Non sappiamo perché Gioachino Rossini si sia lasciato tentare dalla favola di Cenerentola, la più classica, la più popolare delle fiabe. Da lui – compositore che rifiuta il gesto realistico e il sentimento retorico per ricercare un bello ideale sospeso in un altrove sottratto alla banalità del quotidiano – sarebbe stato lecito attendersi una lettura poetica della storia, intessuta di astratte fantasticherie, animata dal gioco dell’immaginazione. Quale trama meglio di questa potrebbe ospitare fate, elfi, principi azzurri, creature angeliche in lotta con le forze del male perché al fine trionfi la bontà? Finalmente un soggetto che affranca Rossini dall’obbligo di ricercare definizioni psicologiche difficili per la sua corda; che sfugge al rischio di situazioni sconvenienti alla riservatezza aristocratica della sua musa. Rossini invece, accogliendo il libretto di Jacopo Ferretti risalente alla Cendrillon di Etienne, procede in direzione opposta: sostituisce l’eterea fatina della fiaba con un ajo saccente e giudizioso; trasforma la tenera protagonista in una vittima tiranneggiata da due fatue sorellastre e da un padre malvagio e tracotante; trasforma la rutinaria figura del tenore amoroso in un amante capace di autentica passione e di slanci generosi; ingarbuglia la semplicità della favola introducendo un personaggio, Dandini, che anziché limitarsi al gioco antico dei travestimenti si cimenta con situazioni da metateatro, inoltrandosi nei labirinti dell’inconscio.
L’aver preferito una traduzione realistica della fiaba respingendo l’occasione per sfoggiare la propensione all’astratto, fornisce una riprova dell’intelligenza di questo compositore che non cessa di sorprendere. Rossini intuisce che è difficile per la sua musica limpida e solare, estranea alle sfumature chiaroscurate, proiettare nell’immaginario fantastico le figure evanescenti della favola: è dunque partendo dalla materialità di gesti e personaggi reali che la capacità trasfigurante del suo linguaggio può compiere il miracolo di trasformare in assoluti di poesia i topoi del genere buffo. Non a caso ne L’italiana in Algeri il culmine di un divertimento raffinatissimo si raggiunge all’appuntamento banale del Pappataci. A questa intuizione Rossini aggiunge il calcolato disordine della follia, mescolando senza ritegno elementi drammaturgici sensatamente inconciliabili.
L’isterismo di Clorinda e Tisbe, geometrica e stilizzata rappresentazione di una robotica vacuità, si scontra con la dolente umanità di Cenerentola, il personaggio più vero e commovente (con la Ninetta di Gazza ladra) uscito dalla sua penna. Clorinda e Tisbe trovano nelle nervose figurazioni di Allegri, Concertati e Strette meccanismi infallibili per la frenesia della stupidità; Cenerentola viene gratificata da accenti sinceri e commossi, rari nelle opere di Rossini, e l’ascesa alla felicità è marcata da un percorso vocale che dall’ingenua elementarità della canzonetta di sortita “Una volta c’era un re”, inconscia e consolatoria anticipazione della sua stessa storia, arriva all’affermazione, davvero regale, del Rondò conclusivo “Nacqui all’affanno”, trascorrendo per le pagine dolci e sognanti del Duetto con Ramiro “Un soave non so che”, dove si risveglia la donna; per quelle drammatiche del Quintetto “Signore, una parola..”, dove nasce una ribelle presa di coscienza; per la superba affermazione di ”Sprezzo quei don” , dove si manifesta la nobiltà del sentire; per la generosa supplica di “Ah, Signor”, dove emerge la commozione di una bontà infinita. La dolcezza di tante sue frasi melodiche si sposa con la vocalità prettamente belcantistica arricchendola di pathos e raggiungendo un equilibrio ideale fra il rutilare di un virtuosismo spericolato e il distendersi di un canto spiegato, aperto alle vibrazioni del sentimento.
