserimento della grande aria tripartita “Cessa di più resistere”, tanto difficile, alla fine di un ruolo impegnativo e faticoso, da venir spesso accantonata, inducendo Rossini a spostarla nella Cenerentola, dove diventa il brillante Rondò finale della protagonista.
Bartolo, il più classico dei personaggi buffi, è figura centrale dell’opera, cui viene assegnata la responsabilità di definire il tasso di comicità, la cifra del divertimento. Rossini lo vuole codino e sospettoso, ma gli fa dono di un rilievo vocale (nella difficile aria tripartita “A un dottor della mia sorte” che spazia da un canto fortemente sbalzato a un vorticoso sillabato virtuosistico) che lo innalza a ruolo di prima grandezza. Stimato professionista, medico facoltoso e ben introdotto, Bartolo rappresenta con bizzosa caparbietà la casta destinata a cedere privilegi e potere alle impazienze liberate dai sovvertimenti sociali. Il suo gretto conservatorismo lo spinge a esercitare un dispotismo autoritario su una piccola corte di frustrati, mortificando a volte il suo status.
La fedele Berta viene confinata a una subalternità senza speranza e Ambrogio spegne la parola in inarrestabili sbadigli. Bartolo si confida solamente con Basilio, sorta di moderno persuasore occulto a mezza via fra l’istrione e il saggio. La sua intelligenza, la sua prontezza a cogliere per primo le situazioni, a scoprire le trame in atto, potrebbero farne un personaggio capitale, ma l’ansia di compiacere al padrone per sbarcare un lunario senza ambizioni lo spinge ad accettare compromessi umilianti. Anche Berta risulta simpatica e non marginale grazie a un’aria di “sorbetto” particolarmente felice e divertente che Rossini ha voluto comporre di sua mano e non affidare, come tante volte ha fatto, al collaboratore di turno.
I personaggi del Barbiere, pur lontani da una definizione psicologica chiaroscurata negata alla musica di Rossini, sono scolpiti con icastica esattezza e con cattivante personalità ed è naturale ascriverli al mondo della commedia di carattere piuttosto che a quello più circoscritto della farsa. Se non hanno lo spessore, la conturbante ambiguità di Leporello, di Zerlina, di Don Alfonso, certo non sono più le macchiette convenzionali dell’opera buffa napoletana o della Commedia dell’Arte. Per la consequenzialità logica e per l’indubbio peso specifico di personaggi accuratamente tratteggiati, il soggetto si situa nell’area di un realismo elegante e colto: quel realismo che il vocabolario astratto di Rossini cerca in genere di evitare.
L’atteggiamento nei confronti del denaro, di cui tanto si parla nel corso dell’opera, distingue ulteriormente il mondo dei giovani e degli adulti.
Figaro lo tiene in gran conto e gli attribuisce virtù taumaturgiche:
Ah, non sapete i simpatici effetti prodigiosi
che… produce in me la dolce idea dell’oro?
ma lo ricerca per trarne stimoli:
All’idea di quel metallo
Portentoso, onnipossente,
Un vulcano la mia mente
Incomincia a diventar.
e farne strumento di elevazione sociale:
Già viene l’oro già vien l’argento…
E di me stesso maggior mi fa.
piuttosto che per semplice cupidigia.
Rosina non se ne cura: pur erede di una cospicua dote non fa nulla per difenderla dall’avidità di Bartolo che, sposandola, gliela vorrebbe sottrarre. Del denaro evoca l’immagine, in negativo, solo quando sospetta che il suo Lindoro possa averla tradita “per venderla alle voglie di quel suo vil Conte Almaviva”.
Quanto al Conte, il Duetto con Figaro del primo atto e il Quintetto del secondo mostrano con quale disinvoltura, assenza di scrupoli e arroganza il ricco maneggi il denaro, aggiungendovi ancora la spensieratezza dissipatoria del giovin signore. Almaviva conosce bene il valore corruttivo del denaro, tant’è che quando vuole nascondere a Rosina la vera identità se ne spoglia: “Ricco non sono ma un cuore vi dono” per essere certo che Rosina lo ami per quello che è e non per le “le ricchezze e i titoli del Conte Almaviva”.
Basilio ne è avido e lo ricerca senza ritegno. La sua venalità, al contrario di quella di Figaro, è però senza ambizioni. Quando Bartolo non coglie il potenziale corrosivo racchiuso nella teorizzazione della calunnia, egli abbandona il progetto senza discutere, con un commento che dietro l’apparente cinismo nasconde un’ombra di tristezza: “Vengan denari: al resto son qua io”.
Anche Bartolo insegue il denaro contro la dignità. Quando, a fine opera, allo smarrito balbettìo “Ma… e la dote? Io non posso…” Almaviva ribatte “Va te la dono. Io di dote bisogno non ho”, Bartolo esce in una squallida risata di soddisfazione.
Il filone principale della commedia, quello amoroso, è condotto per via indiretta e traslata, ricorrendo a messaggi epistolari, ambasciate, serenate, allusioni, contatti rapidi e timorosi, doppi sensi cifrati (fondamentale quello del titolo “del nuovo dramma in musica”, “L’inutile precauzione”). L’amore tra Rosina e Almaviva si nutre di ingredienti sconosciuti alle storie di passione. I due giovani si trovano soli soltanto per brevi istanti, cosicché il discorso amoroso viene costruito per frammenti, deduzioni, emozioni indirette, risultandone una dimensione surreale, fascinosa nella sua calcolata discrezione.
Gli amanti di Rossini, anche quelli del Rossini “serio”, non si dilungano mai in effusioni, ma Rosina e Almaviva sembrano sorpassare ogni limite. Il gioco del desiderio si fa talmente sottile ed esasperato che nel terzetto finale (in realtà un vero e proprio duetto d’amore col contrappunto ironico di Figaro) i due giovani, finalmente accostati, dimenticano effusioni e parole d’amore e, straniati da ciò che li attornia, si rifugiano nell’estasi di un canto liberato da ogni senso logico vocalizzando su fonemi.
Il contrasto generazionale fra i personaggi del Barbiere trova puntuale riscontro nell’invenzione teatrale. Quelli del mondo di ieri tendono alla caricatura e si muovono in un ambito psicologico generico e scontato; quelli che incarnano tipologie nuove hanno comportamenti realistici, anche nel divertimento, che pretendono coerenza e credibilità. I primi si possono facilmente ascrivere al mondo fantasioso del comique absolu caro alla Commedia dell’Arte; i secondi appartengono al comique significatif che contrassegna la moderna commedia di carattere, nata dalla lezione di Molière e di Goldoni. Queste tendenze contrapposte, che convivono in un intreccio inestricabile alimentato dal ricorso all’antico meccanismo del travestimento, rendono difficile la ricerca di una chiave di lettura unitaria, di una cifra di convincente coerenza.
Esse danno origine a interpretazioni opposte. Le une privilegiano le sottolineature buffe, le trovate a briglia sciolta che muovono il riso ma mortificano il tono elegante e raffinato dell’ispirazione rossiniana e immiseriscono i significati di una storia intelligente. Le altre, più attente ai contenuti psicologici e sociologici del dramma, tendono a imbrigliare i momenti dell’astrazione per meglio far risaltare gli aspetti della commedia, anche dove è improbabile costruire attorno al personaggio o alla situazione un credibile coefficiente di verità.
Il contrasto nasce dal testo letterario piuttosto che dalla partitura musicale e trova giustificazione nei cambiamenti che il librettista Sterbini ha dovuto introdurre rispetto all’originale di Beaumarchais per provvedere al compositore i concertati d’obbligo nella rigorosa successione delle forme chiuse rossiniane. E’ infatti nel grande Finale Primo che comincia a manifestarsi quella dicotomia di comportamenti stilistici che fanno del Barbiere di Sivigliaun’opera problematica.
Nella commedia l’atto termina quando Almaviva, prima di lasciare la casa perché lo stratagemma di farsi ospitare come “ufficiale del nuovo reggimento” viene vanificato dal “brevetto” che esenta Bartolo dall’incombenza, cerca di consegnare a Rosina un biglietto. La manovra viene intercettata da Bartolo che, partito il Conte, pretende di vedere il messaggio. Rosina riuscirà a sostituirlo destramente con altro, sicché il sipario si chiude con lo scorno del tutore. L’episodio, circoscritto a due personaggi, non poteva evidentemente soddisfare le esigenze di una chiusa d’atto di opera lirica. Sterbini dovette così inventare azioni che consentissero di riportare in scena gli interpreti e il coro per un finale che concludesse degnamente gli oltre 90 minuti dell’atto primo. Nasce così la baruffa che farà accorrere «la forza» e si tramuterà nella strepitosa confusione del “Mi par d’esser con la testa in un’orrida fucina”.
I versi di Sterbini non hanno la finezza introspettiva dei dialoghi di Beaumarchais, né del resto la nuova situazione gliene offrirebbe il destro, sicché ci troviamo di fronte a frasi e circostanze da libretti d’opera comica, non diverse da quelle che hanno dato luogo allo strepitoso Finale Primo dell’Italiana in Algeri.