Cenerentola è, dal principio alla fine, personaggio d’opera seria che spicca con straordinaria evidenza proprio perché le si contrappongono caratteri di segno opposto. Anche d’opera seria sono i personaggi coi quali ella stabilisce un rapporto positivo: il principe Ramiro, che le dischiuderà l’incanto dell’amore, e il buon Alidoro, che indirizzerà il suo discepolo, Ramiro, alla giusta scelta della sposa. Il duetto fra Cenerentola e Ramiro costituisce un prototipo insigne di quei prodigiosi incontri fatali, con subitanea comparsa dell’amore, che sono esclusività precipua dell’opera lirica. Come spesso nei duetti d’amore di Rossini, i due giovani non si parlano direttamente e non si toccano: ma la scintilla scatta così forte da far cadere a terra le stoviglie che Cenerentola ha in mano. Poi Ramiro e Cenerentola, “da sé”, cantano la propria emozione con una tenerezza, una misura intensa e contenuta da non lasciare dubbi sulla natura del sentire che fa battere il cuore. Cenerentola, guidata dal radar dei sentimenti giusti, gioca le carte di una seduzione femminile più credibile e articolata di quella di Rosina, alternando ad arte debolezza e fierezza, tenerezza e orgoglio, malinconia e felicità. Con Rosina divide la peculiarità, tutta rossiniana, di costruire il rapporto d’amore, sino al traguardo estremo del matrimonio, senza sviluppare un dialogo con l’amato, senza confrontarsi un sol momento con lui da sola a solo, senza l’occasione di approfondire la conoscenza reciproca, di saggiare la sincerità dei sentimenti. Sembrerebbe impossibile, quantomeno irrazionale, credere e partecipare con commozione a una storia d’amore dove viene sistematicamente evitato il rapporto diretto fra i soggetti della passione, che mai si scambiano una parola dolce, mai manifestano un gesto di corteggiamento, interscambiano uno sguardo di desiderio. Eppure non v’è chi non consideri Cenerentola, come già Il barbiere di Siviglia, una gioiosa storia d’amore a lieto fine, partecipando passo a passo al suo progredire e prendendo emotivamente le parti degli amanti quando il malvagio di turno cerca di spezzare l’ascesa alla felicità.
Ciascuno di loro disvela i sentimenti e sviluppa la propria personalità direttamente al pubblico, invece che al partner ( a volte presente all’azione frammezzo ad altri personaggi, a volte del tutto assente), attraverso comportamenti e ammiccamenti che vengono recepiti e trasferiti automaticamente ai protagonisti del gioco, sostituendosi a loro nel giudizio e nella reazione emotiva. Un procedimento drammaturgico che assegna all’ascoltatore una funzione attiva di cointerprete e lo coinvolge direttamente nel meccanismo interpretativo primario, ragione non ultima dell’attuale fortuna di questo singolare autore di teatro musicale.
Nella versione adottata in queste rappresentazioni, Alidoro canta un’aria di grande respiro e di estrema difficoltà “Lá del ciel ne l’arcano profondo” che Rossini ha composto nell’occasione di una ripresa della Cenerentola sulle scene romane del Teatro Apollo nel dicembre 1820. Alla prima del gennaio 1816 al Teatro Valle Alidoro si presentava con un’aria ben più modesta, “Vasto teatro è il mondo”, musicata da Luca Agolini, collaboratore di Rossini in quello spettacolo e autore anche dei recitativi secchi. Il Maestro aveva probabilmente rinunciato a comporla perché l’interprete a disposizione non garantiva un livello adeguato all’importanza della situazione. Quando poté contare sull’ottimo Gioachino Moncada, appunto nelle repliche del 1820, Rossini scrisse per Alidoro un’aria tripartita, preceduta da un vasto recitativo strumentato, che pretende una superiore tecnica belcantistica e un eccellente registro acuto, difficile da conciliare con la restante parte del ruolo, concepito per voce di autentico basso. A Luca Agolini Rossini affidò anche altri due numeri di minor peso: il coro dei Cavalieri “Della fortuna insolita’ che apre in maniera drammaturgicamente appropriata il secondo atto, e un’aria per Clorinda “Sventurata, mi credea” che si preferisce omettere per non alterare la simmetria del ruolo di questo personaggio con quello parallelo di Tisbe.
Cenerentola non riesce a stabilire dialogo con le sorellastre Clorinda e Tisbe, bloccato sul nascere dall’indifferenza e dal disprezzo, né trova un rapporto d’affetto col padre nonostante lo ricerchi disperatamente sino alle ultime battute dell’opera, quando lo invita a condividere il suo trionfo. Con Dandini il contatto rimane deferente e cortese, ma estraneo e formale. L’impossibilità di comunicare con lui è resa da Rossini con un artificio geniale: quando Cenerentola, dopo la sua apparizione alla reggia, si rivolge con accenti di grande nobiltà al supposto principe, Dandini non trova di meglio che risponderle ripetendo caricaturalmente le sue stesse figurazioni vocali, riprese identiche. Un espediente per consentire a Dandini di assumere un tono aristocratico che gli è estraneo, ma anche la trovata di un grande drammaturgo per suggerire un vuoto esistenziale recitando il monologo di un personaggio che nella realtà non esiste. Don Magnifico è un topico personaggio d’opera buffa, ma la cifra della sua comicità è diversa da quella che contrassegna Clorinda e Tisbe: le sue gargantuesche smargiassate, l’esuberanza plebea, l’egoismo e la cattiveria di nobilastro decaduto lo collocano nel comique significatif, disegnando un individuo che si può ancora incontrare nei canti di Spaccanapoli, lontano dal panorama astratto e meccanico del comique absolu, dove vagolano le sorellastre di Cenerentola.