Rossini, invitato all’astrazione del gioco, allo scatenamento della follia, non perde l’occasione di una nuova folgorante invenzione, tra le sue più belle. Ma, drammaturgicamente parlando, i personaggi che assordano l’ufficiale della guardia scavalcandosi l’un l’altro nell’irresistibile scioglilingua intonato da Bartolo “Questa bestia di soldato mio signor m’ha maltrattato”; che trascolorano nello stupefatto “Freddo ed immobile come una statua”; che impazzano nella confusione dell’orrida fucina non sono più il Conte d’Almaviva, il Dottor Bartolo, il Maestro Basilio, il Cittadino Figaro bensì anonime, divertenti macchiette tratte dall’infinita galleria dell’opera comica tradizionale.
Se Rossini si fosse limitato a questa intromissione nel comique absolu, il contrasto stilistico non sarebbe stato grande poiché i raggiungimenti musicali di questa stretta sono così alti da motivare ampiamente una sorta di straniamento generale, conseguendone un efficacissimo coup de théâtre. Rossini e Sterbini, rotti gli argini dell’ossequio a una cifra vincolante, si permisero nel secondo atto più pesanti incursioni nella farsa, sollecitati dal travestimento d’Almaviva, rischiando di non allineare l’invenzione musicale a una dimensione psicologica adatta al realismo della vicenda.
Rossini stesso sembra indicarci la via per conciliare i contrasti. Come aveva fatto l’anno precedente con Elisabetta regina d’Inghilterra, egli compie col Barbiereun’operazione disinvolta che si trasforma, per gli insondabili apporti del genio, in mirabile traguardo di poesia. Per Il barbiere di Siviglia, infatti, fa ricorso ad autoimprestiti di inconsueta ampiezza, tratti da opere serie, da cantate celebrative, da farse. Poiché le pagine riutilizzate, distribuite sull’intero arco dell’opera, interessano una percentuale considerevole dei pezzi musicali, stupisce che non ne sia risultato un centone incongruente. Giacché non è lecito attribuire al caso la genesi di un capolavoro – né di caso isolato si tratterebbe – si deve concludere che la morfologia rossiniana, il modo di organizzare le microstrutture del suo linguaggio siano tali da sottrarsi alle leggi del musicista e dell’operista. La peculiarità di un vocabolario musicale che deve alla estrema semplicità dei suoi componenti la conquista di una asemanticità assoluta e quindi di un’ambivalenza espressiva senza limiti, pone il lessico rossiniano al riparo dall’insidia delle contraddizioni. Il compito di sconfiggere l’anonimato della struttura cellulare è assolto da un elemento che si configura come tratto caratteristico e personale: l’ornamentazione vocale. L’impiego di una fioritura di illimitata fantasia, di infinita varietà di formule che trova il comune denominatore in un virtuosismo condotto ai traguardi estremi da un acrobatismo capace di sprigionare ogni tipo di reazione emotiva, consente al canto rossiniano di coprire l’intera gamma dell’espressione.
Ne deriva un canto stilizzato ed emblematico, guidato dalla razionalità del cervello piuttosto che dai moti del cuore, restio a ricalcare l’enfasi della parola declamata, sovente scomposta in melismatiche volute.
A questo canto giova il recupero della prassi belcantistica di variazioni e cadenze, per piegarlo più facilmente alle ragioni espressive dell’interprete. Vestire le cadenze, nei punti stabiliti dal compositore con l’arresto della corona, o variare i da capo, laddove la frase vocale si ripresenta identica, è un modo, a volte il solo modo, per mutare espressione, per accrescere la tensione, per sottolineare con ulteriore evidenza l’affetto celebrato.
Il canto rossiniano non rinuncerà mai alla matrice belcantistica fondata su un tecnicismo sublime che attiene alla categoria dell’astratto ed è l’esatto contrario di ogni domanda di realismo. Per questo canto Rossini rinuncerà a inoltrarsi nel dominio romantico, dove esprimere un sentimento conta a volte più del sentimento stesso.
Se il compositore riesce a cucire in un discorso senza smagliature un assemblaggio di frammenti eterogenei, perché mai non dovrebbe riuscirci l’interprete, il cui compito è tanto più leggero?
Basterà leggere l’opera come una trama splendidamente congegnata dove la gioiosa allegrezza che promana da una musica felice si sostituisca al divertimento che si esaurisce nell’automatismo della risata.
Alberto Zedda