Questa commistione di stili, questo convivere di personaggi che abitano pianeti lontanissimi fra loro, anziché dar luogo a un discutibile centone di sollecitazioni eterogenee, ha forgiato un capolavoro di eccezionale tensione espressiva e di coerente organicità. La varietà delle emozioni ha costretto Rossini a una girandola di invenzioni musicali, stimolando al massimo una creatività ribelle ai percorsi predeterminati della logica, conseguendone lampi di originalità, sviluppi inaspettati, sorprese che allargano le regole della drammaturgia melodrammatica.
Nessuno si stupisce che la ricerca della sposa ideale, bandita nel reame con solenni proclami, venga circoscritta, con insolente sfida al buon senso, fra una fanciulla tutta bontà e virtù e due sorellastre sentine d’ogni vizio. Né sorprende che Cenerentola si presenti alla gara, sola presenza femminile, in una reggia abitata da soli uomini, assurdo certamente provocato dall’assenza del coro femminile nell’organico del teatro committente, ma recepito senza traumi da Rossini, lieto di sfidare una volta di più il senso comune.
Difficile dare una classificazione a quest’opera. Rifiutare l’appellativo di opera comica per collocarla nel genere semiserio è soltanto un escamotage. Le gioverebbe forse la definizione dramma giocoso che Mozart ha escogitato per il suo Don Giovanni. La Cenerentola rappresenta comunque un’opera chiave per indagare e mettere a fuoco le caratteristiche precipue, le potenzialità espressive della musica di Rossini, la sua capacità unica di adattarsi alle situazioni più disparate senza mai apparire fuori luogo, senza smarrire la carica significante. È una delle poche opere che ci trova sempre disposti all’ascolto, ogni volta capace di rinnovare lo stupore e la freschezza di equilibri perfetti, una delle poche dove Rossini non abbia fatto ricorso all’autoimprestito, alle abituali parodie. Il testo letterario, considerato senza l’ausilio trasfigurante della musica, appare frutto di un mestiere abile, ma senza voli. Supporto di un’operazione teatrale firmata Rossini, si rivela consono al discorso stralunato dell’invenzione musicale, intelligentemente e felicemente preordinato a far scoccare la scintilla che accende tante pagine dell’opera. Vien da citare il sestetto del secondo atto “Questo è un nodo avviluppato”: la musica conserva alle parole il valore onomatopeico, sicché “l’intreccio” di questo “nodo avviluppato” si “sviluppa” e “inviluppa”, si “sgruppa” e “raggruppa” in un divertito scioglilingua che pare non finire mai. L’uniformità del movimento cadenzato, che avanza con l’indifferenza di un compressore a travolgere ogni regola musicale e a determinare un’ipnotica sospensione, è ravvivato dalle entrate canoniche delle voci e da improvvisi bagliori di rapide quartine che salgono e scendono, affidate a turno ai vari personaggi. Poi il martellamento riprende inesorabile sino alle cadenze conclusive, accentuato dal consueto crescendo ed elettrizzato da un infoltirsi di trovate strumentali. Esempio preclaro di come Rossini riesca ad ottenere l’effetto di immobilità, di arresto totale della vicenda, ricorrendo paradossalmente al movimento. La contraddizione si concilia racchiudendo il discorso musicale in una cornice di rigorose simmetrie, dove la propulsione si annulla girando su sé stessa, come avviene col moto uniforme della trottola. Ne risulta una carica emotiva che va cumulandosi, creando nell’ascoltatore una tensione indicibile che solitamente esplode in applausi liberatori. Una provocazione che sollecita l’estro iconoclasta di Rossini e cattura il piacere dell’ascoltatore, invitato a partecipare consapevolmente a questo gioco dell’intelligenza e della fantasia.
Alberto Zedda
In programma di sala Teatro Comunale di Bologna 1992